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SIAMO TUTTI STRESSATI?

di Paola Locci

Nella lingua inglese, il termine stress era già in uso molto tempo prima della sua introduzione nel linguaggio scientifico. Il significato di tale termine, oggi fin troppo usato ed abusato, ha subìto numerose variazioni; nell’inglese del XVII° secolo “stress” significava difficoltà, avversità, afflizione; in seguito il significato corrente era quello di forza, o tensione, o sforzo. Infine, in tempi più recenti, ha acquisito il senso di stato di tensione o resistenza di un oggetto o di una persona che si oppone a forze esterne che agiscono su di loro. L’uso scientifico in biologia e medicina è iniziato con W. Cannon, per arrivare poi a Seyle, J. Mason e infine a R. Lazarus che per primo ha proposto il concetto di stress psicologico. Ma anche dopo essere entrato nella letteratura scientifica, il termine “stress” è stato usato ed è tuttora usato in modi diversi, a seconda del punto di vista adottato, e può essere riferito sia all’ambito somatico, sia a quello psicologico. Si va dal significato di stimolo nocivo (di vario genere) che non tiene conto della reazione dell’organismo allo stimolo stesso, alla più recente accezione che sposta quasi completamente l’accento sulle modalità reattive dell’organismo, viste nel loro duplice aspetto difensivo e patogeno (cioè causa di sofferenza e/o malattia). In altri termini, di fronte ad uno stimolo nocivo, si può reagire, come insegna l’etologia, con la fuga o con l’attacco – intesi anche in senso metaforico - : in entrambi i casi, si tratta di modalità difensive e quindi utili. Viceversa, una modalità reattiva dell’organismo può essere a sua volta dannosa, quando non è utile a combattere lo stimolo nocivo. Oppure quando lo stimolo nocivo supera le capacità di difesa dell’organismo. Particolarmente rischiose sono tutte le situazioni di conflitto in cui l’individuo non ha o crede di non avere possibilità di scelta, né alcuna possibilità di evitare (con la fuga) o di vincere (con la lotta) l’evento stressante. Le emozioni negative, come l’ansia, la rabbia, la tristezza, lo scoramento, si sperimentano appunto nelle situazioni conflittuali. Persino in un evento positivo, come può essere una promozione in ambito lavorativo, è possibile ravvisare un conflitto: da un lato la soddisfazione per la promozione, dall’altro la paura delle nuove e più pesanti responsabilità, con conseguente tentazione di fuga. Si parla infatti di “stress da promozione”. Certo, ogni volta che si tenta una definizione di emozione, ci si trova di fronte alla difficoltà di uscire dalla soggettività: ogni essere umano sa cosa significhi provare un’emozione e può anche essere capace di descriverla verbalmente in modo efficace, ma, dinanzi alla necessità di distinguere uno stato emozionale da uno stato di tipo cognitivo, ogni individuo si trova a dover usare termini autoreferenziali come sento oppure penso, di scarsa utilità operativa. Di conseguenza, anche una precisa valutazione qualitativa e quantitativa dello stress e delle emozioni ad esso collegate, diventa estremamente difficile. Tale valutazione sarebbe di notevole importanza non solo a fini di ricerca e di studio, ma anche perché consentirebbe interventi più mirati ed efficaci a livello clinico; infatti, se uno stress di grado lieve e di breve durata può costituire uno stimolo positivo, viceversa uno stress  eccessivo o troppo prolungato può essere causa o concausa di disturbi somatici e/o psicologici, che vanno dalle semplici cefalee muscolo-tensive agli attacchi di panico, dal diffusissimo colon irritabile ad alcune forme di depressione, e altre numerose disfunzioni e patologie più o meno gravi, fonti di profondo disagio e sofferenza da parte di chi ne è colpito. Recenti statistiche denunciano che una percentuale piuttosto alta di italiani si dichiara stressata. A molti sarà capitato di dire (o sentir dire): “non ce la faccio più, non ho più tempo neppure per respirare” e magari di chiedersi: “ma come ho fatto a ridurmi così?” Purtroppo quasi mai si tenta di rispondere veramente a questa domanda. Cerchiamo di riflettere insieme, non dimenticando che si sta parlando della nostra realtà (in altre parti del pianeta, esistono realtà ben diverse!). Tra i tanti aspetti della questione, credo che due siano quelli più interessanti. In primo luogo, una considerazione che può sembrare banale: la vita di oggi è oggettivamente più complicata rispetto ad epoche precedenti. C’è stato un tempo in cui era possibile governare un impero senza saper leggere né scrivere. In una situazione, come la nostra, in cui i bambini piccoli sanno già navigare in Internet con disinvoltura, è difficile che qualcuno si soffermi a pensare che non sempre è stato così. Pensate a quante cose, oggi, sa o sa fare, in media, uno dei nostri giovani; l’elenco è interminabile: oltre a leggere e scrivere, fare i conti o usare sofisticate calcolatrici, capire e parlare una o più lingue straniere, sapere usare un numero esorbitante di elettrodomestici, praticare sport, guidare moto e automobili, suonare qualche strumento, districarsi tra infiniti meccanismi burocratico-tecnologici, carte di credito, bancomat, acquisizione di documenti, informazioni o documentazioni, ecc. ecc. Il numero di competenze che si richiede all’uomo moderno medio non è neppure paragonabile a quello che si richiedeva all’uomo di qualche secolo fa. E persino di qualche decennio fa. Prendiamo un contadino analfabeta, come ce n’erano tanti all’inizio del secolo scorso, e che ha vissuto all’epoca in modo dignitoso e soddisfacente, servendosi delle poche competenze a sua disposizione (i ritmi della terra, i tempi di schiusa delle uova, il procedimento per fare il vino, ecc.). Trapiantiamolo, per magia, nel mondo del duemila: nasce in un casolare, in un piccolo paese, lavora lì, porta lì sua moglie, lì alleva i suoi figli. Mettiamo che debba andare in città per una visita medica: si presenta la necessità di leggere il numero degli autobus (ovviamente non ha la patente perché è analfabeta), di cercare un indirizzo, di fare un numero telefonico. E poi dovrà votare, dovrà pagare le tasse, iscrivere i figli a scuola, fare dei pagamenti tramite bollettini, e magari dovrà capire le istruzioni della nuova sega elettrica. In tutte queste circostanze, e in mille altre, dovrà farsi aiutare da qualcuno, per giunta con il rischio di farsi imbrogliare. L’alternativa è restarsene recluso nel suo casolare, nel suo piccolo mondo protetto. In entrambi i casi, sarà un emarginato, un handicappato (nel senso originario del termine, e cioè “in condizione di svantaggio” nei confronti degli altri). E’ evidente che vivere nel mondo moderno è obiettivamente molto più difficile e richiede, per la sua complessità, molte più competenze. Il secondo aspetto è la scelta delle priorità. Scelta tanto più difficile quanto più numerose sono le alternative tra cui scegliere. Contrariamente al contadino analfabeta del secolo scorso, che si limitava ad assecondare i ritmi e le regole della natura, la giornata dell’uomo di oggi, in una moderna azienda agricola, così come in una grande città, è scandita da continue scelte e decisioni, alcune automatiche, altre no. Poter contare su strumenti complessi come macchinari computerizzati, automobili sempre più accessoriate, lavatrici superautomatiche, telefoni muniti di infinite funzioni (a cui manca solo di fare il caffè, come mi ha detto ieri un’operatrice del servizio telefonico), o il computer in tutte le sue varianti, garantisce, è vero, molto tempo in più a disposizione, ma bisogna considerare che parte di quel tempo va impiegato ad apprendere il funzionamento di queste meraviglie della tecnica, e poi a gestirne adeguatamente l’uso. Inoltre il tempo recuperato lo si impegna quasi immancabilmente in altre attività che a loro volta richiedono scelte, decisioni, tempi di apprendimento… in una perversa e frenetica reazione a catena. Il risultato è una sorta di zapping tra infiniti impegni ed attività, senza avere il tempo e la possibilità di soffermarsi su nessuna di esse. Che fare allora? Forse ci si potrebbe fermare ogni tanto e chiedersi: “Ma tutto quello che faccio è veramente importante per me? C’è qualcosa che posso organizzare meglio, o qualcosa che posso eliminare dalla lista dei miei impegni? Qual è il vero motivo per cui non riesco mai a fermarmi un momento?” Tempo fa ho assistito ad un episodio molto carino: due signore si erano incontrate per strada. Una delle due, che evidentemente si era attardata a chiacchierare più del previsto, si stava scusando per aver fatto perdere del tempo all’altra. E l’altra: “Oh no, parlare con un’amica non è tempo sprecato, è il resto del tempo che è sprecato”.

 

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