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DIAGNOSI DEL TERRORE

Cesare De Silvestri

 

Sul terrorismo sono state scritte innumerevoli opere, ma in questo breve articolo vorrei parlare soltanto dei problemi di terrore che le persone comuni possono sviluppare davanti agli atti di terrorismo. Non "reazione" a questi atti, quindi, ma - secondo la teoria psicologica della mia scuola - l'atteggiamento che gl'individui possono attivamente assumere di fronte agli eventi.

Ho già scritto qualcosa in un paio di precedenti paginette ("L'11 Settembre e la RET", Titbits 1, 2002; e  "Ve l'avevo detto", Titbits 2, 2004), riportando anche l'ipotesi patogenetica di Albert Ellis  (“Getting rational about  September 11”, New Therapist,16). sul fenomeno degli attentatori suicidi e sugli atteggiamenti che possono assumere gl'individui che direttamente o indirettamente ne sono o pensano di poterne essere il bersaglio. E segnalavo il probabile aumento d'importanti problemi d'ansia, depressione, ostilità e colpa relativi appunto al rischio d'ulteriori e più diffusi episodi di stragi, con un conseguente aumento del nostro lavoro di operatori della salute mentale. Naturalmente sono importantissimi anche i problemi che i superstiti e i parenti delle vittime possono elaborare su tali episodi di terrorismo,  ma si tratta di casi particolari, con elementi traumatici e  scioccanti che vanno trattati in modo specifico. E in certa misura questo vale anche per  gli eventuali problemi dei funzionari e dei volontari (first responders) che accorrono su i luoghi della strage per fornire soccorso, aiuto e conforto ai superstiti.Se invece si tratta  di persone che non si sono nemmeno trovate nelle immediate vicinanze dei fatti,  che ne hanno avuto semplicemente notizia tramite terzi o attraverso i mezzi di comunicazione di massa, ma che sviluppano un notevole disagio psicologico e si rivolgono a noi, allora abbiamo a che fare con un diverso problema che va analizzato, definito e descritto nelle sue determinanti essenziali. Non sto ovviamente parlando del generico atteggiamento cognitivo-emotivo-comportamentale che la maggior parte della gente può sviluppare di fronte al fenomeno,  e che si manifesta con una maggiore attenzione all'ambiente e alle persone vicine, diffidenza, apprensione e scelte prudenziali. Pur essendo spesso ingiustificato, tale atteggiamento rientra pur sempre nell'ambito dei dettami di un funzionale buon senso,  e di norma non provoca disturbi psicologici d'interesse clinico. Si tratta, semmai, di un problema sociale che può essere gestito a livello istituzionale, mediatico e comunitario - come accennerò  in coda a queste considerazioni.Il mio discorso riguarda invece l'esasperazione di tale atteggiamento con assolutizzazioni cognitive, vivaci attivazioni neuro-vegetative e neuro-muscolari che possono assurgere a dignità di veri e propri disturbi cognitivo-emotivo-comportamentali.

Premessa

Quanto segue è il modesto sommario, poco più di un'ipotesi patogenetica che mira ad  elaborare quella di Albert Ellis adattandola a ciò che  mi risulta da una lunga esperienza clinica come psichiatra e psicoterapeuta.Già da adolescente,  durante la Seconda Guerra Mondiale, ho avuto modo di conoscere persone in preda al panico per i bombardamenti aerei,  nonché  per altri episodi e rischi bellici. L'inizio però di un vero interesse professionale nei problemi di preoccupazione, ansia, depressione, ostilità e colpa, risale a dopo la laurea in Italia (1953) e l'addestramento in psicoterapia RET (ora REBT) in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Il racconto dei superstiti dei terroristici bombardamenti nazisti su Londra,  ma soprattutto i colloqui formali ed informali con colleghi, amici e conoscenti dopo qualche attentato dell'IRA nella capitale ed altrove,  mi hanno permesso una comprensione più precisa delle elaborazioni cognitive, degli stati d'animo, e dei comportamenti relativi ad episodi di stragi, ferimenti, mutilazioni, lutti e distruzioni. La stagione delle Brigate Rosse in Italia mi ha messo poi  in diretta relazione professionale con personaggi che a maggiore o minor ragione si credevano nel mirino dei brigatisti. E più recentemente ho avuto contatti con Israeliani e Palestinesi e con la loro quasi quotidiana esposizione al rischio di attentati o di rappresaglie militari.Infine l'attuale situazione del terrorismo internazionale mi è sembrata tale da consigliare di esaminare più partitamente i diversi aspetti dei disturbi e problemi psicologici ad essa collegati.  Offro pertanto queste brevi note ai colleghi e agli allievi che vorranno approfittarne nella  loro riflessione e nel loro lavoro - con la speranza che esse si dimostrino completamente inutili o sorpassate a causa di un improbabile ma auspicabile recedere del fenomeno e dei relativi casi clinici di terrore.  

Assessment (ABC)

Il meccanismo fondamentale di questo terrore è rappresentato da una serie coordinata di processi cognitivi (pensieri, definizioni, interpretazioni, giudizi, convinzioni) che si accompagnano ad intense attivazioni neuro-vegetative (stati d'animo, emozioni) e concomitanti attivazioni neuro-muscolari (comportamenti o tendenze comportamentali). I processi cognitivi in gioco iniziano di solito con una tenace concentrazione dell'attenzione sulla possibilità che un atto terroristico abbia luogo e che direttamente o indirettamente colpisca il paziente o suoi familiari, o amici -  od anche estranei che abbiano però almeno qualcosa in comune con il paziente (vicinanza, nazionalità, appartenenza allo stesso gruppo sociale, politico, religioso, eccetera). Il passo successivo  consiste in una previsione del paziente che conferisce altissima probabilità e quasi certezza al verificarsi dell'evento.Con altrettanta certezza, il paziente prevede ed immagina che l'evento si verificherà nelle forme più disastrose e cruente - senza possibilità di salvezza,  né di rimedio o trattamento. Il quadro che si delinea nell'immaginazione e nella definizione verbale del paziente è la risultante composta di tutte queste previsioni,  e prende la forma di un  tremendo disastro insopportabile ed irreparabile. Le attivazioni neuro-vegetative del paziente si manifestano con emozioni e stati d'animo di acuta ansia del disagio (eventualmente anche dell'io), con estrema apprensione, trepidazione, allarme, agitazione ed angoscia. Il comportamento può limitarsi ad un'ossessiva sorveglianza delle persone vicine, ma può anche giungere ad espressioni non verbali e verbali di sospetto e a movimenti di allontanamento o fuga. A questo punto, il paziente può considerare la situazione come disperata e senza via d'uscita e cadere quindi  in uno stato d'animo di profonda depressione autocommiserativa,  impotenza, prostrazione, riduzione del repertorio comportamentale, chiusura e rinuncia alle sue precedenti normali attività, problemi secondari di evitamenti progressivi (2nd ABC),  sino alla totale passività e paralisi.

2nd ABC?

Talvolta, però, i processi cognitivi del paziente possono intraprendere un diverso  percorso che può far pensare ad un altro problema secondario (oltre a quello d'evitamento)  ma che potrebbe anche rappresentare  un  altro problema primario parallelo rispetto al primario principale analizzato  sopra. Se infatti il paziente non cade nella più disperata e impotente depressione ma rimane preda dell'ansia acutissima delle sue previsioni, i suoi ulteriori processi cognitivi possono concentrarsi nel  tentativo di immaginare ed elaborare una qualche strategia o tattica difensivo-protettiva.Per contro, tale tentativo può insorgere  quasi immediatamente di fronte alla percezione del possibile pericolo ed alla valutazione di esso come estremamente grave (awful = terribile), senza però attraversare o dando per scontati tutti gli stadi previsionali elencati prima. In entrambi i casi, tale orientamento cognitivo può servire in certa misura ad eludere il rischio di precipitare in una disperata, passiva  depressione, ed anzi motiva il paziente ad assumere un atteggiamento più attivo di fronte all'eventualità temuta.I processi cognitivi in gioco consistono essenzialmente in tre convinzioni. La prima riguarda il fatto che sia possibile raggiungere una sicurezza assoluta o un controllo altrettanto assoluto sullo svolgersi degli eventi - una specie di soluzione perfetta di fronte al problema. La seconda è che quindi è assolutamente necessario raggiungerla. E la terza rappresenta l'apparentemente logica conseguenza che se tale sicurezza non viene raggiunta, allora l'evento temuto avverrà in tutto il suo orrore.Di solito questi  pazienti riescono ad illudersi di aver realizzato un certo grado di sicurezza, ma si tratta ovviamente di un equilibrio estremamente precario. L'illusione della falsa sicurezza basta comunque a trattenerli dell'imboccare la completa sequenza cognitiva del primario principale sino alla sua micidiale depressione. L'eventualità non è tuttavia molto remota. Basta infatti una perentoria smentita fattuale o logica dell'illusione di sicurezza per scompensare lo stato emotivo del paziente. Occorre pertanto tenerla bene presente nel lavoro con lui. 

La costellazione problematica

Questa prospettazione schematica della struttura cognitivo-emotivo-comportamentale del problema "terrore" rappresenta soltanto l'ossatura di un meccanismo centrale che si presenta già dotato di alcune possibili articolazioni. Si parte infatti da un primario d'ansia del disagio e depressione aucommiserativa con eventuale secondario d'evitamento, oppure con un secondario d'ansia del disagio e ricerca di sicurezza e controllo che può esitare in una depressione autocommiserativa riverberante sul primario. Può anche avvenire, però, che i processi cognitivi del paziente effettuino un percorso più rapido che di fronte alla percezione del possibile pericolo lo giudica sùbito come estremamente grave (awful = terribile) senza attraversare tutti gli ansiogeni stadi previsionali del primario, e approda immediatamente all'ansiosa ricerca di sicurezza e controllo - con il rischio di ricadere nella depressione autocommiserativa del primario.

Ostilità

Ma la costellazione problematica si può ulteriormente complicare per l'innestarsi su tale struttura centrale di una serie di altri problemi di vario contenuto e livello. Si tratta in genere di problemi sovraordinati alla sofferenza primaria - sia essa di natura ansiosa o depressiva.Uno dei più destruenti sul piano personale e sociale è rappresentato dalla condanna, disprezzo ed esecrazione dei reali o supposti colpevoli della situazione e dei loro complici, con stati d'animo d'animosità, malevolenza ed odio verso di loro o generalizzati ad interi gruppi, stati, etnie  e popoli, e con comportamenti ostili che possono divenire aggressivi sino ad azioni punitivo-vendicative più o meno cruente ma che possono arrivare anche alla persecuzione, al linciaggio e iniziative terroristiche di rimando.  

Depressione autosvalutativa

Più grave per le conseguenze talvolta suicidiarie della profonda sofferenza che provoca e che va ad aggiungersi a quella primaria, è lo sviluppo di un giudizio estremamente negativo di se stesso (depressione autosvalutativa) che un paziente può arrivare a formulare sulla base della sua disperata situazione e della sua incapacità di porvi rimedio,  ovvero del suo fallimento nel tentativo di trovare una soluzione di completa sicurezza o controllo.   

Colpa

Un paziente può infine accettare e fare proprie in tutto o in parte le dichiarazioni delle centrali terroriste  ed elaborare  la convinzione di essere direttamente o indirettamente, storicamente od attualmente responsabile della situazione geopolitica - o come singolo  individuo o come appartenente al mondo e alla cultura contro di cui si appuntano le azioni terroristiche.Anche questo rappresenta un problema sovraordinato al disagio e alla sofferenza del paziente di fronte ai massacri e agli eccidi, allo stato di precarietà e incertezza in cui vive e in cui immagina che viva anche  la maggior parte della gente. Un esempio d'egocentrismo cognitivo che lo conduce ad una condanna globale di se stesso, degli altri  e dell'intero mondo in cui si trova.  

Dissuasione

In tutte queste circostanze, quale che sia la costellazione problematica presentata dal paziente, è possibile intervenire con efficacia, seguendo la strategia consigliata dalla RET (REBT) ed applicando a tridente le varie, numerose tecniche cognitive, emotivo-affettivo-evocative e comportamentali di cui essa dispone. Come si è detto in apertura, i problemi dei superstiti, familiari, e altre persone legate da vincoli d'affetto alle vittime, richiedono una diversa impostazione della strategia ed un impiego più specifico delle procedure, modalità e tecniche d'intervento. Lo stesso vale per gli eventuali problemi dei soccorritori istituzionali (first responders),  che spesso però sono comuni cittadini privi d'ogni anche elementare preparazione professionale ma che si trovano coinvolti sul luogo dell'attentato o nelle immediate vicinanze.A quest'ultimo proposito, l'Istituto RET Italiano si è recentemente arricchito della collaborazione di una psicologa messicana, Leticia Marin, laureatasi in Messico con una tesi di ricerca sulle motivazioni e possibili problematiche di questi volontari, e laureatasi anche in Italia con una tesi d'analogo contenuto (relatore il Professore Maurizio Andolfi).  In realtà non mancano pagine, siti e portali Web di numerose organizzazioni che offrono dettagliati suggerimenti e consigli per un intervento su i problemi immediati e quelli  a breve e a lungo termine dei superstiti, delle persone a loro vicine, e dei soccorritori. Chi volesse informarsi meglio può visitare l'israeliana Magen David Adom (MDA) = The Red Star of David, il Centro Ricerche Rubenstein della Tel Aviv University, la Palestinian Red Crescent Society, l'American Red Cross, la Cruz Roja Espanola, e la British Red Cross. Da segnalare in particolare la rubrica della  British Psychological Society intitolata "Affected by terrorism? Advice to the public".Dalle mie limitate ricerche non sembra però che sia dedicata molta attenzione ai problemi delle persone non coinvolte negli episodi di terrorismo, ma  che possono sviluppare disturbi psicologici di livello clinico. E con molta modestia ma anche con una certa dose di presunzione, ho quindi creduto opportuno scrivere questo breve articolo - se non altro, con la speranza di stimolare altri più preparati di me ad accrescere la documentazione, approfondire il discorso, ed avanzare ipotesi, suggerimenti, consigli -  e naturalmente critiche.

POSCRITTO

 Ci sarebbe infine da prendere in considerazione la grande maggioranza delle persone che non presentano o non accusano disturbi di livello clinico ma che soffrono tuttavia di qualche disagio più o meno acuto, persistente e limitante. Ma qui siamo alle prese con un problema di natura sociale e culturale, la cui soluzione sembra piuttosto appartenere all'ambito della politica. D'altra parte, però, anche la psicologia può dire in proposito qualche parola non completamente inutile.

Ridimensionare le probabilità di rischio. Una campagna d'informazione a livello governativo o politico potrebbe ad esempio aiutare la popolazione a calcolare le vere dimensioni del rischio e rassicurarla sul fatto che gli abitanti delle piccole città e dei paesi - cioè la stragrande maggioranza dei cittadini - non corrono alcun rischio di finire vittime di un attentato. E' insomma  più facile venire ammazzati da un automobilista imprudente o da un marito geloso che da un terrorista suicida.

Ridimensionare l'entità del danno. Qualche autorevole e ripetuta dichiarazione o comunicato ufficiale potrebbe impedire non solo che la gente continuasse a sentirsi il fiato dei terroristi sul collo e che   si aspettasse da un momento all'altro un eccidio, un'ecatombe di proporzioni mostruose. Per un ministro,  un segretario o un esponente di partito potrebbe risultare elettoralmente controproducente affrontare l'argomento di questa macabra contabilità. Affrontarlo sarebbe però  estremamente utile a combattere la diffusa inquietudine della popolazione. Basterebbe, infatti,   puntualizzare e sottolineare con precisione che il numero delle vittime a New York (circa 3000) rappresenta una microscopica percentuale dei 260 milioni di americani. E che altrettanto minuscola è la percentuale delle  vittime di Madrid (circa 100) e di Londra (55) su popolazioni di rispettivamente  43 e 60 milioni di abitanti.A giudicare dalle cifre, sembra anzi che l'effetto omicida degli attentati sia in netta diminuzione.  

Abituarsi a convivere con il rischio. Invece di concentrarsi quasi esclusivamente sulle pur importanti misure di prevenzione e contrasto, di protezione e di sicurezza, un'altra egualmente importante funzione educativa che governo e politica potrebbero svolgere sarebbe quella di spiegare, illustrare e commentare come la ricerca di sicurezza ad ogni costo si dimostri spesso controproducente.  Un ben noto esempio è il fatto che dopo gli attentati dell'11 Settembre 2001 alle Torri Gemelle, al Pentagono e quello fallito in Pennsylvania,  il governo americano bloccò per parecchi giorni tutti i movimenti aerei con il risultato di far aumentare in modo esponenziale gl'incidenti di traffico automobilistico e naturalmente il numero dei morti (1.200)  in tali incidenti. E per un intero anno la tenace riluttanza di tutti gli americani a volare -  anche degli abitanti nelle  città più lontane dai luoghi delle sciagure - ha prodotto altri disastrosi risultati, compresi  quelli finanziari alle compagnie aeree.Molto più ragionevole è stato invece l'atteggiamento assunto dalle autorità spagnole e dalla stessa popolazione dopo l'attentato alla stazione ferroviaria di Madrid nel Marzo 2004,  che ha visto un massiccio aumento di passeggeri e del traffico dei treni dovuto alle centinaia di migliaia di persone che intendevano partecipare alle grandiose manifestazioni contro il terrorismo. Altrettanto si può dire dell'atteggiamento del  governo britannico e dei londinesi dopo le bombe nella sotterranea e su di un autobus nel Luglio 2005.Certo, gli spagnoli sono abituati a vivere con i disordini, le ribellioni, le guerriglie e le vere e proprie guerre  dei Baschi sin dal X secolo,  e più recentemente con gli attentati dell'ETA. Gl'inglesi hanno a che fare con l'irriducibile nazionalismo irlandese da ben otto secoli,  e più recentemente hanno affrontato con compostezza anche i terroristici bombardamenti nazisti (60.000 morti) e le bombe dell'IRA.In quanto agli israeliani e ai palestinesi, sin dalla fondazione dello stato d'Israele  la loro esistenza è continuata in modo quasi normale nonostante una serie di guerre con gli stati vicini,  e una vita che prevede quasi quotidianamente il rischio di qualche attentato o qualche rappresaglia militare. Tutto ciò dimostra come sia possibile evitare di perdere la testa e gettarsi in assurde ricerche di sicurezza ad ogni costo. Un compito essenziale dei governi, dei governanti, delle autorità e di ciascuno di noi sarebbe quindi quello di aiutare la gente e noi stessi ad abituarsi alla presenza del rischio nella vita quotidiana, e specialmente alla presenza di questo relativamente nuovo rischio del terrorismo.

  I mass media

Il terrorismo è teatro. Cerca quindi di piazzare clamorosi colpi di teatro,  ed ottiene questo risultato anche  tramite la pubblicità fornita dai giornali e dalla televisione. L'attribuzione di responsabilità è piuttosto grave, ma non gratuita. Spesso le notizie degli attentati vengono date con un generoso  corredo di fotografie e d'immagini cruente, sanguinose, violente e quasi sadiche. I giornali vogliono vendere. La televisione ha da badare all'audience. I giornalisti fanno il loro mestiere.Sì, ma forse sarebbe bene tener presente  che dare drammatico risalto alle imprese dei terroristi può favorire proprio l'effetto che essi ricercano - quello di richiamare l'attenzione e di suscitare il massimo clamore sulle imprese medesime.Basta ricordare l'ossessiva ripetizione delle immagini televisive degli aerei che si schiantavano contro le Torri Gemelle, l'incalzante  trasmissione delle disperate richieste d'aiuto dai cellulari delle vittime intrappolate negli ultimi piani,  la  costante replica dello spettacolo delle persone che si gettavano dalle finestre per sfuggire alle fiamme e che precipitavano al suolo.I giornali britannici hanno dato l'esempio di come si potrebbe invece gestire la cronaca nera,  pubblicando ovviamente tutte le notizie con tutti i particolari del caso, ma fornendo una molto limitata iconografia dell'orrore. Poco sangue, niente corpi dilaniati, nessuna scena di panico e disperazione. E la BBC ha mandato in onda una semplice piantina gialla di Londra e della sotterranea con una X rossa ad indicare i luoghi delle esplosioni.

 

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