La Psicologia del Pensiero nelle Scienze Cognitive.

di GianLuigi Dell'Erba


 Introduzione

Che cos'è il pensiero? Una possibile risposta è ciò che sta tra la percezione e l'azione. Qual'è il ruolo di questa dote "collocata" tra i segnali provenienti dal mondo e il comportamento dell'organismo? Possiamo rispondere che, tradizionalmente, si considera il pensiero funzionale ai rapporti dell'organismo con i propri stati futuri, al contrario della percezione che permette la relazione con gli stati presenti, e della memoria che ha relazione con gli stati passati.Se pensiamo ad un robot cellulare, quale un batterio o un protozoo, possiamo renderci conto che le interazioni dell'organismo con l'ambiente circostante avvengono tramite regole che l'individuo in questione già possiede e tramite le quali risponde con una relazione diretta tra gli stimoli e la risposta. Un paramecio, ad esempio, è un organismo unicellulare che nuota nell'acqua grazie al battito coordinato delle sue ciglia vibratili. Se urta contro un ostacolo fa marcia indietro, per nuotare poi in un'altra direzione. Certo, si è tentati di supporre che il paramecio si sia accorto che il suo cammino era bloccato e abbia deciso di cambiare strada. In realtà, esso non costruisce nessuna rappresentazione del mondo esterno e non pensa affatto. L'urto depolarizza la sua membrana cellulare e i cambiamenti chimici risultanti fanno si che le ciglia invertano la direzione delle battute, con la conseguenza che il paramecio nuota in senso opposto. Si direbbe che il movimento sia guidato dal pensiero, ma in realtà il paramecio non costruisce rappresentazioni del mondo e non ha alcuna vita mentale.A cosa servono queste rappresentazioni mentali che altri organismi più complessi invece sembrano avere? Sulla base di rappresentazioni mentali vengono fatte inferenze sugli stati futuri del mondo, e quindi sono prese delle decisioni sulle azioni da compiere.Di cosa sono fatte e come sono caratterizzate le rappresentazioni mentali? Naturalmente, il loro veicolo ultimo sono i processi biologici dell'organismo, dunque sono basate su proteine, ma la loro caratterizzazione risiede invece nella loro funzione, che appunto, è quella di costruire un modello presente, passato e futuro dei propri stati e degli stati del mondo, e ciò allo scopo di massimizzare le azioni funzionali al proprio adattamento.Il pensiero è appunto basato sull'attività di elaborazione delle informazioni che sono strutturate come rappresentazioni mentali: queste elaborazioni possono essere inconsce, automatiche o coscienti. Tradizionalmente, si assegna al pensiero la elaborazione cosciente delle informazioni; ma ultimamente, si è puntualizzato il ruolo importante del pensiero basato su elaborazioni di informazioni automatiche (o semi-automatiche); solo alcuni arditi studiosi hanno azzardato, specie in passato, un pensiero inconscio (Freud, ad esempio) (per ulteriori approfondimenti si veda il paragrafo sulla conoscienza).Alcuni autori (Johnson-Laird, 1993; Girotto, 1994; Karmiloff-Smith, 1992; Kosslyn, 1987; Piaget, 1971; Gardner, 1985; Clark, 1989;) hanno proposto delle tassonomie per descrivere i tipi di pensiero, come pure i tipi di prodotti del pensiero. Una interessante proposta sembra essere quella di Johnson-Laird (1990). La figura di seguito rappresenta una tassonomia basata su alcune distinzioni fondamentali.

 

                                              Obiettivo?

                         No                                                       SI

               Associazione                                   Deterministico?

                                                       No                                                                          Si

                                          Punto di partenza preciso?                                       Calcolo

                               No                                                Si

                        Creatività                                Aumento dell'informazione
                                                                                       semantica?

                                                                         Si                                                No

                                                                    Induzione                                    Deduzione

Un esempio di tassonomia del pensiero

 

 

I processi di pensiero sono governati da un obiettivo, come nella soluzione di un problema? Sono deterministici, nel senso che lo stato successivo del sistema dipende solo dal suo stato corrente e dal suo ingresso? Hanno un obiettivo preciso - come quando si vuole determinare la validità di una ipotesi - o sono semplicemente vincolati da fattori di ordine generale, come nella creazione di un'opera d'arte? Comportano aumento di informazione semantica alla conoscenza di base posseduta? Come si può vedere dalla figura, e come si può intuire, la gamma del pensiero umano va dai calcoli dell'aritmetica mentale all'associazione di idee. Ma né il calcolo né l'associazione rappresentano bene il tipo di pensiero umano. Si tratta piuttosto di due estremi, anche se nella tradizione vari autori hanno basato le loro teorie sul pensiero e i suoi disturbi sia sul calcolo mentale sia sulle associazioni di idee (per fare due esempi opposti, Fodor e Freud, ma anche tra filosofi come Spinoza e Locke).Sembra molto più proficuo e rappresentativo, nello studio del pensiero, basarsi su ciò che vi è in mezzo, cioè deduzione, induzione e creatività, che senz'altro riflette i processi più comuni, più centrali, più potenti, e probabilmente, più implicati nel pensiero quotidiano e i suoi disturbi, come anche nel pensiero patologico.

 

Deduzione e induzione: differenze di elaborazione

Facendo riferimento al processo di elaborazione delle informazioni (Neisser, 1967; Miller, Galanter, Pibram, 1960; Tulving, 1973; Broadbent, 75; Norman, 1968; Johnson-Laird, 1988), al cosiddetto "flusso dello stimolo", possiamo rappresentare la differenza tra queste due principali componenti e funzioni del pensiero.Una prima differenza è quella riguardante la natura della informazione trattata nelle due componenti: nella deduzione abbiamo informazione "vecchia", old information, cioè la conoscenza organizzata già posseduta, mentre nell'induzione si tratta informazione "nuova", new information, cioè lo stimolo in entrata, che per definizione è nuovo.Un'altra differenza è quella attinente al ruolo attivo del sistema di conoscenza nel trattare lo stimolo: nella deduzione vi è l'assimilazione dello stimolo a strutture informative già esistenti e già assemblate in memoria, nell'induzione si ha invece l'accomodamento delle strutture di dati possedute per accogliere i nuovi dati non altrimenti trattabili.Una terza differenza, ovviamente collegata alle precedenti, è la direzione del flusso di elaborazione: nella deduzione l'attività del sistema è portata dall'applicazione degli schemi posseduti verso i dati in ingresso, direzione detta top-down (dall'alto al basso), nell'induzione invece la direzione del flusso è bottom-up (dal basso verso l'alto).Una differenza rilevante è quella riguardante gli obiettivi e le funzioni specifiche da raggiungere: nella deduzione il sistema si orienta verso la definizione delle informazioni in virtù di scopi conoscitivi che sono al contempo dei meccanismi della conoscenza - il dettaglio, la discriminazione, l'analisi; nell'induzione lo scopo conoscitivo e quindi i meccanismi risultanti sono l'astrazione, la sintesi, la generalizzazione.Come vedremo più avanti, questi diversi livelli di spiegazione nel processo del pensiero ci dicono molto non solo del pensiero quotidiano, ma anche dei fenomeni patologici più severi come nei processi del pensiero nella schizofrenia paranoide.Dunque, nella deduzione trova spazio quella parte della psicologia del pensiero che si è occupata dello studio della organizzazione delle conoscenze, delle euristiche di ragionamento, delle aspettative; mentre nello studio dell'induzione trova spazio la parte della psicologia che ha affrontato lo studio della formazione dei concetti, della scoperta, dell'apprendimento (inteso come "accrescimento dell'informazione posseduta"). Un spazio a parte è dedicato alla psicologia del giudizio e alle sue distorsioni valutative, dove si riscontrano entrambe le due componenti fondamentali.

 

Deduzione

La capacità di agire in modo razionale è al centro della vita umana. Abbiamo certe credenze e certi desideri e bisogni: il nostro compito è inferire dalle nostre credenze che cosa dobbiamo fare per raggiungere i nostri scopi, e poi eseguire le azioni così determinate.Ci sono state tuttavia delle posizioni che sia in passato che nel panorama contemporaneo hanno assunto una prospettiva di scetticismo riguardo la razionalità umana, fino a posizioni di franco irrazionalismo. Si può rispondere a queste posizioni in modo pratico: se un pensatore, filosofo o scienziato, "annunciasse" la tendenza irrazionalistica dell'agire umano, che credenziali avremmo noi per prenderlo sul serio? E inoltre, non sembra ciò il famoso rompicapo: "Tutti gli Ateniesi mentono": dunque, come derivare la loro affidabilità? Ma vi è un'altra risposta, sebbene più ironica ma non meno efficace in generale, che è quella di Jerry Fodor: <<non ascoltate ciò che essi dicono, osservate ciò che fanno>> (Fodor, 92).Al cuore della razionalità è la capacità di trarre deduzioni valide. Si tende a considerare le deduzioni come basate sulla logica formale: ciò non solo è riduttivo, ma è falso nel pensiero quotidiano. Per affrontare la deduzione, come uno dei fondamenti del pensiero, prendiamo brevemente in considerazione sia il campo della logica sia quello della psicolinguistica, ed infine della psicologia del pensiero contemporanea.

Logica

La logica è la disciplina che ha per oggetto la validità delle deduzioni. Molti sostengono che il solo modo di dimostrare che un argomento è valido sia derivarne una dimostrazione formale in un calcolo logico. I logici distinguono tra i metodi della teoria della dimostrazione che fanno uso di regole di inferenza formali dalla teoria dei modelli che dimostrano la validità per via semantica.

Ad esempio:

Se un individuo rincorre un treno, allora sta cercando di prenderlo

- un individuo rincorre un treno

- quindi sta cercando di prenderlo.

 

In casi come questo si cerca di determinare una forma logica, cioé:

se p allora q

- p

- quindi q.

 

La deduzione è valida se sono valide le premesse, e ciò avviene dunque a prescindere da un singolo caso particolare, ma deriva da una premessa di ordine generale.Guardando la cosa dal punto di vista della semantica vorrebbe dire derivare tutte le possibili combinazioni delle premesse che sono vere nelle possibili situazioni. Per fare questo è necessario costruire una tabella, tavola di verità, dove ad ogni premessa è associato un valore di verità, cioè vero e falso, e quindi si scartano i casi insostenibili. Come ebbe ad osservare Sherlock Holmes <<quando avete scartato l'impossibile, quel che resta, per quanto improbabile, deve essere vero>>. Non c'é alcuna situazione nella quale le premesse siano vere e la conclusione falsa.L'intento è quello da una parte di costruire un metodo di generazione e controllo del pensiero "corretto e valido" attraverso un sistema di regole che definiscono e gestiscono le componenti di una asserzione, cioè attraverso una sintassi del pensiero (Chomsky, 80; Henle,1962; Fodor,1988); dall'altra parte, altri logici hanno elaborato metodi di relazione e corrispondenza tra gli oggetti dell'asserzione e il mondo esterno, cioè una semantica del pensiero (Johnson-Laird, 1983; Searle, 1983; Van Dijk e Kintch, 1983).Naturalmente, come spesso avviene, i due sistemi non sono compatibili, come avevano sperato logici del calibro di Frege, nel 1879 (Frege, 1965), e Tarski nel 1936 (Tarski, 1956); questa dimostrazione, in parte, discende da un celebre logico matematico, Kurt Godel (1967) che ha formulato il teorema dell'incompletezza nella formalizzazione coerente in aritmetica. Dunque, la validità semantica non è riconducibile alla dimostrazione sintattica.

 

Regole di inferenza

Il compito di fare una deduzione può essere suddiviso in tre momenti:

1) Comprendere: si deve afferrare il punto di partenza della deduzione (premesse espresse in forma verbale, percezioni in una situazione, ricordo, o immaginazione, ...)

2) Generare una conclusione: si deve generare una conclusione provvisoria.

3) Valutare la conclusione: si deve sottoporre a verifica logica e valutazione critica per stabilire se segue validamente dalle premesse oppure no.

Il problema esistente con la logica formale, e in particolare con le regole della forma logica degli enunciati, e che date certe premesse è possibile avere varie conclusioni valide, ma non è possibile scegliere e trarre informazioni per agire. Nessun individuo sano di mente deriverebbe le possibili conclusioni da una asserzione (tranne in alcune particolari professioni!). Dunque, i formalisti non spiegano bene la "meccanica" del pensiero umano; tuttavia, predicono alcuni casi che sono stati poi verificati in psicologia sperimentale, in laboratorio e sul campo, da ragionatori in "carne ed ossa".Particolari asserzioni sono più difficili da trattare che altre; in particolare, sono difficili i casi negativi nelle premesse, i casi incassati, i casi disgiuntivi.Naturalmente, i problemi con la logica non sono solo questi. Ad esempio, si da il caso che le nuove premesse possono solo aggiungere qualcosa all'insieme delle conclusioni valide. La asserzione <<gli uomini hanno due gambe>> posta come conclusione può dover fare i conti con un caso di individuo ad una gamba (ad es., amputazione) il che però non può modificare la precedente conclusione derivando che l'asserzione <<gli uomini hanno due gambe>> è falsa, il ché sarebbe un gran danno. La logica si ferma su punti come questi, che evidentemente hanno l'evidente apporto del caso reale (pragmatico). Alcuni autori, tra cui Marvin Minski (1986), hanno introdotto la nozione di valori per difetto per poter gestire le evenienze dei casi particolari (si veda più avanti sulla organizzazione della conoscenza).

 

Tentativi di integrazione: regole contenuto-specifiche

Come abbiamo già ricordato la sintassi riguarda la forma delle espressioni, la semantica, invece, riguarda la relazione tre le espressioni e gli stati del mondo. Se si ammettono delle regole che possano relazionarsi all'esterno tuttavia mantenendo il loro valore logico predeterminato allora può aversi un metodo di controllo logico che dice qualcosa sul significato. Si pensi ad esempio, a espressioni relazionali come sopra, sotto, alla destra di, davanti a, ecc. Anche in questo caso, però, se le espressioni sono valutate nella loro forma, sono perfettamente logiche e, a dispetto del loro nome, non stabiliscono alcunché nel mondo esterno (vi sono evidenti ambiguità nelle conclusioni), ma sono squisitamente sintattiche.

Deduzione umanizzata

Gli esseri umani, nel ragionare, danno prova di un'intelligenza che è largamente assente nei sistemi logico-formali. Essi sono cioè capaci di farsi guidare dal "buon senso", ed inoltre sono parsimoniosi (al contrario della logica formale).Tre aspetti sono caratteristici dell'attività deduttiva umana: la rapidità, l'uso di notazioni, l'uso di conoscenze generali.Numerose ricerche in psicologia sperimentale hanno evidenziato che pur potendo aspettare per esaminare le condizioni informative dello stimolo i soggetti "preferivano" emettere presto la risposta, dunque trascurando l'analisi esaustiva e risparmiando sul tempo (senza necessità). Anche i vari studi sulla psicologia del ragionamento, in contesti quotidiani (Tversky e Kahnemann, 1973; Kahnemann D., Slovic P., Tversky A., 1982; Nisbett e Ross, 1980; Legrenzi P., Girotto V., Johnson-Laird P.N., 1993 ; Rumiati, 1990; Girotto, 1994; Piattelli Palmarini, 1993; Mancini, 1996) hanno notato un singolare uso dell'analisi dei dati e un uso 'trascurato" del tempo per ragionare. Tutto ciò depone a favore di una tendenza degli individui (come vedremo più avanti) ad utilizzare "pacchetti" già pronti di conoscenza, le euristiche.Per quanto riguarda il problema delle notazioni, gli esseri umani traducono in linguaggi formali le informazioni, cioè codificano e quindi rileggono in un linguaggio proprio; ad esempio, se qualcuno ascolta delle persone parlare in un dialetto regionale diverso dal proprio, ammesso che lo comprenda, comprende e rielabora le interazioni verbali nel proprio linguaggio privato. Tutta l'attività di scambio degli individui avviene sulla base di linguaggi codificati, con certe regole stabilite convenzionalmente (pragmatica, uso sociale), dunque avviene mediante notazioni in codice. Può avvenire di avere scambi tra codici diversi, o di dovere continuamente tradurre e ritradurre nel corso delle interazioni tra persone, ciò ha un costo sulla prestazione e sulla efficienza cognitiva in quanto la elaborazione ausiliaria "pesa" sul risultato in termini di memoria di lavoro (working memory) e di attenzione (range and span attention).Per quel che riguarda l'utilizzo delle conoscenze generali (come si vedrà più avanti) gli individui applicano alle informazioni in entrata i concetti e gli schemi già posseduti, cioè attraverso la catalogazione in categorie possedute (categorizzazione), e quindi gran parte del lavoro si basa sul riconoscimento. Ad esempio, la comprensione di una frase non avviene certamente sulla base di un calcolo logico dei predicati contenuti nella asserzione, il ché porterebbe il soggetto verso una esplosione combinatoria data la vaghezza del linguaggio quotidiano, semmai il soggetto applica alla frase un modello, che può anche essere proposizionale, ma che si basa su informazioni date arbitrariamente, o per difetto, che sono l'applicazione delle conoscenze possedute dal soggetto (non è importante ora determinare se siano innate o apprese nel corso dell'esperienza). Se le informazioni ulteriori contraddicono i valori per difetto, essi sono corretti, strada facendo, come casi particolari. Fortunatamente gli enunciati del linguaggio quotidiano sono brevi, e quindi sono necessarie soltanto un piccolo numero di correzioni.Questa relazione tra pensiero deduttivo e conoscenza generale richiama in gioco la organizzazione della conoscenza e il concetto di prototipo (Rorsch, 1977) e e di schema concettuale (si veda più avanti).Un segno distintivo della intelligenza umana è la capacità di trarre conclusioni; ma se le conclusioni derivabili sono infinite, cosa fa si che si scelga in un certo modo? Inoltre, se la derivazione delle conclusione sarebbe una diretta discendenza delle premesse, come si può allora superare un certo ostacolo ragionando? E, infine, se il calcolo logico è complesso e laborioso, per la forma dei predicati logici, come può aversi una conclusione efficace e veloce? La risposta a questi tre problemi deriva dal tipo peculiare della intelligenza umana, la quale non solo decide in base a regole euristiche, non solo distorce l'informazione in arrivo, e i dati del problema, per poter comodamente applicare la propria conoscenza, ma anche risponde ai dati a partire dalla conoscenza che ha disponibile in memoria.Come ha felicemente espresso Simon (1982) << i ragionatori umani tendono ad accontentarsi di conclusioni soddisfacenti>>.

 

Induzione

L'induzione ha un posto importante sia nel pensiero quotidiano che nel pensiero scientifico. Grazie ad essa abbiamo una guida sempre pronta per comprendere le persone e il loro comportamento e per orientarci nel mondo.Ma l'induzione è un affare rischioso. Alcuni tra i più grandi disastri della storia sono dovuti proprio da una inferenza induttiva mal riuscita. Facciamo il caso che un esperto sostenga una certa performance calcolata sulla propria solida esperienza, in un certo campo che abbia un importante costo (salute, ecologia, sicurezza, ...), e mettiamo che vi siano delle oscillazioni delle performances reali attorno ad alcuni valori "attesi", e poniamo ancora che vi sia una escursione al di fuori dei limiti: cosa concludere? L'esperto può essere portato a concludere che l'escursione oltre i limiti previsti è una variazione statistica, oppure è un artefatto del metodo in quanto caso raro, o ancora è un errore dello strumento. In questi casi l'applicazione delle conoscenze derivate dall'esperienza, e le aspettative di base, possono condurre al disastro. In pratica ci si aggrappa ostinatamente all'illusione che il caso confermi l'esperienza e la pratica.Quello che emerge è che una regola è stata disattesa sulla scorta di una aspettativa basata sull'esperienza.L'induzione ha luogo in tre momenti: il punto di partenza è costituito da un insieme di dati, proposizioni asserzioni verbali (primo momento). Si passa poi a formulare una ipotesi che permetta una descrizione o comprensione migliore di questa informazione in relazione ad uno sfondo di conoscenze generali (secondo momento). Questa conclusione può discendere sia dalle premesse che dalle conoscenze di sfondo; in ogni caso una induzione va oltre l'informazione semantica di base delle premesse. Infine, il ragionatore prudente valuta la conclusione e, di conseguenza, la conserva, la modifica, o l'abbandona (terzo momento).Possiamo definire l'induzione come qualunque processo di pensiero che generi una conclusione che accresca l'informazione semantica contenuta nelle osservazioni o premesse iniziali.Per contro, come già visto, le deduzioni non accrescono l'informazione di base.Facciamo un esempio:

Tu hai la febbre o il termometro è guasto, o entrambe le cose.

- il termometro è guasto

- tu non hai la febbre.

Come si può ben notare la conclusione non è contenuta nelle premesse, infatti è una induzione.

Se invece escludiamo, avendolo esaminato, che il termometro non è guasto, allora:

- il termometro non è guasto

- quindi, tu hai la febbre.

E' questo il caso di una deduzione perfettamente discendente dalla premessa fondamentale di base e dalla congiunta.La conoscenza derivante dalla induzione è tesa alla riorganizzazione della struttura semantica. Infatti, il pensiero induttivo organizza i dati in forma di schemi e concetti nuovi per effetto del processo di accomodamento della conoscenza. L'induzione è il motore dell'accrescimento delle informazioni; ma i meccanismi sottostanti allo sviluppo di questa forma di pensiero sono automatici ed inconsci, ed è soltanto il prodotto di questi processi elementari che diviene cosciente. Ad esempio; quando impariamo ad andare in bicicletta, scopriamo sempre più modi nuovi di stare in equilibrio, di muovere i pedali, di tenere il manubrio, e l'effetto di queste scoperte ci conduce poi ad apprendere a pedalare liberamente ed in modo automatico; ma i meccanismi del come ciò avviene sono in gran parte automatici e non coscienti.

 

Concetti

I concetti sono gli elementi costitutivi del pensiero. Senza di essi l'induzione sarebbe impossibile perchè tutto si ridurrebbe a unità. Cose differenti devono essere considerate simili per certi scopi e cose simili devono essere considerate differenti per altri scopi. I concetti costituiscono il sistema che permette di categorizzare, suddividere, e mettere il relazione le cose.La prima idea dell'induzione è che essa sia una ricerca di ciò che accomuna i membri di un insieme. Di conseguenza, se tutti gli esempi positivi di un concetto hanno un elemento in comune, esso può definire il concetto. Se gli esempi negativi e positivi differiscono solo per quest'elemento, allora esso è l'elemento critico.Questa teoria, appartenente all'empirismo, ha ispirato numerose ricerche psicologiche, infatti una versione celebre è:<<una caratteristica più o meno comune a tutti i cani e non comune a tutti i gatti, bambole, e orsacchiotti di pezza>> è il significato di CANE (Hull, cit. in Reed, 1988).Altri ricercatori hanno condiviso, almeno in sostanza, questa versione (James, Piaget, Vygosky).Vi è però una seconda idea sull'argomento; la esponiamo con Wittgenstein:<<... sicché i cani non hanno nulla in comune tra di loro. I criteri di caninità certamente includono l'aver quattro zampe, peli, e la capacità d'abbaiare, ma queste non sono condizioni necessarie: un cane potrebbe esser muto, privo di peli, e con tre zampe>> (Wittgenstein, 1967) .Ecco ancora il concetto di prototipo.L'idea dei prototipi ha condotto un'esistenza sotterranea finché non è emersa nei lavori di Eleonor Rorsch (1973, 1977), secondo la quale le entità del mondo reale hanno caratteri correlati fra di loro - le penne sono correlate con le ali, le squame con le pinne, la pelliccia con le membra - e sono rappresentate nella mente mediante prototipi. Questa ipotesi è stata corroborata dalla scoperta che non tutti gli esempi di un concetto sono ugualmente rappresentativi - un terrier è un cane prototipico ma un chihuahua no - e che il tempo necessario per dare un giudizio su un esempio di un concetto dipende dalla distanza che separa l'esempio dai prototipo (Reed, 1988; Osherson, Smith, 81). Rosch (1977) ha sostenuto che in qualsivoglia gerarchia concettuale, ad esempio terrier-cane-animale, c'è un livello di base. E' a questo livello che esistono i prototipi, che gli oggetti cono categorizzati inizialmente, e che gli esempi di un concetto hanno il massimo in comune l'uno con l'altro e il minimo in comune con gli altri concetti dello stesso livello. Alcuni autori hanno, però evidenziato che in ognuno dei livelli esiste una organizzazione prototipica (Joliecoeur, Gluch, Kosslyn, 1984).Un momento fondamentale nella formazione di nuovi concetti è la generalizzazione. La generalizzazione permette la costruzione di un modello che si applica ai casi omologhi, e la derivazione di questa piccola teoria , che è la generalizzazione, è opera di induzioni, sotto forma di inferenze ipotetiche, che una volta esplorato e raccolto nuovi dati essi vengono sintetizzati in una organizzazione informativa che è nuova alla conoscenza di base.Una operazione è una generalizzazione se e solo se accresce l'informazione semantica contenuta in una ipotesi, così da ammettere almeno una situazione esclusa come falsa nella premessa; essa è una caso particolare di induzione. Questa operazione consiste nell'eliminare possibili stati di cose, e così diventa comprendente eliminando i possibili criteri e vincoli.Per contro una operazione è una specializzazione se e solo se riduce l'informazione semantica; essa è una caso particolare di deduzione.Un fattore critico nella costruzione di modelli, e di rappresentazione mentale dei dati, è l'azione della conoscenza in quel momento rappresentata nella mente. Tversky e Kahneman (1973) hanno svolto il lavoro pionieristico sull'argomento evidenziando che il modo di rappresentarsi i dati in mente influenza il modo di ragionare e rispondere efficacemente alle situazioni. Un elemento è la disponibilità di conoscenze pertinenti, che vengono usate rapidamente, senza esame ulteriore della loro plausibilità (euristica della disponibilità). E' l'effetto dovuto ai dati recenti, o che sono rimasti a fondo impressi, e che in tal modo sono rievocati dalla memoria più frequentemente e più probabilmente di altri meno rilevanti. Un altro elemento è l'effetto dovuto alla tipicità delle conoscenze collegate ai dati, di modo che i dati vengono ricondotti in una sorta di effetto alone, o di effetto stereotipo (euristica della rappresentatività). Oltre a queste fondamentali trappole del ragionamento (in realtà non è esatto identificarle come induttive né come deduttive in quanto il loro processo è induttivo e deduttivo in un ciclo continuo: riconoscimento del dato (deduzione), raccolta di evidenza (induzione), definizione del campo (deduzione), ipotesi inferenziale (induzione), tendenza alla conferma (deduzione), ...), alcuni autori ne hanno evidenziate altre presenti nel ragionamento e nella soluzione di problemi, sia in laboratorio, sia in ambiti quotidiani naturali (Piattelli Palmarini, 1993, 1994; Nisbett, Ross, 1980; Kahnemann D., Slovic P., Tversky A.,1982; Tversky A., Kahneman D., 1973; Kahneman D., Tversky A., 1972; Boudon, 1994).La costruzione delle concettualizzazioni e teorie personali avviene dunque a partire dalla disponibilità e rappresentatività personale delle informazioni possedute, e quindi anche dalle variabili contestuali, ambientali e culturali del soggetto.Tuttavia, possono essere definite alcune strategie che sembrano essere comuni e fondamentali alla formazione dei concetti empirici, così come presentati in un esperimento. Lo studio di Bruner, Goodnow e Austin sull'argomento è uno dei lavori che sono considerati unanimemente come la data d'inizio della psicologia cognitivista: A Study of Thinking del 1956 (Bruner, Goodnow, Austin, 1956).Descriviamo brevemente un loro tipico esperimento.I soggetti dovevano formare per induzione concetti ad hoc come "due triangoli verdi". Essi ricevevano dapprima un esempio positivo del concetto; poi veniva presentata loro una serie di esempi tra i quali scegliere e, per ciascun esempio scelto, veniva detto loro se fosse o no un esempio del concetto. Il processo continuava così fino all'individuazione del concetto. Una strategia descritta da Bruner e collaboratori consiste nel tener presenti tutte le ipotesi compatibili con l'evidenza dei fatti, e scegliere gli esempi che eliminano il maggior numero di ipotesi possibile (esplorazione simultanea). Una strategia meno gravosa consiste nel considerare una singola ipotesi alla volta, sceglierne degli esempi positivi, e adottare una nuova ipotesi solo quando l'ipotesi corrente viene confutata (esplorazione successiva). Un'altra possibilità consiste nel partire dall'esempio positivo iniziale - ad esempio due triangoli grandi verdi con un bordo semplice - per poi scegliere esempi differenti per un singolo attributo (focalizzazione conservativa) o per più attributi (azzardo nella focalizzazione). Se il nuovo esempio appartiene anch'esso al concetto, allora gli attributi per i quali differisce dall'esempio iniziale sono irrilevanti. Se il nuovo esempio non appartiene al concetto, allora gli attributi mutati sono critici. In tal caso il ragionatore che si sia comportato in modo conservativo e abbia cambiato un solo attributo può concludere che la proprietà originale è parte della definizione del concetto; ma se il ragionatore ha provato a cambiare più di un attributo l'azzardo non è andato a buon fine, giacché è impossibile determinare quale delle proprietà cambiate sia critica.Queste strategie sono state ritenute valide in più studi sul pensiero, ma a patto che i concetti siano definiti in termini di una congiunzione di elementi comuni, e non in modo disguntivo.

I concetti sono innati?

Per rispondere a questa domanda, peraltro molto tradizionale, utilizziamo il campo di applicazione della linguistica. Dobbiamo principalmente definire in che modo i concetti siano definiti ai pensieri che hanno un contenuto proposizionale. Così facendo, evidenziamo la relazione svolta dalle parole in un enunciato. In un enunciato, ad esempio dichiarativo, le parole esprimono un pensiero di contenuto proposizionale che può essere vero o falso. I sintagmi nominali, in sostanza, rappresentano in un enunciato i concetti, ed essi posso avere delle condizioni (nel mondo) di soddisfazione, e le relazioni interne dell'enunciato sono regolate da specifiche relazioni. Perciò, il pensiero espresso proferendo un enunciato si basa sui concetti corrispondenti alle parole dell'enunciato e sul modo in cui queste parole si combinano grammaticalmente: i concetti corrispondono al significato delle parole.Se è possibile costruire il significato della frase componendo i sintagmi tra loro - un X più un Y più un Z è un W - allora è possibile anche che componendo più concetti si giunga ad un concetto nuovo.Infatti, ciò è proprio quello che avviene comunemente quando si acquisisce un nuovo concetto: il megafono, l'areostilo, la colpa, il diritto, ecc... , sono appunto esempi di concetti che si acquisiscono nel modo suddetto.Alcuni autori provenienti dalla logica matematica hanno sviluppato delle spiegazioni interessanti, la teoria delle funzioni ricorsive, su come da un certo numero di concetti principali è possibile derivare altri concetti senza fine (Alonzo Church, 1932; Boolos e Jeffrey, 1989; ): sebbene stimolante, anche per le suggestioni kantiane (oltre che computazionali), non è possibile in questa sede approfondire ulteriormente l'argomento (si veda comunque Dennett, 1987, 1990; Hoffschttader, 1979; Johnson Laird, 1988).

Organizzazione concettuale

Un individuo in grado di classificare oggetti può acquisire conoscenze circa le loro proprietà e i loro comportamenti e, sulla base di queste conoscenze, può fare predizioni al loro riguardo. L'individuo ha bisogno di costruire rappresentazioni di classi di entità così da poterle identificare, apprendere cose e fare inferenze su di esse. Il riconoscimento di oggetti artificiali, ad esempio, richiede spesso l'identificazione della loro possibile funzione.Sulla base di contributi celebri (Quine, 1960; Putnam, 1975; Wittgenstein, 1967; Dennett, 1987; Keil, 1991; Searle, 1990; Armstrong, 1983; Fodor, 1987; Johnson-Laird, 1983) possiamo riferirci a quella che, con i dovuti accordi, sarebbe la nostra ontologia della vita quotidiana (cioè i differenti generi di cose per cui vi sono concetti): entità, che sono cose discrete, sostanze, o unità numerabili; proprietà di entità; relazioni di entità.Questa visione (sintetica) contemporanea aggiusta alcune teorie sulla natura e sulla organizzazione dei concetti. Per prima cosa deve essere considerato il ruolo di elementi analitici, che hanno delle condizioni necessarie e sufficienti (ad esempio, i criteri per un triangolo). Un'altra correzione deve essere indirizzata alle teorie dei generi naturali che si basano, come sostenuto dalla Rosch, su tendenze centrali cioè il prototipo. Il problema sarebbe qui determinare come possono sorgere questi tipi di classificazioni, dato che non corrispondono, se non per approssimazione e per difetto ai casi naturali.A questi problemi ed interrogativi rispondono delle nuove teorie concettuali, che hanno dato prova di "tenere" al banco della sperimentazione. Una di queste teorie è quella di Miller e Johnson-Laird (1976), che riesce a conciliare le evidenze dei prototipi, con la esigenza di concetti analitici fondamentali.Secondo questi autori, i concetti si distinguono i tre principali categorie: i concetti analitici, che hanno condizioni necessarie e sufficienti, e che sono nozioni appartenenti a <<mondi chiusi>>, come le relazioni spaziali, o le relazioni di parentela; i concetti naturali, che dipendono dalla scienza per la loro scoperta, e dipendono anche dalle teorie quotidiane che ci costruiamo, e sono dunque incompleti e contengono valori per difetto; i concetti costruttivi, che hanno una base convenzionale o deontica, e possono variare da una cultura all'altra. Di conseguenza, queste categorie ontologiche, cioè entità, proprietà e relazioni formano la base della organizzazione della conoscenza. Spesso osserviamo che alcuni concetti non sono scomponibili in altri più semplici, ad esempio "quella gita a Cortina i primi di Giugno '92", altri invece si prestano maggiormente. Per rendere conto di questi casi, si è introdotta la nozione di "subconcetti": essi sono unità concettuali irriducibili che sono alla base delle rappresentazioni mentali. Sono questi gli elementi costitutivi necessari a formare pensieri - cioè proposozioni intorno a situazioni reali o immaginarie - e a costruire modelli che esplicitino esempi particolari di questi pensieri. Certi subconcetti soggiacciono alla costruzione dei modelli percettivi: sono i subconcetti di colori, forme e tessiture nel caso della visione, e i subconcetti di suoni, gusti e odori nel caso di altre modalità sensoriali (Miller, Johnson-Laird, 1976); altri subconcetti sono relativi a stati fisici ed emotivi - sono associati a condizioni interne dell'organismo; altri ancora - i subconcetti di possibilità, permissibbilità e intenzionalità (ad esempio) - sono relativi a condizioni mentali. I subconcetti si combinano per formare rappresentazioni proposizionali che possono essere usate da una varietà di procedure volte a costruire e manipolare modelli.I concetti di generi naturali e di oggetti artificiali sono costruzioni complesse basate, in parte, su subconcetti che specificano valori per difetto.In definitiva, i subconcetti sono parte della base innata del pensiero; sono analoghi alle operazioni primitive delle funzioni ricorsive (teoria già citata più sopra). Per proporre una metafora con il calcolatore, sono come l'insieme di istruzioni di base a disposizione dell'unità centrale di elaborazione, sono cioè cablate nella macchina, sono incorporate circuitalmente nell'unità centrale. Per continuare la metafora informatica, i concetti sarebbero come le istruzioni in linguaggio di programmazione, ad esempio, LISP o BASIC o altro, quando li si usa per pensare devono essere compilati nella forma di un linguaggio primitivo fondamentale, nella metafora le istruzioni proprie della unità centrale, nel pensiero sono i subconcetti.

Vincoli dell'induzione

L'induzione è la ricerca di un modello coerente con l'osservazione e le conoscenze di sfondo. Anche se l'induzione può avvenire con una sola operazione essa può implicare un esame di una gamma infinita di casi da implicare una esplosione combinatoria. Dunque, l'induzione deve essere contenuta da vincoli. In effetti, il pensiero induttivo presenta dei vincoli particolari: la specificità, la disponibilità, la parsimonia.La specificità è un potente vincolo dell'induzione. E' utile formarsi l'ipotesi che è soddisfatta dal minor numero possibile di esempi di un concetto. Questo vincolo è essenziale quando è possibile osservare solo esempi positivi del concetto; ad esempio nell'acquisizione di concetti, della fonologia, della sintassi, del lessico i bambini, come è stato più volte evidenziato (Berwick,1986; Reed, 88), seguono la regola del minor numero possibile di ipotesi. Il sistema induttivo inizia con l'ipotesi più specifica per poi passare ad una ipotesi più generale ogni volta che incontri un esempio positivo estraneo all'ipotesi corrente.La disponibilità è un altro vincolo generale dell'induzione; essa deriva dal meccanismo che permette il recupero delle conoscenze pertinenti. Certe informazioni vengono in mente più facilmente che non altre e la disponibilità delle informazioni, come si è detto più sopra, può distorcere il giudizio. La disponibilità è una sorta di distorsione, ma per far fronte all'intrattabilità dell'induzione quel che serve è appunto una distorsione.La parsimonia si riferisce al numero minore di concetti più semplice, cioè con un numero minore di combinazioni; è applicabile a domini dove la natura delle informazioni ha un carattere prevalentemente combinatorio.Una ulteriore fonte vincolante è l'uso delle conoscenze esistenti. Una ricca teoria sul dominio riduce il numero di induzioni possibili.L'induzione, che serve per interpretare il mondo, costruire un modello, migliorare le categorizzazioni rendendole più efficaci, e infine simulare i fenomeni, è soggetta a degli errori che sono simili agli errori presenti nei processi deduttivi. Come abbiamo già accennato parlando delle euristiche di ragionamento, i soggetti si rappresentano in mente le informazioni esplicite dei modelli, non tenendo i conti i valori negativi e quelli disgiuntivi, come dimostrato anche in laboratorio; dunque, il calcolo e il ragionamento basato su rappresentazioni deve ammettere un limite: l'uso di una parte della informazione, mentre l'altra (quella più ostica) viene ignorata, ma che è sempre disponibile per future eventuali correzioni. (Piattelli Palmarini, 93, 94; Dennett, 1990; Bruner et al., 1956).

 

Creatività

Spesso i problemi sia nel mondo reale sia in laboratorio richiedono la emissione di un comportamento nuovo, un cambiamento nel modo di agire e di pensare.Tradizionalmente, si è sempre considerato il pensiero creativo come basato si 4 stadi principali: preparazione incubazione, illuminazione e verifica. In sostanza prima si eseguono alcune prove, e si catalogano alcune esperienze e considerazioni, poi tutto deve essere riconsiderato e riorganizzato, anche per avere qualche nuovo sviluppo e qualche dato emergente che permetta ulteriori passi; ciò è dovuto al fatto che la mole di idee e di dati sono difficili da trattare senza riorganizzazione e schematizzazione, solo poi possono emergere dati nascosti, difficili da cogliere a prima vista. In seguito si ha, nel caso positivo, l'idea chiave che porta al comportamento risolutorio. Infine, rimane il verificare se l'idea porta a buon fine. Se il lavoro di riorganizzazione è fatto finemente la verifica è spesso positiva.Vari autori, solo con trascurabili varianti, hanno seguito questa impostazione nello studio della creatività e della scoperta (Freud, 32; Wertheimer, 1945 ; Duncker, 1945 ; Koestler, 1964; Piaget, 68, 71 ; Mednick, 1962).Nonostante gli sforzi di vari ricercatori, poche teorie si impongono come interessanti e credibili, mentre altre sono più che altro folkloristiche e stravaganti. Un esempio, che deve essere però rivisto sotto una nuova luce è la teoria del pensiero "laterale": mentre uno è impegnato in un compito, il suo inconscio lavora per trovare una soluzione creativa allo stesso compito (!) (G. Wallas, 1926).Come vedremo più avanti alcuni criteri e alcune regole devono essere seguite per giungere ad una performance (qualsiasi processo intendiamo come esempio di creatività), anche se, come appunto vedremo, alcuni passi devono essere ancora fatti.Nella creatività ci sono restrizioni da soddisfare all'interno dei campi di applicazione, ed una performance che consista semplicemente di una serie di lontane associazioni sarebbe probabilmente giudicato folle piuttosto che creativo. Vale la pena ricordare che spesso questa considerazione viene ignorata, e dunque l'artista viene assimilato al folle, e viceversa (con le ovvie conseguenze di una completa riduzione del fenomeno al grottesco); inoltre, non è secondario ricordare che certe forme d'arte ricercano "ad arte" queste affinità, ad esempio i dadaisti.

 

Una definizione

Cosa è un processo creativo? Per quanto difficile possa essere il dare una definizione di un processo così tradizionalmente sfumato e scivoloso, proviamo a definirne almeno il dominio.

1) Il processo creativo, come tutti i processi mentali, parte da alcuni elementi dati; infatti sarebbe inverosimile pensare a qualcosa che viene creato dal nulla.

2) Il processo non ha uno scopo preciso, ma soltanto alcune restrizioni preesistenti, e deve soddisfare alcuni criteri.

3) Un processo creativo fornisce un dato che è nuovo per l'individuo, non puramente ricordato o percepito, e non costruito a memoria o per mezzo di una semplice procedura deterministica.

La creazione, infatti, richiede di più che il calcolo o l'imitazione.Bisogna, naturalmente, distinguere ciò che è creativo da ciò che originale; tale distinzione non sempre è considerata. Un processo mentale può essere creativo anche se altre persone hanno avuto, separatamente ed indipendentemente la stessa idea, mentre ciò che è originale dipende da criteri espressi in una data comunità sociale mediante criteri espliciti o impliciti.Mentre può essere definibile psicologicamente un processo creativo, la spiegazione psicologica di un processo originale è, per ora, fuori dalla portata di una spiegazione accettabile.Ci sono almeno tre possibili processi che, almeno dall'esame delle varie teorie, emergono come spiegazioni della creatività.Un primo processo prevede almeno due stadi: un primo stadio che genera possibili prodotti, idee, elementi; un secondo stadio invece fa uso di restrizioni che eliminano i prodotto non adatti. Questa teoria, che è il concentrato di un numero vasto di posizioni di diversi autori (vedi Johnson Laird, 90), somiglia notevolmente ad un processo evoluzionistico darwiniano. Questa architettura è estremamente inefficiente poiché genera prodotti che per la maggior parte di essi sono inadatti, in assenza di restrizioni che guidino la produzione iniziale delle idee. Questo processo ha bisogno di continui passaggi per giungere ad un prodotto ac4cettabile, ed inoltre sembra improbabile che si generino idee su una base totalmente combinatoria casuale senza una base di restrizione e di vincolo.Una seconda tipologia prevede ad un primo momento una serie di restrizioni di partenza per la generazione guidata di prodotti adatti; ma dato che la generazione di elementi è appunto guidata saranno quasi tutti plausibili anche se in numero esiguo in quanto filtrati dal criterio di base. La conoscenza ha guidato la generazione delle idee creando appunto in funzione dello specifico vincolo e restrizione. Se vi sono più prodotti la scelta sarà necessariamente arbitraria. Questo tipo di processo ricorda molto da vicino la teoria dell'evoluzione lamarckiana.Un terzo tipo di architettura di processo creativo prevede restrizioni nel momento della generazione delle idee come anche nella selezione. Si distingue dai precedenti in quanto tiene conto del dato che le idee anche se vengono generate sulla base di un criterio possono venire imperfette o incomplete; l'individuo le può valutare sulla base di nuovi criteri o ulteriori elaborazioni, e così sono continuamente riviste e rielaborate. La procedura è ricorsiva, e il prodotto generato è valutato, il quale viene ricombinato per poi essere rivalutato, e così via.Questo tipo di processo creativo è definito da una architettura "multistadio" (Johnson-Laird, 1988).Una considerazione necessaria è la seguente: come mai gli esseri umani sono più disposti e più propensi a giudicare i prodotti che invece a generarli? Molte ricerche (vedi Reed, 1988) hanno evidenziato che gli individui elaborano queste due performance in due modalità diverse, l'una sotto il controllo cosciente, proposizionale, sulla base di criteri (anche espliciti), mentre l'altra, cioè la generazione, sia sotto il controllo di "moduli" non accessibili ad esplicite rappresentazioni (processi automatici, procedurali, taciti) (Tulving et al., 73; Polany, 66; Dennett, 87, 90; Fodor, 87 ; Humphrey, 1983)( vedere oltre, sull'Immaginazione).

 

La creatività artistica e la creatività scientifica

Alcuni autori (Dunker, 1945; Thagart, Holyoak, 1985) definiscono l'uso dell'analogia come uno degli ingredienti presenti in un processo creativo. L'analogia, in questo caso, stabilirebbe delle corrispondenze da un dominio ad un altro, ad esempio per meglio rappresentarlo e favorire la riorganizzazione e rielaborazione.L'analogia ha la funzione di disporre di un modello, che sia gestibile del soggetto, che sia sufficientemente familiare, che sia applicabile con una certa plasticità a diversi domini. La differenza tra uso scientifico e uso artistico del pensiero creativo potrebbe consistere nell'importanza assegnata al criterio di accettabilità della performance agli scopi prefissi, che nel caso della scoperta scientifica sono verificabili in quanto risolvono un problema (criterio di utilità), nel caso invece della creazione artistica il criterio è per definizione diverso (criterio estetico). Il peso del criterio di accettabilità può essere più rigido e selettivo nella scoperta scientifica dove dopo una fase di generazione selezione le possibilità in base al utilità che ne deriva; nella creazione artistica invece il criterio di accettabilità può essere più o meno variabile, e al limite anche largo ed accogliente in quanto il criterio si basa su standard socioculturali definiti in un momento storico piuttosto che in un altro. In entrambi i casi è comunque importante il giudizio della comunità di appartenenza o di riferimento che può premiare o rifiutare la performance sia in base alla sua utilità sia in base al suo stile estetico.

 

Pensiero immaginativo

Il pensiero immaginativo implica una modalità che si discosta dal pensiero proposizionale deterministico, come ad esempio la deduzione, e somiglia per certi versi al pensiero creativo per i prodotti non convenzionali di questo processo.Il pensiero immaginativo può includere in genere vari tipi di pensiero: l'immaginazione, le fantasticherie, il sogno.Nell'immaginazione il soggetto manipola i modelli rappresentativi delle proprie conoscenze, percettive, verbali, concettuali. La modificazione delle rappresentazioni avviene in modo relativamente libero, sebbene non completamente. L'influenza di altre funzioni mentali, come l'attenzione, la vigilanza, la coscienza, l'intenzionalità, la memoria, influenzano grandemente i prodotti della immaginazione. Spesso ciascuno di noi può trovarsi a pensare in modo libero ad una varietà di argomenti e situazioni, passando da una idea all'altra velocemente e liberamente: in tali casi le idee richiamano altre idee le quali ancora si collegano ad altre informazioni della nostra conoscenza. Le informazioni contenute nel pensiero immaginativo sono informazioni possedute nella MLT, e in alcuni casi con il contributo "on line" di informazionie stimoli in arrivo dai sistemi sensoriali. Ciò che è caratteristico del pensiero immaginativo è la rielaborazione di tali informazioni. Molti autori, da sempre, hanno sottolineato il concetto di "associazione tra idee", e in base a tale costrutto si è descritta l'immaginazione come caratterizzata da una "scarsa forza direzionale" (senza uno scopo). Le associazioni di idee descrivono il processo di collegamento tra informazioni nella memoria, e sono appunto influenzate dalle reti di organizzazione di tale funzione mentale (vedi capitolo sulla memoria).Nella fantasticheria il soggetto sembra essere più "svincolato" da una pianificazione e da uno scopo che comunque appartiene all'immaginazione.La fantasticheria permette all'individuo di accedere ad una attività non deterministica, non pianificata, che sembra essere sotto il controllo di "moduli" non intenzionali e di livello inferiore nella organizzazione del sistema cognitivo (Fodor, 1983; 1987; Dennett, 1987; 1990; Johnson-Laird, 1990; 1988; 1983). Tutti noi conosciamo l'attività del "sognare ad occhi aperti" la quale è intenzionale nel senso dell'accesso ad essa, anche se però con un certo allenamento (mental imagery), ma è non intenzionale nei suoi prodotti. Ma di quali informazioni è composta l'attività del fantasticare? Anche essa è composta da materiale informazionale contenuto nella MLT, ed eventualmente dei dati in entrata, ma le elaborazioni nella rappresentazione, che può essere molto vivida per tutti i sistemi sensoriali (maggiormente per il sistema visivo ed acustico), sono la caratteristica più spiccatamente decisiva e saliente. In alcuni soggetti tale attività è predominante, e le influenze delle altre attività e funzioni mentali sono peculiari. In soggetti che fantasticano facilmente, soggetti che "sognano ad occhi aperti", le misurazioni di parametri elettroencefalografici e le attività metaboliche cerebrali sono caratterizzate da un profilo che sembra indicare che tali soggetti siano "predisposti" ad un accesso e ad una attivazione di moduli in modo più elevato rispetto alla norma (Kosslyn, 1987, 1983; Joliecoeur P., Gluch M., KosslynS.M., 1984; Greenberg, Farah, 1986; Epstein, 1979; Cutting, 90; David, Cutting, 93; Frith, 93). Anche i risultati degli studi neuropsicologici depongono fortemente a favore di una localizzazione delle attività immaginative, in modo più deciso per le fantasticherie. Gli studi sulla specializzazione emisferica cerebrale individuano alcune aree dei lobi temporali sinistri come responsabili (nel deficit o nella iperstimolazione) della assenza o presenza dell'attività del fantasticare (Cutting, 85, 90, ; Epstein, 1979; ). Inoltre, alcune ricerche hanno correlato in un modo impressionante l'attività delle fantasticherie, quando sono spiccate, con alcuni parametri biometrici (EEG, SCL, PET, Movimenti Oculari di Inseguimento), alla attività allucinatoria, sia visiva sia uditiva (Magaro, 80; Bentall et al., 91). Molti tentativi sperimentali sono tuttora in corso, con soggetti schizofrenici, tendenti alla modificazione assistita (dal Biofeedback) dei suddetti parametri e quindi dei sintomi allucinatori .Anche nell'attività onirica l'attività del pensiero è guidata da organizzazioni modulari non intenzionali della conoscenza. Il sogno, sebbene composto di materiale derivante dalla MLT, e dai sistemi sensoriali che sono però fortemente attenuati dall'attività inibitoria centrale, è quasi-combinatorio nel modo di trattare gli elementi "sub-concettuali" del pensiero, come pure le informazioni immagazzinate nella MLT.Spesso, il sogno riflette, anche se in modo peculiare, l'attività pianificata del pensiero intenzionale dell'attività cosciente, ciò dimostra la rielaborazione di grandi quanità di informazioni che sono trattate, e che sono rappresentate così come sono state generate (certamente in modo non proprio uguale); inoltre, si può notare come le informazioni contenute nei sogni siano informazioni organizzate "per difetto", disponibili alla modificazione e rielaborazione, così da essere in continuo mutamento e in continua connessione con altri elementi.I sogni, infatti, a volte evidenziano e rappresentano possibilità del tutto nuove.

 

Problem Solving

I problemi sono o situazioni nuove che richiedono comportamenti nuovi o situazioni per cui non si hanno soluzioni soddisfacenti.Quando non possiamo rispondere ad una domanda usando la nostra informazione contenuta nella memoria, o quando non possiamo comportarci in una situazione come abbiamo fatto l'ultima volta o si solito, allora siamo di fronte ad un problema.Alcuni problemi sono difficili da risolvere perché "ci mettono", o ci mettiamo da soli, su una pista sbagliata. Quando ciò succede si dice comunemente che vi è una impostazione negativa. Altri problemi, invece, sono difficili perché richiedono una impostazione molto poco probabile nella media dei ragionatori, e per cui è necessario comporre i dati in modo insolito e creativo (vedremo più avanti).

 

Pensiero produttivo

Come già accennato, in alcuni problemi può aversi una organizzazione dei dati, e una loro rappresentazione, non utile e non adeguata alla soluzione di un problema; altre volte, le tante soluzioni che vengono con più facilità non sono sbagliate in modo assoluto, ma sono le più sconvenienti: la soluzione più efficace può essere quella più insolita.Sulla base di queste osservazioni alcuni psicologi gestaltisti (la corrente della psicologia della Gestalt) nella prima metà del secolo hanno studiato a fondo il fenomeno della organizzazione dei dati in relazione al comportamento risolutorio, ed alcuni di essi fra cui il caposcuola Max Wertheimer, e un suo assistente Karl Duncker, hanno coniato il termine di pensiero produttivo. Esso sottintende la prestazione positiva del pensiero nella soluzione di un problema. Lo studio di questo processo (per alcuni, una tendenza) ha infatti evidenziato alcuni tipici stadi o passaggi necessari affinché la prestazione risulti efficace.In numerosi, e ormai celebri, esperimenti questi psicologi hanno focalizzato finemente le "riorganizzazioni di campo" e le variazioni di composizione delle informazioni a disposizione necessarie alla risoluzione finale.In particolare, Duncker ha sottolineato che la maggior parte degli errori nella risoluzione è determinata proprio dalla incapacità, e a volte dalla comune difficoltà, di mutare atteggiamento valutativo e invece conservare un uso familiare e consueto, anche se errato, delle informazioni; questo comune processo inefficace alla risoluzione è chiamato fissità funzionale (Duncker, 1945). E' fin troppo evidente come questi processi del pensiero che conducono all'errore o al comportamento disadattivo siano il contributo dei processi deduttivi usati in modo scorretto e massivo; anche se da una parte economizzano nel tempo e nello sforzo risolutorio (euristiche), essi distorcono ed eliminano dalla rappresentazione elementi utili ad una diversa e nuova organizzazione (accomodamento-induzione). (vedere capitolo sull'Intelligenza, il paragrafo sul rapporto tra problem solving ed intelligenza).

 

Che relazione c'è tra la comprensione linguistica e soluzione dei problemi?

Molti autori definiscono la situazione problemica come un ostacolo che l'organismo, l'individuo, l'agente devono superare per raggiungere una meta che è ritenuta importante.L'analisi del linguaggio e l'analisi dei problemi possono, in certi casi, essere collegate. Nei casi nel cui ambito si può parlare di soluzione intelligente di problemi è utile rilevare che un problema sorge, come ha affermato Kanitza, quando <<un essere vivente, motivato a raggiungere una meta, non può farlo in forma automatica o meccanica, cioè mediante un'attività istintiva o attraverso un comportamento appreso. L'esistenza di una motivazione e la presenza, nella situazione problemica, di un impedimento che non permette l'azione diretta, creano uno stato di squilibrio e di tensione nel campo cognitivo dell'individuo>> (cit. in Girotto, 94). Per ristabilire quest'equilibrio, cioè risolvere il problema, il soggetto può andare per prove ed errori, per tentativi casuali, provando varie forme di comportamento, e trovare a caso la via adeguata per passare alla situazione insoddisfacente a quella perseguita; il soggetto, però, può anche mettersi a pensare e pervenire alla soluzione mediante un "atto" intelligente. Date queste premesse, possiamo senz'altro affermare che la forma linguistica posseduta dal "problema" influenza e governa le modalità accessibili di soluzione (ad esempio le soluzioni influenzate dalle versioni pseudo-parallele del testo problemico).In senso generale questo stretto rapporto tra linguaggio naturale, discorso, e risoluzione dei problemi non deve affatto stupire, essendo il discorso un processo vicino alla attività di pensiero e ragionamento. Il fatto stesso che nella vita quotidiana usiamo espressioni del tipo "pensa bene prima di parlare" ci indica che il discorso sia la modalità più complessa ed articolata di espressione del pensiero, ed è classicamente caratterizzato da quella consequenzialità ed unitarietà che è tipica del fluire delle nostre idee e del nostro ragionamento in un contesto naturale. Inoltre, l'analisi d'insieme di dati di un problema tipicamente si snoda in forma di "discorso", in un senso linguistico stretto (dando risalto alle sequenze di elementi e alle relazioni tra questi elementi).Sebbene i meccanismi cognitivi della comprensione del linguaggio e quelli del pensiero produttivo o del problem solving siano simili (o identici), esiste una interessante relazione tra forma linguistica e risoluzione dei problemi. In sostanza, con l'uso delle "versioni parallele" vari ricercatori hanno verificato che la forma espressa dal testo problemico influenza notevolmente il comportamento risolutorio. E' una variabile stilistica, propria del mezzo, o è una variabile intellettiva-cognitiva mascherata linguisticamente? Sembra che la forma di certe frasi sia più complicata e più "ambigua" da elaborare rispetto ad altre.In generale, possiamo definire il comportamento risolutorio come quella condotta o quell'atto cognitivo teso al raggiungimento di una meta che è rilevante per il soggetto.Anche se c'è una notevole differenza tra la comprensione del linguaggio e il problem solving, le due cose però si avvicinano nell'attività di comprensione dei problemi perché l'enunciato o la prescrizione devono essere prima di tutto interpretare, il che viene fatto ponendo questi elementi in relazione con il contenuto della Memoria a Lungo Termine.I problemi matematici danno una semplice idea di questo. Essi consistono in un confronto di semplici configurazioni, almeno negli adulti, dove la risposta al problema è parte costitutiva di questa configurazione.A parte i casi di memoria prodigiosa, dove viene recuperata, e quindi mantenuta, l'intera configurazione d'insieme del problema, solitamente quello che si fa è il confronto tra schemi e configurazioni e l'uso di procedure per trattare di volta in volta i casi.In operazioni complesse, la configurazione è piuttosto complessa, ed è costituita dai termini del problema, ai quali si applicano le procedure che sono anch'esse parte della configurazione generale d'insieme.Quando si giunge alla applicazione di queste regole e procedure (addizione, sottrazione, incolonnamento, riporto, altre regole, ....) il problema è stato già rappresentato su una struttura appropriata di conoscenza.Vari ricercatori hanno messo in luce che quanto più efficaci si è nel risolvere problemi (di vario tipo) tanto più è stata di aiuto una buona rappresentazione del problema.Un problema viene compreso, e quindi risolto, sulla base di ciò su cui è rappresentato (modello), anche se questo limita la possibilità di altre rappresentazioni.In sostanza, ci si può rendere conto che i nuovi input vengono interpretati sulla base dei termini delle vecchie strutture della memoria.Inoltre, gli stessi termini possono, e solitamente lo sono, essere collegati a patterns emotivi, schemi di significato con contenuti specifici aventi un determinato scopo funzionale; quando un termine evoca qualcuno di questi schemi il soggetto può attivare il proprio repertorio cognitivo-emotivo-comportamentale nella direzione specifica indicata da quello schema interpretativo (Alford, Beck, 1997; Dell’Erba 1993b; 1992). Gli stessi tratti di personalità possono agire come schemi di significato influenzando il processo attribuzionale e valutativo nella direzione coerente con i propri scopi importanti (Alford, Beck, 1997; Dell’Erba, 1993a; Miceli, Castelfranchi, 1993).

 

Decisione e Giudizio

I problemi che abbiamo discusso finora implicano delle certezze, e riguardano situazione nelle quali vi sono informazioni sufficienti per trovare la soluzione; solitamente vi è una sola risposta giusta, tutto è trovarla.Nella vita quotidiana invece incontriamo situazioni problematiche le quali richiedono una presa di decisione in condizioni di incertezza. Non abbiamo una sola risposta esatta, e le informazioni non sono complete. L'informazione è invece probabilistica, e le decisioni che prendiamo sono in realtà delle scommesse sul futuro. Quanto siamo abili a prendere tali decisioni?Prendere delle decisioni di solito richiede la valutazione di almeno due alternative che differiscono rispetto a diversi attributi. La selezione di un alternativa richiede che il decisore combini l'informazione presente sui vari attributi per formare una valutazione complessiva per ciascuna alternativa. Lo studio di come le persone ricercano l'informazione fornisce evidenza riguardo alle strategie decisionali.Alcuni studiosi del settore hanno definito dei modelli decisionali e ne hanno formalizzato le caratteristiche.Un primo modello, detto compensatorio, tiene conto della somma degli attributi positivi e negativi delle due alternative (detto anche modello dei pro e contro). Un altro modello compensatorio, delle differenze, calcola la differenza tra l'una e l'altra delle alternative. I due modelli sono diversi in quanto a procedura: mentre l'uno esamina esaustivamente una alternativa prima di passare all'altra, invece il secondo esamina ogni singolo attributo nelle due alternative contemporaneamente (uno procede per alternative, l'altro per attributi).Vi sono poi i modelli di tipo non compensatorio che considerano la procedura detta eliminazione per aspetti: questo metodo esamina la lista di attributi secondo un criterio restrittivo , e al primo aspetto negativo elimina l'intera alternativa. In questa procedura, vengono eliminate gradualmente le alternative meno gradevoli, e non richiede di effettuare alcun calcolo ed è molto veloce, però se c'è da accontentarsi tra una lista di alternative di basso livello tutto il peso grava sul criterio che deve essere ben calibrato; il rischio è di scartare tutte le alternative e rimanere senza nessuna scelta, anche se di bassa qualità.Le ricerche sulla selezione delle strategie decisionali dimostrano che essa dipende dalle caratteristiche del compito. Comunque, gli studi sui processi decisionali di decisori sperimentali, sia artificiali sia naturali, hanno indicato che ad esempio le importanti decisioni richiedono una certa complessa strategia analitica a) se la decisione è importante, b) se la decisione non può essere modificata, c) se essi sono personalmente responsabili per la decisione presa (Beach, Mitchell, 1978; McAllister, Beach, Mitchell, 1979).La decisione in condizioni di rischio si riferisce alle situazioni di incertezza - per esempio, la valutazione del potenziale pericolo di un reattore nucleare, l'acquisto di un'assicurazione, la diagnosi di malattie. Per prendere buone decisioni è necessario stimare accuratamente le probabilità. Le stime di probabilità sono prese dagli umani sulla base di euristiche, che sebbene veloci, non sempre garantiscono delle stime ragionevoli (Tversky e Kahneman, 1973; 1986). La disponibilità e la rappresentatività sono due tipi di euristiche comuni. In base all'euristica della disponibilità, le persone valutano la probabilità di un evento giudicando la facilità con cui riescono a ricordarsi i casi in cui si è verificato. In base all'euristica della rappresentatività, la probabilità di un evento è stimata in funzione del grado di somiglianza con le proprietà essenziali della popolazione cui appartiene Kahneman e Tversky, 1973; Nisbett e Ross, 1980; Piattelli Palmarini, 1993, 94; Rumiati, 90).Vi sono anche altri modelli della presa di decisione che fanno uso di procedimento di analisi più sofisticato e matematicamente assistiti, ma che in questa sede non ci riguardano da vicino: il modello della stima del valore atteso, e quello della utilità attesa; in quanto non riflettono i processi di pensiero umano ma sono procedura di assistenza alla decisione, decidiamo di non trattarle.Ulteriori indicazioni modellistiche provengono dalle teorie della detenzione del segnale secondo le quali le probabilità associate a due eventi distinti sono valutate sulla base delle stima di frequenza positive e sulle stime di errore in due curve gaussiane confinanti; dalla stima associata si potrebbe derivare, almeno teoricamente, i casi veri-positivi, falsi positivi, veri-negativi, falsi-negativi. Questo modello descriverebbe l'apporto delle conoscenze di base nel confronto con l'apporto delle informazioni nuove; inoltre, esprimerebbe il rischio del soggetto di decidere, ad esempio riconoscendo un segnale nuovo piuttosto che noto o viceversa, seguendo un processo induttivo o dedutivo. Il risultato delle scelte dei soggetti, come vedremo più avanti, è spesso coerente con la propria personalità e organizzazione più stabile delle conoscenze.

 

Euristiche per la diagnosi guidata

Ricordiamo brevemente alcuni suggerimenti tratti dalle celebri ricerche di Elstein (1978; 1979) sull'uso di euristiche di decisione e di giudizio nella pratica diagnostica in attività cliniche.

1) Generazione di ipotesi alternative.

a) Molteplici ipotesi in competizione tra loro. Il pensare a diverse possibilità diagnostiche compatibili con i principali sintomi dichiarati e con i risultati preliminari. Il non fare diagnosi affrettate.

b) Probabilità. Il considerare per prima cosa le diagnosi più comuni.

c) Utilità. Il considerare con attenzione quelle diagnosi per le quali sono disponibili terapie efficaci e quelle in cui un mancato trattamento costituirebbe una seria omissione.

2) Acquisizione dei dati.

d) Controllo pianificato. Il costruire un piano ragionato per il controllo delle ipotesi, in grado di considerare le probabilità e le utilità in gioco. Il definire una sequenza di esami di laboratorio alla scopo di controllare per prima cosa le malattie più comuni (probabilità) e successivamente le malattie che più hanno bisogno di trattamento (utilità).

e) Visita del paziente. L'esame fisico del paziente dovrebbe utilizzare procedure gerarchiche, in modo da rendere superflui esami eccessivamente dettagliati.

f) Calcolo costi/benefici. Il considerare gli effetti collaterali di un esame e il costo. Il confrontare tutto ciò con l'informazione che ne potrebbe essere ricavata.

g) Precisione. Il cercare di ottenere dal test un grado di precisione proporzionato all'importanza della decisione. Un grado di precisione maggiore non è necessario.

3) Combinazione dei dati e selezione dell'azione.

h) Evidenza disconfermatoria. Il cercare e il valutare l'evidenza che tende a falsificare qualsiasi ipotesi così come quella che tende a confermarla.

i) Diagnosi multiple. Il non dimenticare la possibilità che un paziente con diversi malesseri possa avere più di una malattia.

j) Revisione delle probabilità. Il rivedere le probabilità dopo avere acquisito i dati. Se i risultati mostrano come più probabile la diagnosi A rispetto alla diagnosi B, il rivedere la propria opinione a favore di A.

k) Probabilità e utilità. Una volta intrapresa una terapia, il considerare sia la probabilità delle diagnosi per cui quella terapia è appropriata sia i costi e benefici che ne seguirebbero. Il combinare queste due considerazioni per stimare il valore atteso e lo scegliere in maniera tale da massimizzare il valore atteso.

Tali suggerimenti sono il risultato di un tentativo di integrazione delle intuizioni derivate dai modelli normativi della decisione con quelle derivate dai modelli cognitivi, al fine di definire uno strumento pratico.

 

Distorsioni valutative e di giudizio

Vari autori hanno osservato tipici errori logici o distorsioni nel giudizio e nelle valutazioni che si riscontrano in soggetti che soffrono di disturbi mentali.Questi errori possono condurre gli individui a conclusioni errate anche se la loro percezione dalla situazione è accurata. Se, invece, la situazione è percepita erroneamente, queste distorsioni valutative possono amplificarne l'impatto.Tali distorsioni di pensiero sono il risultato della applicazione inefficace e impropria di euristiche di giudizio e valutazione che discendono da un uso massivo e disfunzionale di processi di tipo deduttivo (schema theories, top-down biases). Alcuni autori ricollegano le distorsioni di giudizio al difettoso sviluppo del pensiero maturo e logico-formale dell'adulto evidenziando le distorsioni comuni nel bambino "egocentrato" (Rosen, 1989; Piaget, 1968). Tali distorsioni, a ben considerare, non sono distanti dai meccanismi presenti nelle euristiche di ragionamento; il loro scopo è, evidentemente, di risolvere "in fretta" una certa situazione (pratica, affettiva, interpersonale) senza modificare la conoscenza di base posseduta. Queste modalità di pensiero, di ragionamento e giudizio, rilevanti per la psicopatologia, sono peraltro comuni ed utilizzati nel ragionamento quotidiano quando le condizioni di tempo e di complessità lo richiedono. Semplificare e accellerare sempre e comunque, non può essere sempre una soluzione razionale.Sono elencate alcune comuni distorsioni valutative, in parte tratte dai lavori di autori come Beck (1976), Ellis (1994), Piaget (1971), Kohlberg (1984), Kelly (1955).

Pensiero dicotomico: Le cose sono viste in termini di categorie mutualmente escludentisi senza gradi intermedi. Ad esempio, una situazione o è un successo oppure è un fallimento; se una situazione non è proprio perfetta allora è un completo fallimento.

Ipergeneralizzazione: Uno specifico evento è visto come essere caratteristica di vita in generale piuttosto che come essere un evento tra tanti. Ad esempio, concludere che avendo qualcuno mostrato un atteggiamento sconsiderato in una occasione, non considerare le altre situazioni in cui ha avuto atteggiamenti più opportuni.

Astrazione selettiva: Un aspetto di una situazione complessa è il focus dell'attenzione, ed altri aspetti rilevanti della situazione sono ignorati. Ad esempio, focalizzare un commento negativo in un giudizio sul proprio lavoro trascurando altri commenti positivi.

Squalificazione del lato positivo: Le esperienze positive che sono in contrasto con la visione negativa sono trascurate sostenendo che non contano. Ad esempio, non credere ai commenti positivi degli amici e colleghi dubitando che dicano ciò solo per gentilezza.

Lettura del pensiero: Le persono sostengono che altri individui stanno reagendo negativamente senza alcuna prova evidente di ciò che affermano. Ad esempio, affermare di sapere che l'altro pensa di sé negativamente anche contro la rassicurazione di quest'ultimo.

Riferimento al destino: L'individuo reagisce come se le proprie aspettative negative sugli eventi futuri siano fatti stabiliti. Ad esempio, il pensare che qualcuno lo abbandonerà e che lo sa già, e agire come se ciò fosse vero.

Catastrofizzazione: Gli eventi negativi che possono capitare sono trattati come intollerabili catastrofi piuttosto che essere visti nella giusta prospettiva. Ad esempio, il disperarsi dopo un brutta figura come se fosse una catastrofe terribile e non come una situazione semplicemente imbarazzante e spiacevole.

Minimizzazione: Le esperienze e le situazioni positive sono trattate come reali ma insignificanti. Ad esempio, il pensare che in una cosa si è positivi ma che essa non conta in confronto ad un'altra più importante.

Ragionamento emotivo: Considerare le reazioni emotive come reazioni strettamente attendibili della situazione reale. Ad esempio, decidere che siccome ci si sente sfiduciati, la situazione è senza speranza.

Doverizzazioni: L'uso di "dovrei", "devo", "bisogna", si deve", ecc... per assicurare la necessaria motivazione e controllo al comportamento. Ad esempio, il pensare che un amico deve stimarci, perchè bisogna stimare gli amici.

Etichettamento: Attaccare una etichetta globale a qualcuno piuttosto che riferirsi a specifici eventi o azioni definite a specifici settori o nel tempo. Ad esempio, il pensare che si è un fallimento piuttosto che si è inadatti a fare una certa cosa.

Personalizzazione: Assumere che uno è la causa di un particolare evento quando nei fatti, sono responsabili altri fattori. Ad esempio, considerare che una momentanea assenza di amicizie è il riflesso della propria inadeguatezza piuttosto che un caso.

Tali errori di giudizio derivano, come già evidenziato, sia da studi sperimentali che da evidenze cliniche (Miceli M., Castelfranchi, C., 1995; Piattelli Palmarini M. 1993,1994; Leahy R., 1996; Boudon R., 1994; Elster J., 1979; Nisbett R.E., Ross L., 1980; Rumiati R., 1990; Kahnemann D., Slovic P., Tversky A., 1982; Mancini F., 1996; Rosen H., 1993; Ingram R.E., 1986; Magaro P.A., 1981; Fowler D., Garety P., Kuipers E., 1995).

 

Elaborazione dell'informazione e psicopatologia del pensiero.

Livelli di elaborazione nella schizofrenia

Già da una ventina d'anni alcune ricerche sottolineano l'importanza dello studio del livello di elaborazione dell'informazione ai fini di una migliore descrizione dei disturbi del pensiero, o in generale di un maggior contributo alla comprensione della psicopatologia.L'influenza della flusso informativo si applica sia verso l'alto (bottom-up) sia verso il basso (top-down). Quando l'influenza dei dati si manifesta in modo massivo con una scarsa possibilità di regolazione correttiva allora il risultato del processo del pensiero sarà distorto, e con una certa probabilità anche disadattivo.Varie ricerche (Magaro, 1980; 1984; 1986; Frith, 1994) hanno evidenziato le differenze nel flusso di elaborazione e quindi nel tipo di pensiero che caratterizza due sottotipi della schizofrenia, quella "paranoide" e quella "non paranoide". Nella prima il processo sarebbe massivamente deduttivo, con tutte le caratteristiche già descritte; nella schizofrenia non paranoide invece vi sarebbe una elaborazione prevalentemente induttiva. Quindi, mentre la prima conduce verso una conoscenza già posseduta (assimilazione) e verso una tendenza alla conferma, la seconda conduce verso una tendenza al mutamento e alla disorganizzazione (accomodamento), e quindi all'impatto dei dati sul sistema conoscitivo, così tipico dell'"inondamento" sensoriale della schizofrenia.

 

Pensiero veloce e pensiero rallentato

Alcune ricerche hanno approfondito l'aspetto "motorio" del pensiero (Weimar, 77; Magaro, 80; 81) (da altri autori definito come aspetto "energetico" del pensiero, ad esempio...). Questi studi descrivono le interazioni tra modificazioni biologiche, attraverso l'uso di sostanze, la somministrazione di farmaci, la osservazione di pazienti con determinate performance, e gli studi condotti con rilevazioni biometriche (Cutting, 85; 90; David, Cutting, 93; Frith, 92). Si è evidenziato che i soggetti che presentano performance definite come tachipsichismo, logorrea, distraibilità, accellerazione del pensiero, velocità associativa, "giochi di parole", associazioni non convenzionali, sono correlate alla iperattività dopaminergica (Cutting, 1985, 1990; Bentall et al, 1991; Owen et al, 1978; 1985). Mentre performance quali il rallentamento psicomotorio, il blocco delle idee, la scarsa fluidità verbale (non dovuta a deficit nell'area di Broca), la tendenza alla chiusura, il ritiro, sono correlate alla ipoattività dopaminergica, e alla iperattività serotoninergica (Owen et al., 1978, Beitman, Kelrman, 1984). Alcuni ricercatori (Cutting, 1985; Frith, 1987, 1992) hanno definito la presenza di una iper- o ipoattività dopaminergica come una variabile lungo un continuum che descriverebbe i casi suddetti.Altri neuropsicologi (Frith, 1992; Cutting, 1990; David, Cutting, 1993) hanno invece evidenziato, attraverso lo studio dei pazienti cerebrolesi, la dipendenza della velocità del pensiero dalla zone della lesione: ciò che si rileva è un interessamento dell'emisfero sinistro nelle zone di Broca e di Wernicke; dunque, ci sarebbe una corrispondenza tra i disturbi afasici (comprensione e scarsa fluenza verbale, cioè Afasia di Broca come opposta a scarsa comprensione e logorrea, cioè Afasia di Wernicke).Questi risultati spiegherebbero la tradizionale associazione tra disturbi produttivi (schizofrenici, maniacali, e simili) e "creatività" di tipo artistico ed inventivo. In sostanza, la produttività accellerata nella generazione delle idee, e la continua combinazione degli elementi subconcettuali determinerebbe la "materia prima" delle produzioni non comuni, peculiari, e divergenti comuni nei disturbi del pensiero, senza quindi giovarsi della funzione di selezione e ricombinazione operata della pianificazione rispetto ai criteri (artistici, scientifici, ecc.).

 

Sistemi di elaborazione e psicopatologia

Numerose ricerche, sia nel campo della psicologia del pensiero che nel settore della neuropsicologia, sia mediante l'armamentario sperimentale psicologico sia mediante strumentazione neurologica per immagini (PET, EEG mapping), hanno evidenziato una relazione tra tipologie di pensiero e specifiche funzioni cerebrali o moduli. Anche limitatamente allo studio "funzionale" del pensiero non può essere negata le presenza di almeno due sistemi diversi di elaborare le informazioni. Dagli studi esaminati (Kosslyn, 1987; Mosher, 1985; Magaro, 1980, 1981; Bentall et al, 1991; David, Cutting, 1993) si rileva che due sistemi governano alcune funzioni del pensiero; funzioni che possono estendersi dal puro ragionamento logico al riconoscimento di stimoli. I due sistemi sono denominati "What System" e "Where System" a seconda della modalità del proprio funzionamento tipico. Il primo, "What System", è caratterizzato dalla elaborazione in funzione del "che cosa" è rilevante, mentre il secondo elabora in funzione del "dove", cioè del frame, sia esso logico o pragmatico.Il What System è definito dalle caratteristiche seguenti:

- modo categoriale

- deduttivo

- relazioni proposizionali

- regole logico-sintattiche

- iper-linguismo

- letteralità

- modo associativo

Il modulo specifico indentificato è stato chiamato "speech-controller" (controllore linguistico) proprio per la sua principale caratteristica operativa. Le sue basi neurali sono state individuate nella zona definita come Sistema Ventrale nell'emisfero sinistro del cervello.Il Where System è definito dalle seguenti caratteristiche:

- relazioni spaziali

- identificazione come unità

- applicazione per difetto

- ricerca coordinate esterne

- pragmatica

- uso contestuale linguaggio

- illusione di familiarità

Il modulo indicato è stato chiamato "search-controller" (controllore di ricerca) per le sue caratteristiche specifiche di funzionamento. Le sue basi neurali sono individuate nel Sistema Dorsale nell'emisfero destro.Ora, è immediato collegare il fatto che una correlazione tra modalità di funzionamento e stile di pensiero e locus cerebrale può rendere conto di una larga serie di fenomeni psicopatologici sia a livello descrittivo sia a livello causale; naturalmente, il debito continuo riscontro è obbligato, ma le recenti ricerche nel settore sembrano confermare la relazione tra funzionamento locale cerebrale (con i propri meccanismi di regolazione e disfunzione) e modalità specifiche di funzionamento del pensiero.Un esempio di specificità del funzionamento del pensiero, anche se non sovrapponibile alle precedenti distinzioni, è quello indicante le caratteristiche di modalità di funzionamento in senso deduttivo o induttivo con un forte accento nell'uno o nell'altro senso attinente al "flusso dello stimolo". Una schematizzazione può essere la seguente:

caratteristiche iper-induttive:

- incoerenza

- depersonalizzazione

- derealizzazione

- illogicità

caratteristiche iper-deduttive:

- egocentrismo

- rigidità

- ostinazione

- distorsioni cognitive

- delirio

Tale distinzione, forse estrema, rende comprensibili molti degli errori e distorsioni del pensiero, e indica distinzioni di modalità di pensiero utili allo studio differenziale dei vari quadri psicopatologici, considerati almeno per questa principale funzione della mente.

 


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Lo sviluppo delle emozioni sociali e la integrazione interpersonale

 

Gian Luigi Dell'Erba


Come parziale programma di lavoro mi pongo il compito di tracciare una, spero breve, introduzione alle emozioni, e procedere verso la descrizione dello sviluppo della comprensione infantile delle emozioni, e della capacità degli individui in generale di "capire" cosa possono provare gli altri ed in quali condizioni; questi aspetti, come spero di dimostrare, sono cruciali per lo sviluppo del senso di responsabilità personale e di adeguamento alle norme di un gruppo o di una comunità; inoltre, questi antecedenti psicologici sono, in definitiva, tra i presupposti principali sia del disadattamento individuale che della deviazione dalla cooperazione sociale.Come definizione iniziale propongo la seguente: le emozioni sono schemi di azione che coinvolgono il livello psicologico (le rappresentazioni), il livello comportamentale (le reazioni), ed il livello biologico (le attivazioni neuro-ormonali). La funzione delle emozioni è di:

a) informare il soggetto delle emozioni degli altri,
b) riconoscerle in se stesso,
c) preparare l’azione adeguata.

Le emozioni sono euristiche di condotta derivate dalle condizioni della nostra evoluzione.

Principali teorie

Come spesso accade, vi è un cospiquo numero di teorie, che riflettono nel tempo gli interessi della ricerca.La prima, in ordine di tempo tra quelle moderne, é quella di James-Lange (dal nome dei due autori che indipendentemente contribuirono a costruirla). Secondo questa teoria l'emozione é determinata dall'effetto sulla coscienza delle reazioni organismiche scatenate da uno stimolo: lo stimolo viene colto dai sistemi superiori corticali coincidenti con la coscienza . La coscienza coglierebbe successivamente quanto è accaduto a livello biologico e comportamentale.Un'altra teoria é quella di Watson. Egli inquadrava le emozioni come reazioni periferiche in risposta a stimoli ambientali, senza il bisogno di citare la coscienza del soggetto in questa reazione. Teoria che in qualche modo si appoggiava ai riflessi condizionati.Una teoria del tutto diversa é quella di Cannon-Bard (anche in questo caso prende il nome da due fisiologi che indipendentemente vi hanno contribuito). Questa teoria, cortico-diencefalica, vede nel processo di valutazione (superiore) un ruolo primario che innesca attraverso l'azione (inferiore) dell'ipotalamo gli schemi predisposti delle reazioni organismiche neuro-vegetativo-comportamentali, e quindi rimanda alla corteccia il segnale per l'attribuzione del significato emotivo. Questa teoria introduce in campo il concetto di schemi predisposti, di natura comportamentale e lascia aperta la via per lo studio del ruolo della valutazione del pattern che ha stimolato l’attivazione emozionale. Accanto a queste teorie "storiche", citiamo alcune più recenti.La teoria di Schachter e Singer vede nel processo di valutazione cognitivo un ruolo centrale fondamentale. Gli autori evidenziano che il soggetto attribuisce ad uno stimolo un valore di attivazione (arousal) e successivamente assegna alla situazione un significato emotivo invece che un altro (oppure nessuno). In sostanza, l'attivazione non é sufficiente per avere una emozione, é il processo di attribuzione del significato che la definisce. In questo caso vi è un passo avanti nello studio della valutazione soggettiva, ma una carenza nella spiegazione dei fattori emotivi di base.Una teoria molto moderna è quella di Johnson-Laird e Oatley (1990, 1995). Essi definiscono le emozioni come un sistema di segnalazione a più livelli. Uno arcaico, immediato, primitivo, più rozzo, ma molto diffuso. l'altro livello, più complesso, "proposizionale", valutativo e autocosciente (in riferimento ad attribuzioni di significato su di sè, sul mondo, sugli altri). I due livelli hanno una giustificazione diversa: il primo, quello "di base", è essenzialmente predisposto ad una rapida risposta coerente con l'adattamento organismico all'ambiente, l'altro livello costituisce una caratteristica evoluta che coincide con le valutazioni e le comunicazioni sociali tipiche del pensiero proposizionale ed autocosciente (Johnson-Laird,1990, 1991;Johnson-Laird e Oatley, 1990).Secondo le teorie degli appraisal e delle tendenze all'azione (Arnold, Frijda, Scherer, Leventhal, Roseman, Smith e Ellsworth, Lazarus) gli elementi cognitivi e valutativi sono i contenuti e le cause delle emozioni; si tratta di conoscenze di per se stesse emotive con cui si valuta con immediatezza la dannosità/utilità dello stimolo per la persona e sono ciò che rende uniche e inconfondibili le varie emozioni.E' utile sottolineare la differenza tra il concetto di conoscenza (knowledge) e quello di valutazione cognitiva (appraisal): con il primo termine si indicano gli aspetti generali e contestuali delle conoscenze, sia concrete sia astratte e simboliche, organizzate nella nostra mente in forma di atteggiamenti, credenze, teorie ingenue, ecc...; le valutazioni cognitive sono invece una forma di significato personale che consiste di valutazioni compiute sul significato che le conoscenze hanno per il proprio benessere.Secondo le teorie della rappresentazione (Fehr e Russel, Shaver e coll., Conway e Bekerian, e per certi versi Kelly) le esperienze emotive sono concettualizzate nella mente in forma di prototipi e script; queste strutture regolano la codifica e la decodifica degli eventi emotigeni e, secondo alcuni, possono essere assunte come modelli impliciti del processo che produce l'esperienza emotiva. Le ricerche condotte per verificare la capacità discriminante delle valutazioni cognitive e delle tendenze all'azione hanno prodotto risultati incoraggianti ma non definitivi; per un verso, si può dire che sono stati individuati i sistemi valutativi specifici di alcune emozioni (quelle di base), ma d'altra parte queste associazioni fra valutazioni, tendenze all'azione ed emozioni si sono dimostrate poco stabili. Tuttavia, almeno per quel che riguarda le emozioni fondamentali si dispone di una concettualizzazione sufficiente a porre in relazione valutazioni personali, programma emozionale, e tendenza all'azione (si veda oltre, sulle applicazioni cliniche).Ad esempio, fra gli antecedenti cognitivi delle emozioni va ricordato il processo di coping, ossia la valutazione delle modalità con cui possono essere affrontate le richieste poste da una situazione in cui si prova emozione (va sottolineato che sul concetto di coping e di autoefficacia si riferiscono alcuni promettenti programmi di terapia cognitiva e terapia cognitivo-comportamentale che basano proprio sulla valutazione del proprio "potere" personale il fulcro dell'intervento).Per quel che riguarda la organizzazione della conoscenza in relazione alle emozioni, gli studi sul prototipo (Rosch, 1978) hanno mostrato che le emozioni sono concettualizzate in forma gerarchica su tre livelli che variano per specificità/generalità; inoltre, le sei emozioni di base hanno una struttura prototipica simile che comprende la rappresentazione di tutti gli elementi associati ad un'esperienza emotiva, come: antecedenti personali e situazionali, risposte fisiologiche, espressive, cognitive e comportamentali (Fehr, Russel, 1984); ciò sembra essere conciliabile con le ricerche categoriali attinenti alle emozioni fondamentali.

Lo sviluppo della capacità di comprendere gli altri

Dopo aver tracciato uno schema generale e storico sulle emozioni (per quanto succinto e forse ingiusto) è giunto il momento di addentrarci nel problema dello sviluppo della capacità degli individui di comprendere gli stati d'animo, i sentimenti, le emozioni altrui, riuscendo perfettamente a inferirne i possibili scopi, stati, bisogni, obiettivi.Uno dei problemi di base che dobbiamo porci è quello relativo all'origine dell'esperienza emotiva individuale, e dello sviluppo della comprensione delle emozioni provate dagli altri.Necessariamente molte delle argomentazioni sullo sviluppo, oltre che delle validazioni sperimentali, sono sostenute a partire dall'indagine sperimentale effettuata sui bambini. Invece, le posizioni sul sistema e sulla struttura delle emozioni è per lo più effettuata attraverso ricerche comparate, o sulle dimensioni comuni.Solitamente, in casi normali, all'esperienza di una emozione è associata la espressione di essa attraverso una qualche modalità, ad esempio attraverso il viso o la voce, o la gestualità. Questo punto così generale porta a pensare che questa regolarità (appunto in casi normali) sia data, e che anche i bambini siano in grado di comprenderla. Charles Darwin (1982) ha proposto due ipotesi che sono centrali anche ai nostri giorni. La prima sostiene che tutti gli individui possiedano in modo innato un intero repertorio di espressioni facciali discrete; la seconda sostiene che per mezzo di tali espressioni gli individui attribuiscano il giusto significato alle emozioni altrui, cioè le comprendano, e che questo riconoscimento sia anch'esso innato.Per quanto riguarda le espressioni facciali, le ricerche di Paul Ekman (1989; 1980; 1986) e dei suoi collaboratori hanno ampiamente dimostrato che le modalità espressive facciali sono comuni a tutte le culture, confermando in senso innatista la tesi darwiniana.Il riconoscimento delle emozioni sembra più complesso da dimostrare, ma molti ricercatori hanno effettuato studi solidi nella direzione già proposta da Darwin.Varie ricerche hanno dimostrato che il comportamento sociale del bambino è precoce, ed evidenzia già dal primo anno una autentica comprensione di espressioni prodotte dall'adulto in riferimento ad un oggetto, al quale il bambino reagisce in modo analogo.Come sostiene Harris (1991) <<... il bambino di un anno di età possiede una rudimentale abilità di conferire significato a specifiche espressioni emotive e di concepirle come riferimenti selettivi nei confronti di determinati oggetti. In una successiva fase evolutiva, i bambini iniziano a comprendere che un'espressione emotiva può rivelare qualcosa a proposito di chi la manifesta>>.Già nel secondo anno di vita, i bambini dimostrano di saper prevedere le possibili emozioni provate dall'altro. Uno dei diversi esempi è quello riguardante la disponibilità dei bambini di questa età a confortare i coetanei come pure a irritarli provocandoli. Essi dimostrano di conoscere il tipo di reazione dell'altro bambino. E' comune, ad esempio, notare come i bambini conoscano bene le circostanze e gli oggetti connessi a situazioni emotive che essi vogliono ridurre o innescare. Questo tipo di comportamenti suggeriscono l'esistenza di un salto di qualità nella capacità di comprendere le emozioni.Un punto fondamentale sembra essere il seguente.Durante il secondo anno di vita nei bambini vi sono alcuni cambiamenti significativi che sembrano riflettere la storia familiare dei soggetti.Come sottolinea Harris, < > (Harris,1991).All'opposto, i figli di genitori maltrattanti rimangono intensamente turbati dalle emozioni negative espresse da un altro bambino tanto da manifestare rabbia, insofferenza, e comportamenti aggressivi in genere. Inoltre, sembra esserci una differenza generale di base tra alcuni bambini ed altri nella capacità ad assumere facilmente un punto di vista di un altro.Comunque, gli elementi fondamentali qui esaminati, le chiare prescrizioni e i maltrattamenti familiari, sembrano essere delle variabili "forti" nella disponibilità a comprendere, ed a consolare e confortare un coetaneo.Secondo molti autori, la tendenza naturale dei bambini, in generale, sarebbe quella di considerare le azioni e gli eventi che comportano sofferenza ed arrecano disagio ad altri come "ingiusti".E' molto probabile, dunque, che le reazioni degli altri bambini siano un segnale importante nell'adozione di un modello adeguato della comprensione delle emozioni altrui.Dobbiamo ora porci un altro problema, e cioè quale sia, in generale, il modello più stringente per definire ciò che chiamiamo "comprendere le emozioni" (altrui).Molto spesso si dà credito ad una sorta di "risonanza" la quale giustifica e spiega come noi possiamo comprendere lo stato d'animo altrui. Ciò non è affatto necessario. Infatti, chiunque può ad esempio capire perfettamente le intenzioni e gli stati d'animo degli altri senza per questo provarli egli stesso in prima persona.E' possibile questa comprensione psicologica?Numerosi autori sostengono che verso i due o tre anni i bambini acquisirebbero la capacità di evocare situazioni di finzione, o immaginarie, e di indicarle come tali.Queste situazioni sono mantenute ben distinte dalla realtà. I bambini dimostrano di essere confusi solo se un adulto o un bambino più grande è persistente in una situazione di inganno o di gioco. Da questa età, i bambini iniziano a manifestare dimestichezza con stati di finzione o situazioni immaginarie come ad esempio, desideri, propositi, credenze, che vengono proiettati sulle bambole o altri giocattoli umanizzati.Tutto ciò porta alla lecita assunzione che è necessario prevedere una abilità specifica consistente nell'immaginare gli stati mentali dell'altro, e comunque nel fantasticare stati mentali (credenze, scopi, reazioni, emozioni, possibili comportamenti specifici) in relazione a specifiche condizioni congrue. Il bambino dimostra di essere in grado di fingere, nel gioco, i desideri dell'altro, che sono tutt'altro rispetto ai suoi. Egli anticipa e prevede, in buona misura, quali sentimenti l'altro da sè probabilmente esperisce. Le osservazioni dei bambini conducono inevitabilmente a notare che essi indicano con sufficiente precisione l'emozione più congrua con un setting specifico, a seconda che il soggetto-stimolo raggiunga o meno il suo desiderio o scopo.Attraverso questo processo si sviluppa nel bambino la capacità di simulare stati emotivi diversi da quello proprio esperito, o simili alle emozioni provate da altri. Questa capacità di attuare un comportamento simulativo non è un puro inganno deliberato, almeno all'inizio di questa abilità, ma sembra essere il luogo proprio dello sviluppo della capacità di comprendere gli stati emotivi altrui. Durante il gioco, ad esempio, appare evidente che i bambini fingono di credere ad una qualche realtà (essere qualcuno speciale, avere qualche oggetto particolare, essere in un mondo diverso, avere accanto qualcuno che non c'è, ....) che è palesemente accettata come falsa dal bambino stesso. Le ipotesi sarebbero allora due: o il bambino crede realmente ad un fatto in un momento che invece nega in un altro momento, oppure egli simula e recita un fatto che è plausibile ma falso. Quest'ultima soluzione sembra essere quella dimostrata, nella quale il bambino accetta "come se" un fatto e sospende in una certa misura le causazioni e le relazioni implicite con la realtà, da lui stesso accettata. La relazione con la situazione vera è in qualsiasi momento ripristinata (noia, altro interesse in competizione, presenza di un estraneo, perturbazioni varie, ...).Queste condizioni soddisfano ampiamente l'esigenza di concepire un individuo che comprenda le emozioni altrui pur senza viverle in prima persona.Tutt'altra situazione è quella definita come Empatia dove il soggetto vive realmente gli stati che l'altro vive; egli prova in prima persona emozioni congrue con la situazione che l'altro sta vivendo o sta per vivere.Le condizioni pensabili per il verificarsi dell'empatia sono quelle situazioni intense, scarsamente prevedibili, spontanee, dove l'individuo realmente è "spinto" a mettersi nei panni dell'altro.Per tutte queste ragioni, sia sperimentali che teoriche, è assai plausibile affermare che il bambino "intuisce" e deduce una struttura dell'apparato mentale negli altri individui. Egli, infatti, non associa meramente (come già osservato) delle espressioni facciali a certe situazioni prototipiche, ma attribuisce credenze e desideri in relazione ai quali collega le emozioni e i sentimenti più complessi in modo congruo in modo via via sempre più raffinato. Le loro proprie conoscenze emotive sono la base, in evoluzione, delle attribuzioni emotive che essi operano sugli altri. Dunque, i bambini, già dai cinque anni, iniziano a comprendere gli stati emotivi degli altri con competenza. Questo però non vuol dire automaticamente che i bambini intuiscono le "vere" emozioni che altri provano, semmai i bambini formulano delle ipotesi sugli stati emotivi e sui desideri degli altri in modo "formalmente" corretto.Già a quattro o cinque anni iniziano a comprendere le emozioni semplici in funzione degli stati mentali che le evocano. Essi, in sostanza, adottano una "prospettiva mentale". E' rilevante osservare che non vengono seguiti meccanismi di riconoscimento quali quello attraverso l'espressione altrui, o quello attraverso gli antecedenti situazionali appresi in modo meccanico, associativo.Utili per il nostro scopo, sono quelle emozioni complesse che implicano l'acquisizione di concetti di responsabilità personale e di "norme" sociali.Soffermiamoci sul concetto di emozione complessa. Le esperienze emotive, come abbiamo accennato, possono essere svariate, ma sono sempre attinenti a sei categorie emotive fondamentali, basiche (c'è un notevole accordo tra ricercatori su queste emozioni di base (Ekman, 1980; Frijda, 1990; Johnson-Laird e Oatley, 1990; Harris, 1991; D'Urso, Trentin, 1992;).Esse sono, appunto : Gioia, Paura, Tristezza, Rabbia, Disgusto, Sorpresa. Sulla base di queste fondamentali categorie dell'esperienza emotiva gli individui elaborano assunti e proposizioni sul mondo, sugli altri, e su di sè. E' così possibile concepire forme dell'esperienza emotiva più complesse rispetto a varianti di base come quelle attinenti alle categorie basiche. (Esiste in verità una variante, la teoria di Plutchick (1980), che postula le emozioni complesse come emozioni di base composte tra loro; tuttavia, non sempre comprensibile, a parere di chi scrive, non assumere uno scopo o un obiettivo definito, alla cui dinamica sia legata una specifica discreta emozione (Dell'Erba, 1992; 1993; 1994a)).Per proseguire il nostro intento, ci occupiamo delle emozioni complesse, normative e sociali: tali sono, ad esempio, orgoglio, colpa, e vergogna.L'acquisizione della capacità di comprendere le emozioni proprie avviene, dunque, su schemi predisposti. Invece, lo sviluppo della capacità di padroneggiare le emozioni complesse si articola in alcuni stadi critici. I bambini verso i sette - otto anni iniziano a riferire e commentare emozioni come orgoglio, colpa, e vergogna. Mentre prima essi facevano riferimento esclusivamente a modalità emotive basiche, a questa età si iniziano ad ampliare quegli schemi di comprensione, anche legati ad una migliore articolazione e definizione di certi antecedenti situazionali e della propria capacità di assumere una precisa prospettiva mentale attinente ai propri ed altrui stati , desideri, e credenze.Definiamo brevemente queste categorie emotive complesse individuate. Possiamo definire l'orgoglio come quello stato in cui il soggetto "crede" di essere responsabile in modo diretto o mediato di un qualche risultato positivo. La vergogna, invece, sembra essere attinente ad un risultato negativo rispetto ad uno standard sociale, ed in un certo qual modo connessa con uno scopo della autovalutazione, della autostima e dalla immagine sociale (Miceli, Castelfranchi, 1992; Castelfranchi, 1991; Dell'Erba, 1994b). La colpa, infine, implica il disatteso adeguamento ad una norma morale; una invalidazione dello scopo di equità sociale, anche implicante un bisogno di riparazione derivante dalla rappresentazione del danno commesso o della disparità risultante ad una azione del soggetto (Castelfranchi, D'Amico, Poggi, 1994).Vi sono, quindi, due aspetti centrali. Il primo implica che il soggetto deve sentirsi responsabile, dunque, il risultato non è casuale o confuso. Il secondo implica l'adesione a regole sociali e norme morali, dunque non deve essere soltanto piacevole o spiacevole.In numerose ricerche (Harris, 1991; Nutter-Wilkler, Sodian, 1988) si è dimostrato che i bambini acquisiscono in un secondo momento questa capacità, e che in un primo momento rimane essenziale lo schema di un raggiungimento o meno dello scopo.Sempre per rimanere nei due concetti dati, responsabilità personale e norme, vi sono due aspetti che emergono nello sviluppo della capacità di padroneggiamento delle tre emozioni. Un primo aspetto è la presenza o meno di un soggetto che sia osservatore o "giudice". L'altro aspetto riguarda la causalità o meno dell'evento o della azione effettuata.Per quanto riguarda la concettualizzazione delle norme, e la loro rilevanza nella comprensione delle emozioni, possono essere individuati due stadi principali nei quali si evolve e si connette il concetto di norma rispetto alla situazione emotiva. In un primo stadio, verso i quattro o cinque anni, il bambino comprende le emozioni unicamente in riferimento al raggiungimento di un desiderio; dunque, non può rappresentarsi l'emozione dell'orgoglio, così come l'abbiamo descritta. Egli può spesso sovrapporre i termini "orgoglioso" e "contento", aventi il comune significato attinente all'emozione di Gioia o Felicità. In un secondo periodo, verso gli otto anni, il bambino può riferirsi alla importanza dell'adeguarsi o meno a delle norme e regole nella situazione in riferimento ad emozioni come orgoglio, colpa, e vergogna. Cosa è avvenuto? Il bambino avrà acquisito la rappresentazione di regole e norme in quanto centrali per evocare e giustificare delle emozioni, che in tal caso sono le emozioni complesse che stiamo esaminando.Vi è ora un altro aspetto individuato: cioè, la presenza di un soggetto osservatore o giudice. Come già C.H. Cooley (1902) sosteneva, e come altri autori hanno ricordato (Harris, 1991; Dell'Erba, 1993; Miceli, Castelfranchi, 1992; Harrè, 1983), sembra essere fondamentale per il soggetto non solo la propria autovalutazione, ma anche la personale inferenza che qualcun altro avrà di lui; cioé, acquista rilevanza il modello della credenza altrui nella propria mente. E' ovvio, che questo modello della credenza altrui contiene anche l'emozione altrui.Un soggetto deve potersi rappresentare le circostanze nelle quali alcune emozioni insorgeranno in una certa persona. Dunque, il bambino può acquisire questa costruzione inferenziale. Il bambino può comprendere le emozioni di colpa, ad esempio, quando può aver chiare quelle situazioni nelle quali gli altri lo disprezzeranno cosa cha a lui dispiace. Queste emozioni costituiscono, in sostanza, delle anticipazioni di possibili reazioni emotive da parte di altri:<< Io ho fatto questo, Lui mi odierà (o mi sta odiando), Io mi sento triste = Mi sento in colpa >>.Come si può notare, vi sono entrambi gli aspetti citati: la responsabilità personale inequivoca, e l'altrui osservante.L'aspetto pubblico, sociale, di queste emozioni è acquisito per gradi. Dapprima, verso i cinque anni, il bambino è sensibile al raggiungimento dello scopo, e sperimenta emozioni basiche, semplici. In seguito, verso i sette anni, sarà sensibile alla presenza effettiva di qualcuno; infine, dopo gli otto anni il bambino riferisce emozioni di orgoglio, colpa o vergogna anche senza la presenza effettiva di altre persone che possano vederlo. Si sarà sviluppata nel bambino una chiara rappresentazione del riferimento ad uno standard (che può essere una norma o un legame affettivo). Tale prospettiva non esclude quella considerata da Mancini (Mancini, 94) che vede il senso di colpa lungo un continuum tra importanza della responsabilità personale di un danno avvenuto e presenza di un dislivello di fortuna tra se e il danneggiato; tale prospettiva sembra anzi seguire evolutivamente.In sintesi, sembra essere fondamentale che la comprensione delle emozioni complesse dipenda dalla capacità di riconoscere, anticipare, ed inferire stati emotivi altrui; e che, in questo contesto siano rilevanti sia la rappresentazione di un altro soggetto significativo sia l'adesione ad uno standard. Se un soggetto può anticipare la reazione emotiva di un altro, e ciò è rilevante, allora può esperire la colpa, l'orgoglio e la vergogna. Se il soggetto non riesce a provare le emozioni complesse, allora vorrà dire che non sono sufficientemente (o per nulla) rappresentate norme, regole, e relazioni importanti. In questo caso, il soggetto può esperire le emozioni (basiche) in relazione al raggiungimento o meno di un suo scopo.Siamo giunti al punto cardine di questo contributo sulle emozioni. Come si può sviluppare la considerazione e l'adeguamento alle regole e alle norme morali e sociali?Se un individuo persegue uno scopo attraverso una determinata condotta come può "distaccarsi" dal tentativo di centrare il proprio obiettivo a favore della valutazione "esterna", "neutrale", della propria condotta e dei suoi obiettivi? O, più semplicemente, se un bambino nel centrare un ambìto bersaglio provoca un danno, come può allontanarsi dalla gioia per esperire la colpa?E' in ballo qui la "capacità" individuale di stabilire delle covariazioni tra presenza dell'evento (il danno) e presenza e pregnanza delle rimostranze da parte dei genitori. Non si sta parlando della semplice associazione tra comportamento "sgradito" e punizione, ma della anticipazione dello stato emotivo del genitore in riferimento alla specifica azione. Sembra essere chiara a numerosi autori (Harris, 1991; Hoffman, 1970; Nutter-Winkler, Sodian, 1988) l'importanza delle rimostranze esplicite da parte dei genitori. Questi autori riferiscono che mentre i genitori che prediligono ragionare e spiegare (con chiarezza, senza ambiguità) inducono nel bambino maggiori stati di colpa, i genitori che preferiscono punizioni e coercizioni comportamentali inducino meno la colpa in modo altamente significativo. Questo elemento genitoriale nello sviluppo delle emozioni complesse sembra essere veicolato dall'aspetto, già citato, dell'importanza di un pubblico o di un osservatore o giudice (il genitore). Questa è la piattaforma sulla quale si sviluppa il sentimento internalizzato (autonomo) della colpa, dell'orgoglio, della vergogna. Infatti, dapprima è con il genitore (in genere) che il bambino sperimenta queste emozioni, ed in generale, in relazione all'adulto significativo egli costruisce la rilevanza delle regole e norme sociali; in seguito, l'individuo può fare a meno di qualcuno effettivo per sentirsi orgoglioso o vergognarsi, anche se è sempre sottinteso che qualcosa di riferimento sociale vi sia implicata.Si può in definitiva confermare la tesi di Kohlberg (1984) secondo cui in un primo momento il bambino, di quattro o cinque anni, è felice solo quando ottiene ciò che vuole; in un secondo momento, verso i sette e otto anni, il bambino ricerca l'approvazione, anche sacrificando cio che immediatamente vuole; infine, ricerca la soddisfazione per "cio che è giusto".In questo percorso evolutivo è fondamentale il contributo genitoriale. Infatti, dato che l'individuo può provare emozioni come la colpa o vergogna solo se comprende o anticipa mentalmente le emozioni di un altro (l'adulto, ad esempio), sarà centrale per questo sviluppo che l'altro soggetto, il genitore, l'adulto, dimostri chiaramente il disappunto o la propria gioia in relazione al fatto specifico. Ciò rende naturale questo sviluppo. Ma, cosa può rallentare questa acquisizione? E, in secondo luogo, cosa può rendere questa acquisizione instabile?Possiamo senz'altro partire dall'analisi, già accennata, della approvazione da parte dei genitori. Quando un bambino comprende che una data azione è in relazione ad una regola condivisa suscita approvazione o disapprovazione allora egli avrà rappresentate le basi delle relazioni sociali. Al contrario, se un bambino incorrerà continuamente nelle rimostranze dei genitori allora egli non avrà certamente rappresentato alcunché di sociale, in quanto non avrà compreso le regole secondo le quali egli può ottenere l'amore e l'approvazione dei genitori. Sembra evidente che il comportamento interattivo dei genitori sia determinante.Ad esempio, la vista della sofferenza di un altro bambino può suscitare la tendenza a confortarlo oppure può infastidire. Si è notato (Kagan, 1986) che i bambini maltrattati tendano ad essere infastiditi dal coetaneo che soffre, mentre la maggioranza degli altri bambini tende a confortare (Harris, 1992). Questo può aggiungere un elemento al nostro intento. Dunque, l'interazione dell'adulto tenderebbe ad interagire con uno sviluppo morale e sociale che è naturale per l'individuo deviando attraverso una incomprensione e sottovalutazione delle emozioni altrui. Questo sembra essere la giusta "entrata" alla spiegazione psicologica della mancata cooperazione, e dunque, della devianza concettualmente intesa (Dell'Erba, 1994b; Basso, Dell'Erba, 1993).Cosa rende insensibili? Probabilmente, alcune vicissitudini durante il rapporto con i genitori nelle esperienze di relazioni costruttive, quando il bambino deve costruire attraverso le rimostranze dei genitori, o la loro interazione, i sentimenti complessi e la considerazione degli stati altrui. Appare evidente come il naturale feedback derivante dalle percezioni delle emozioni altrui, in un primo momento, e la inferenza di esse in un secondo periodo, sia la base, probabilmente predisposta, per il comportamento sociale. Il blocco di questa prospettiva mentale nell'individuo, il suo "egocentrismo" cognitivo-emotivo, la propria diminuita sensibilità costituiscono i criteri per il mancato sviluppo della socialità e del sentimento più astratto di appartenenza sociale.

Deficit nella comprensione emotiva: alcuni esempi

Alcuni specifici quadri psicopatologici riflettono bene questa incapacità del soggetto a comprendere l'emozioni dell'altro o anche quelle proprie. Questi disturbi sono esemplificativi del fatto che la mancata acquisizione o il deficit specifico nella competenza emotiva mantiene il problema. Ciò non vuole assolutamente dire che è la mancata competenza emotiva a determinare il disturbo nel suo complesso ma soltanto che il deficit emotivo specifico ha un ruolo di rilievo nel mantenimento e, per usare un termine "forte", nella meccanica del problema.Alcuni disturbi che seguiranno, come esempi per il nostro discorso, sono disordini comportamentali che si riscontrano in età evolutiva, altri sono più specifici della età adulta. Gli esempi, ovviamente, non sono esaustivi di tutti i possibili casi, ma sono quadri di comoda pianificazione e concettualizzazione utile ai presenti scopi.Si noterà con evidenza che tali quadri problematici impediscono la integrazione sociale e il normale funzionamento interpersonale, tanto da costituire, in taluni casi uno stimolo secondario che determina problemi di franca devianza ed antisocialità.

Il Disturbo Antisociale di Personalità

In gran parte della letteratura vengono usati i termini "sociopatia", "psicopatia", "personalità antisociale" come sinonimi; spesso si confonde l'azione antinormativa con l'assetto di personalità antisociale. Qui useremo il termine originale di ciascun autore anche se il senso che viene attribuito da ciascuno di essi è l'attuale disturbo antisociale di personalità.Per venire nel merito, Cleckley (1976) distingue psicopatici primari da secondari. I soggetti psicopatici primari si distinguono per una assenza di ansia o senso di colpa per il loro comportamento illegale o immorale. Essi portano avanti azioni per il loro esclusivo interesse personale, mentendo deliberatamente, o offendendo fisicamente un'altra persona senza il minimo dubbio o nervosismo o rimorso; egli è privo di coscienza morale. Lo psicopatico secondario invece potrebbe attuare un comportamento utilitaristico eccessivo, ma avverte un sentimento di colpa dopo aver infierito su qualcuno; è da supporre, qui, l'ipotesi di uno scarso controllo degli impulsi e una labilità emotiva (vedremo più avanti).A questo proposito, Kagan (1986) conclude che i sociopatici mostrano un ritardo nello sviluppo della maturità morale e del funzionamento cognitivo. Kagan descrive lo sviluppo sociopatico morale e cognitivo come organizzato al secondo livello epistemologico di Kohlberg (1984) simile a quello di un bambino nell'età della latenza. A questo livello, il funzionamento cognitivo è governato dal concetto piagetiano delle operazioni concrete. Questi individui sono tipicamente incapaci di subordinare il reale al regime del possibile. La loro visione del mondo è personale piuttosto che interpersonale. In termini sociali e cognitivi, non possono tenere in considerazione il punto di vista di un altro allo stesso modo del proprio, pertanto non riescono a mettersi nei panni di un altro. Pensano in modo lineare, anticipando le reazioni altrui dopo aver soddisfatto i loro desideri, le loro azioni non sono basate su scelte in senso sociale, a causa di tali limiti cognitivi.In sintesi, si può desumere che la scarsa considerazione per i vincoli normativi sia da attribuire con buona probabilità alla difficoltà a comprendere le esigenze altrui, anche non giovando del naturale feedback constituito dalle emozioni espresse o immaginabili, nel caso di un ipotetico danno della vittima (o dell'offeso); inoltre, la scarsa capacità nel controllo comportamentale delinea un profilo di impulsività che costituisce il complemento all'egocentrismo emotivo-cognitivo del soggetto antisociale. E' opportuno ricordare che non tutti comportamenti antinormativi sono commessi da personalità antisociali e non tutte le personalità antisociali commettono reati franchi o atti antigiuridici; ciò che è fondamentale ricordare è la presenza di una tendenza e predisposizione personologica verso comportamenti che non tengono in debito conto di norme generali, di standard etici, della considerazione per la sofferenza altrui.

Disturbo borderline di personalità

Il disturbo borderline ha una antica tradizione clinica che risale a quasi un secolo. La prima caratteristica di questo disturbo come era classicamente considerato era una condizione sintomatologica a metà tra la psicosi e la nevrosi. In altre parole, vi era la presenza di un quadro mutevole con disturbi dell'umore, impulsività, disturbi autolesivi, sentimenti di rabbia, ideazione ed immagine di sé instabile, sentimenti intensi di vuoto e solitudine.Il soggetto borderline tende ad avere una personalità poco integrata, ha aspettative estreme riguardo alle relazioni interpersonali, e ha la caratteristica visione dicotomica riguardo a tutto ciò che lo riguarda (tende a considerare le cose in termini di "o tutto o niente").Vari autori hanno fatto l'ipotesi che questi soggetti borderline possano essere predisposti a disturbi dell'umore come depressione, disturbi bipolari, o altri comportamenti indiretamente correlati come ad esempio disturbi da sostanze stupefacenti, alcolismo. Daltra parte esistono ricerche che pongono la questione se i soggetti attualmente manifestanti un profilo di personalità borderline siano stati bambini con iperattività e/o con deficit attentivi. Tutte queste considerazioni parrebbero teoricamente porre l'ipotesi di un continuum tra iperattività infantile e disturbi dell'umore passando da stadi intermedi costituiti dalla personalità borderline: questo quadro è soltanto una ipotesi in via di sperimentazione. Alcune particolari assunzioni dei soggetti borderline possono essere riassunte nelle seguenti caratteristiche indicanti le categorie schematiche centrali nella storia di questi soggetti: abbandono/perdita, non amabilità, dipendenza, sottomissione, sfiducia, insufficiente autodisciplina, paura di perdere il controllo emotivo, colpa/punizione, deprivazione emotiva. Tali schemi sono determinanti nella costruzione della propria teoria personale sul mondo, sugli altri e su sé stessi (Beck, Freeman, 1993).Assunzioni come "io sono inaccettabile" oppure "il mondo è pericoloso e malvagio" possono sin da ragazzini orientare un determinato stile di comportamento interpersonale tale per cui il soggetto costruisce una rete insufficiente di relazioni accettanti e di sostegno così che egli si trovi francamente isolato in una spirale di causa ed effetti. Anche i criteri sulla fiducia e la accettazione degli altri sono disfunzionali in modo tale che per situazioni superficiali e periferiche una determinata persona che prima era considerata importante può vedersi rifiutata ed allontanata in quanto ha gravemente deluso "le sue aspettative", che sono spesso molto alte (anche se mutevoli).In sostanza, le caratteristiche che possono condiderarsi basilari per queste personalità sono il pensiero dicotomico, le assunzioni negative, l’instabilità, e un debole senso di identità.Si é fatta spesso una ipotesi che per ora ha trovato delle conferme, anche se insufficienti: il soggetto borderline ha in certi casi subito maltrattamenti da parte dei genitori o altre persone significative, e quindi avrebbe sviluppato una costruzione del mondo e di sè anche a partire da quelle situazioni, o che in qualche modo tali situazioni siano state interpretate internamente in un modo caratteristico. Il soggetto maltrattato, ad esempio, avrebbe esperito disapprovazione in misura indifferenziata, non ben discriminabile in relazione a specifici eventi; egli diventa probabilmente esperto nell'anticipare emozioni di rabbia e di paura. Il contesto di pericolo svilupperà nel bambino la leggittima presupposizione che o i bambini sono "cattivi" e gli adulti "violenti" oppure che egli è "cattivo" e che gli altri bambini "sembrano felici" e il mondo è "incomprensibile".Questi esempi indicano come il soggetto in questione possa non sviluppare in modo regolare e prevedibile le norme sociali e morali nelle quali è inserita l'approvazione genitoriale (prima), sociale (poi), e individuale (infine).

Disturbo schizoide di personalità

 Vi sono generalmente due caratteristiche fondamentali nel disturbo schizoide: la mancanza di relazioni interpersonalie l'assenza di desiderio ad intraprendere queste relazioni. Vari autori suggeriscono che essi non siano capaci di riconoscere le profonde emozioni in sè stessi e negli altri. Di conseguenza, spesso appaiono e si sentono indifferenti (anaffettivi). Essi, molto spesso intraprendono uno stile di vita che gli consente di stare a sufficente distanza dagli altri così che sono speso isolati e soli senza per questo soffrirne particolarmente. Questi soggetti, quindi, hanno poche relazioni amica ed interpersonali, ed evitano tutte le situazioni di intensa partecipazione alla vita pubblica.Storicamente, si definiva il disturbo di personalità schizoide come una forma non sintomatica della schizofrenia; ciò oggi non è dimostrato e non sembra particolarmente incisivo statisticamente. Nonostante questa non correlazione, vi sono alcuni elementi che però sono indubbiamente comuni come ad esempio l'anedonia, l'anaffettività, la inadeguatezza interpersonale, la scarsa abilità nella comunicazione espressiva e ricettiva.Queste personalità internamente possiedono assunzioni più rivolte su sè stessi che sugli altri: "preferisco farlo da solo", "preferisco stare solo", "non mi sento motivato", "che importa". Importanti ricerche (Millon, 1981; Chick, Waterhouse, Wolff, 1980) indicano alcune cause possibili a livello costituzionale leggibili in deficit presenti fin dall'infanzia di questi soggetti; emozionalità ristretta, scarsa empatia, isolamento, stile deficitario nella comunicazione, sostanziale ignoranza sugli stati emotivi altrui.Per essi tutto è insignificante e privo di interesse, e sebenne non desiderano un contatto con gli altri possono tuttavia sforzarsi di ottenere uno stile di vita più convenzionale, ma delle volte ciò non accade. Solitamente, nelle situazioni sociali possono aversi dei disturbi d'ansia intensa, sentirsi controllati, sentirsi "come robot", "come vivere in un sogno", e avere delle percezioni distorte sugli altri, ad esempio sui feedback comunicativi e sugli scambi con gli altri.Questi sogetti hanno bisogno di apprendere le fondamentali abilità sociali di base (chiedere, comunicare, scusarsi, controllare l'ansia, fare un complimento, essere diplomatici, adattarsi alla situazione, ...), e apprendere gradualmente la varietà d'intensità delle emozioni di base, ed in seguito le implicazioni dei pensieri e delle valutazioni personali nella identificazione delle emozioni complesse.

Disturbo da deficit di attenzione con iperattività (DDAI)

Il DDAI è composto di sintomi in tre aree: distraibilità, impulsività, e iperattività. Ha una incidenza di circa il 3% nei bambini in età prepuberale delle scuole elementari. E' lievemente maggiore nei maschi che nelle femmine; nei maschi ha una caratteristica più comportamentale, nelle femmine più una instabilità dell'umore.Alcuni ricercatori evidenziano delle lievi anomalie nel flusso ematico cerebrale frontale, altri sottolineano un difettoso metabolismo nelle aree premotorie e somatosensorie della corteccia cerebrale, altri ancora indicano qualche elemento a favore di una disfunzione noradrenergica cerebrale; queste iotesi neurochimiche non hanno dato ancora una risposta univoca e definitiva. Tra le caratteristiche di questi bambini vi è la irritabilità spesso esplosiva, la iperattività motoria, tanto che sono conosciuti dagli insegnati per essere bambini che non stanno mai fermi, che si muovono sempre, che sono distratti, "scattano" contro i compagni, e seguono solo per poco le lezioni. Sono caratteristiche la incapacità a dilazionare le gratificazioni, sono facili al riso e al pianto, da piccoli sono spesso inconsolabili, tanto che le loro madri sono rimaste colpite da pianto continuo ed instancabile.Le reazioni sfavorevoli del personale scolastico al comportamento caratteristico del DDAI e l'abbassamento di considerazione per sè stessi, causata dal sentimento di inadeguatezza, possono combinarsi con i commenti sfavorevoli dei coetanei nel rendere la scuole un posto di infelice fallimento. Ciò, ovviamente può innescare comportamenti protestatari, autopunitivi, o francamente antisociali.Questi bambini hanno dimostrato di non possedere che scarse capacità di riconoscere adeguatamente le emozioni altrui, di identificare le sfumature di varie situazioni così da sperimentare reazioni emotive estreme, e soprattutto di non essere affatto coscienti o abili ad identificare i propri pensieri. Tale deficit di introspezione, scarsa capacità a cogliere i pensieri automatici, e i ragionamenti interni determina la caratteristica principale che è il comportamento "in presa diretta" cioè senza quasi passare dalla coscienza e dalla riflessione.E' difficile cogliere le considerazioni e le assunzioni che questi soggetti fanno su sè stessi o sugli altri ma sembra che gran parte degli schemi posseduti da questi bambini si articoli sul bisogno di essere accettati, di stare dietro alle prestazioni degli altri, di evitare gli ostacoli o le frustrazioni rispetto a desideri nelle specifiche situazioni.Tradizionalmente, questi soggeti giovano di un addestramento mirato alle abilità sociali, al problem solving, all'autocontrollo, all'aumento dell'autostima, all'insegnamento dell'emozioni, e all'addestramento all'auto-osservazione del proprio "dialogo interno".Questi sogetti sembrano non essere attenti alle segnalazioni degli altri in momenti importanti della comunicazioni, tipo la espressione delle emozioni o la comunicazione delle proprie considerazioni; il soggetto DDAI spesso è troppo occupato in qualche attività personale o distratto per poter cogliere nel pieno la prospettiva altrui.

Considerazioni

Che ruolo hanno le emozioni nella regolazione del comportamento sociale? Come abbiamo ben compreso le segnalazioni del nostro ambiente, sia nel periodo di sviluppo che nella vita adulta ci informano delle regole sia esplicite sia di quelle tacite ed implicite che costituiscono le norme interpersonali. Tali norme non sono tanto un codice scritto, morale, accessibile dall'interessato, ma consistono nella rete di significati che gli individui si comunicano, cioè degli scopi comuni di cooperazione, adozioni, collaborazione e competizione che regolano il comportamento di un dato gruppo di individui. Le misure che solitamente assicurano il controllo della vita di gruppo in un contesto naturale sono appunto le emozioni e le abilità di regolarci e sintonizzarci sulle aspettative e sugli scopi degli altri, oltre che propri.Immaginando la presenza di un deficit proprio ad un livello di "lettura" di tali segnalazioni viene facile considerare che la mancanza di considerazione per gli altri, la noncuranza del danno altrui, la inattenzione per la possibile sofferenza delle altre persone può essere determinata dalla incapacità a rappresentarsi tale informazione o quantomeno a tenere in debito conto tale dato. Ciò se da un lato ha il vantaggio teorico di concettualizzare un devianza normativa dal gruppo senza intenzione "malvagia" (che non è sempre scontata) dall'altra ha la comodità pratica di individuare problematiche che sono sostanzialmente educabili con training controllabili e disponibili (dato che attribuisce all'intervento un atteggiamento pedagogico e non punitivo-repressivo).

Note applicative

Qualsiasi programma di educazione affettiva parte dal presupposto che è possibile insegnare al soggetto, ad esempio un bambino, come affrontare costruttivamente le difficoltà che può incontrare nella vita di ogni giorno. L'educazione affettiva ha quindi carattere essenzialmente preventivo, dove lo scopo generale è quello di ridurre il più possibile gli stati emotivi eccessivamente intensi e di facilitare le emozioni piacevoli, e inoltre ha un carattere "terapeutico" (anche se il termine terapia è inadeguato in questo ambito), dove lo scopo è quello di riabilitare il soggetto nella attivazione di emozioni adattate alle situazioni e di ridurre gli stati emotivi disfunzionali derivanti da valutazioni irrealistiche della realtà.Si tratta sostanzialmente di un processo di apprendimento che porta all'autoregolazione delle proprie emozioni. Il soggetto imparerà a non essere dominato dalla propria emotività ma anzi a guidarla, così da poter massimizzare il proprio benessere psichico anche nelle circostanze meno favorevoli. Intelletto ed emozioni, dunque, non sono aspetti separati del funzionamento mentale ma sono integrati: il pensiero influenza le emozioni, che a loro volta possono essere valutate in vari modi.L'assunto di base è che le nostre emozioni derivano non tanto da ciò che ci accade, ma dal modo in cui interpretiamo e valutiamo ciò che ci accade. Schematizzando, si può dire che possiamo considerare un qualsiasi evento e considerarlo a parte rispetto ai pensieri che su questo evento ci formuliamo, con una emozione derivante; questi tre gruppi di aspetti, evento, pensiero, emozione, sono ciò che gli psicologi solitamente chiamano lo schema A/B/C (Antecedent/ Belief/ Consequent). Se il soggetto ha distorsioni della realtà , valutazioni esagerate, idee assolutistiche, ne deriverà una reazione emotiva disturbata.E' proprio su questi aspetti che viene solitamente impostato un atteggiamento rieducativo nei soggetti con problemi emotivi e comportamentali (come abbiamo descritto più sopra). Nel caso di un intervento sulle valutazioni irrazionali vengono solitamente tenuti presenti tre passi principali: a) consapevolezza delle proprie reazioni emotive e relative espressioni verbali; b) consapevolezza della relazione esistente tra pensieri e stati d'animo e superamento dei modi di pensare irrazionali; c) apprendimento di un repertorio di convinzioni razionali adeguate alle varie situazioni. Per sintetizzare possiamo elencare i seguenti elementi indicativi di un disturbo nelle funzioni emotive: incapacità di capire gli stati degli altri, difficoltà a regolare i propri stati emotivi, interferenza e sregolazione rispetto alle richieste socio-ambientali.Di conseguenza, le contromisure della rieducazione e della psicoterapia possono essere indicate come segue: imparare a riconoscere i segnali di ciascuna emozione; imparare a tenere conto delle proprie abitudini di pensiero (atteggiamenti) e renderle conscie; modificare le credenze, lo stile di ragionamento, e correggere gli errori e le distorsioni; correggere gli errori nel controllo emotivo (i paradossi intenzionali).

Conclusioni

Ad un livello principalmente preventivo, è utile concludere che la capacità di tenere conto di come gli individui percepiscono gli altri è la più basilare tra tutte le abilità di comprensione interpersonale. Può darsi che alcuni bambini o adolescenti presentino problemi di insensibilità o ignoranza rispetto alle esperienze percettive altrui, e anche a esperienze correlate a stati emozionali particolari; può esserci chi parla a voce troppo alta, essere troppo rumoroso, ed essere non curante delle risposte emozionali che provoca. Può aversi anche che il soggetto sia fisicamente rude, non rendendosi conto che il grado di tolleranza per il contatto fisico di altri può essere diverso dal proprio; ciò può determinare reazioni di rifiuto a catena, e successive emozioni di tristezza e rabbia. Tutte queste situazioni costituiscono insieme ad infinite altre analoghe, il terreno su cui costruire un "programma" di educazione cognitivo-emotiva che possa prevenire, facilitare, o riabilitare difficoltà nell'adottare una prospettiva sociale e relazionale a partire dai semplici sistemi di segnalazione interpersonale che sono le emozioni complesse.

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I Fattori di Base del Lessico Emotivo

 

Gian Luigi Dell'Erba


Riassunto

Attraverso una disamina delle più note teorie sulle emozioni si discute della rilevanza di alcuni aspetti teorici e metodologici alla luce di alcune recenti ricerche. In particolare, si focalizza l'attenzione sui diversi livelli di spiegazione nel problema emozione - lessico. Inoltre, si presenta una ricerca sui raggruppamenti nel lessico emotivo i cui risultati indicano una sovrapposizione tra emozioni di base e componenti fattoriali nei termini indicanti emozioni. Tali risultati vengono collegati alla generale concezione della esistenza di un livello emotivo di base espresso anche nel lessico.

Summary

By a review of the principal theories of emotions, is discussed the importance of some theoretical and methodological aspects under the light of some recent researches. Particularly, this work focus on the level of explanation on Emotion - Lexicon problem. Moreover, the Author deal with a research on the clusters of emotional lexicon which indicates a covariation between basic emotions and clusters of lexical terms on emotions. These issues are connected to the general view of basic emotions.

Parole-Chiave

Emozioni - Linguaggio - Fattori

Key-Words

Emotions - Language - Clusters

Introduzione

Le emozioni possono essere definite come esperienze soggettive di elevata intensità accompagnate da modificazioni nella fisiologia, nel comportamento e nella espressione dell'organismo. L'interesse nello studio delle emozioni è antico quanto l'uomo. Ne parlano i primi pensatori in varie forme (solo in apparenza molto lontane); se ne trova traccia importante nelle opere di Aristotele, in particolare nella Retorica (2). Tuttavia, da Descartes in poi le emozioni (le passioni) sono state identificate con maggiore chiarezza. Molti teorici e filosofi hanno descritto un insieme finito di stati emotivi. Descartes, ad esempio, parla di sei passioni principali primitive dalla cui combinazione si generano stati d'animo complessi; queste emozioni fondamentali, primitive, erano: l'odio, l'amore, la meraviglia, il desiderio, la gioia, la tristezza. E' sorprendente che nel corso delle elaborazioni teoriche e filosofiche il quadro fondamentale delle emozioni sia rimasto costante. Darwin, nel 1872, nel lavoro "L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali", descrive in modo puntuale le espressioni tipiche delle emozioni "di base", primitive. Egli le defin" come repertorio innato ed universale (6). Questa posizione è stata poi confermata da numerosi autori. Lo studio più celebre è quello di Ekman e Friesen che oltre a confermare le posizioni darwiniane, riscontrarono la tipicità delle espressioni come veicoli non verbali universali(9) (10)(11)(13).

Principali teorie e ricerche

Come già osservato, la grande varietà di letture che sono state date alle manifestazioni emotive ha prodotto un cospicuo numero di teorie. Accenneremo quelle fondamentali (16) .La prima, in ordine di tempo tra quelle moderne, è quella di James-Lange. Secondo questa teoria l'emozione è determinata dall'effetto sulla coscienza delle reazioni organismiche scatenate da uno stimolo: lo stimolo viene colto dai sistemi inferiori, si dispiega la reazione caratteristica dell'organismo, e quindi viene "notata" dai sistemi superiori corticali coincidenti con la coscienza(19).Un'altra teoria è quella di Watson. Egli inquadrava le emozioni come reazioni periferiche in risposta a stimoli ambientali, senza il bisogno di citare la coscienza del soggetto in questa reazione.Una teoria del tutto diversa è quella di Cannon-Bard. Questa teoria, cortico-diencefalica, vede nel processo di valutazione (superiore) un ruolo primario che innesca attraverso l'azione (inferiore) dell'ipotalamo gli schemi predisposti delle reazioni organismiche neuro-vegetativo-comportamentali, e quindi rimanda alla corteccia il segnale per l'attribuzione del significato emotivo.Accanto a queste teorie "storiche", citiamo alcune più recenti.La teoria di Schachter e Singer vede nel processo di valutazione cognitivo un ruolo centrale fondamentale. Gli autori evidenziano che il soggetto attribuisce ad uno stimolo un valore di attivazione (arousal) e successivamente assegna alla situazione un significato emotivo invece che un altro (oppure nessuno). In sostanza, l'attivazione non è sufficiente per avere una emozione, è il processo di attribuzione del significato che la definisce.Una teoria molto moderna è quella di Johnson-Laird e Oatley . Essi definiscono le emozioni come un sistema di segnalazione a più livelli. Uno arcaico, immediato, primitivo, più rozzo, ma molto diffuso; l'altro livello, più complesso, "proposizionale", valutativo e autocosciente (in riferimento ad attribuzioni di significato su di sé, sul mondo, sugli altri). I due livelli hanno una giustificazione diversa: il primo, quello "di base", è essenzialmente predisposto ad una rapida risposta coerente con l'adattamento organismico all'ambiente, l'altro livello costituisce una caratteristica evoluta che coincide con le valutazioni e le comunicazioni sociali tipiche del pensiero proposizionale ed autocosciente (21)(22).In particolare, quest'ultimo aspetto (il linguaggio e le emozioni) è stato in gran parte trattato, nella psicolinguistica, come studio dei fattori emotivi interferenti o interagenti con le performances linguistiche. Di recente, come vedremo più avanti, sono stati presi in considerazione aspetti riguardanti il lessico, vale a dire l'insieme delle parole di una lingua, nelle interazioni con le emozioni(5)(7).Questo contributo vuole studiare la capacità intrinseca del lessico nel mettere in risalto i fattori emotivi di base; l'assunto è che, supposta l'esistenza di emozioni di base, primitive, ben definite, la organizzazione interna del lessico rispetti e rifletta la struttura emotiva.Dalla varietà di ricerche indaganti le dimensioni semantiche all'interno della organizzazione cognitiva e l'esplorazione dei linguaggi naturali si evidenzia un dato interessante (35).La organizzazione semantica delle emozioni, perlomeno sul piano linguistico-lessicale, sarebbe strutturato in tre livelli gerarchici, corrispondenti ad un livello astratto, uno intermedio, e un livello sottordinato (28)(29). Il livello astratto indicherebbe delle categorie sovraordinate del tipo "positivo" o "negativo", "attivo" o "passivo"; il livello intermedio corrisponderebbe ad una tassonomia categoriale delle emozioni più specificate, che sarebbe comune alle varie teorie e ricerche sulla tipologia delle emozioni, e descriverebbero le dimensioni "fondamentali", "primitive", "basiche", "prototipiche"; il livello sottordinato costituirebbe la specificazione più situazionale della particolare dimensione emotiva, e sarebbe indicativa delle emozioni "complesse", "argomentative", "proposizionali", dei sentimenti (7) (14) (20) (21) (22) (29) (30)(32). Una pregevole rassegna di alcune ricerche su questo argomento è stata raccolta da D'Urso e Trentin (8).Un problema cruciale è quello di studiare le emozioni a partire dal linguaggio quotidiano. Molti autori sostengono, a questo proposito, che la grande varietà di vocaboli e termini attinenti alla vita emotiva implichi un ostacolo alla identificazione rigorosa di un lessico emotivo. I linguaggi naturali, d'altra parte, costituiscono probabilmente una fonte più attendibile allo studio delle emozioni discostandosi da setting di ricerca artificiali dove i risultati potrebbero essere falsati, o le stesse condizioni e metodologie sperimentali potrebbero "filtrare" alcune emozioni ed elicitare o potenziare altre.Se da un lato vi è sostanziale accordo sulle principali emozioni, o almeno sul significato attribuito a emozioni quali Paura, Rabbia, Felicità, dall'altro lato vi sono difficoltà teoriche (ancorché metodologiche) ad isolare termini quali "ostile", "insicuro", "speranzoso", "irritato", ecc..., in quanto sono ritenuti vocaboli più "complessi" rispetto a termini quali quelli citati come emozioni "principali".Una argomentazione che vede il linguaggio naturale come mezzo non adatto a cogliere la struttura delle emozioni è quella di valutare vocaboli come insicuro, ostile, ... come emozionalmente complessi, distinti rispetto a Paura, o Rabbia. Alcuni autori (Plutchick, Johnson-Laird e Oatley) considerano alcuni termini come attinenti a categorie multiple (cioè rappresentativi di più emozioni di base insieme), altri autori (ad esempio Ortony) vedono in tali termini "naturali" una componente discorsiva, argomentativa, più complessa della semplice componente emozionale.Il punto è, a mio avviso, lo studio dei livelli di funzionamento della mente.Vi è, in sostanza, un disaccordo tra adeguatezza o non adeguatezza del linguaggio naturale come strumento di rappresentazione emozionale. Autori come Ekman, pur ammettendo teoricamente la possibilità di rilevare le categorie emotive nel linguaggio, opta in favore di distinzioni tra vari stati affettivi ed emotivi preferendo cos" misurazioni più oggettive (il F.A.C.S. di Ekman e Friesen)(10) Nonostante i problemi teorici evidenziati, vi sono numerose ricerche tendenti a studiare la capacità emotiva del linguaggio, e a compiere delle analisi dei termini e delle etichette linguistiche attinenti alle emozioni (o a situazioni verosimilmente emotigene).Il tentativo di Davitz (1970), ad esempio, evidenzia, a partire da una analisi di 400 termini affettivi, che la struttura emotiva del linguaggio è organizzata in 4 fattori: 1) attivazione; 2) relazione con l'ambiente; 3) piacevolezza/spiacevolezza; 4) senso di adeguatezza verso l'ambiente. Il numero dei vocaboli selezionati a partire dalla rima lista dei 400 è stato di 50 parole definite come adeguate a descrivere le emozioni (sulle quali è stata compiuta l'analisi finale).Nowlis e Nowlis hanno invece trovato 4 dimensioni principali a partire da una analisi attuata in diverse situazioni emotive: 1) livello di attivazione; 2)livello di controllo; 3)orientamento sociale; 4) piacevolezza/spiacevolezza. Successivamente (1987), gli autori hanno rilevato 8 fattori principali: 1) concentrazione; 2) aggressività; 3) piacevolezza; 4) attivazione; 5) egocentrismo; 6) affetti sociali; 7) depressione; 8) ansia.Watson e Tellengen (1985) hanno studiato le numerose ricerche rilevando che l'elemento comune ed indipendente delle condizioni sperimentali era il fattore "positivo-negativo". C'è, a parere degli autori, emerge anche nell'analisi multivariata dei vocaboli.Russel (1980), evidenzia, nel suo modello circomplesso, che i vari termini emozionali si situano in un piano cartesiano avente per assi la "piacevolezza" e la "attivazione".Ortony e collaboratori (1987) affermano che un termine emotivo deve riferirsi a condizioni mentali interne piuttosto che esterne, ed avere come riferimento affetti piuttosto che comportamenti o cognizioni. Questi autori evidenziano 3 fattori generali di reazioni emotive: 1) agli eventi; 2) agli agenti; 3) agli oggetti.Johnson-Laird e Oatley (1990) evidenziano delle emozioni basiche (paura, felicità, tristezza, rabbia, disgusto) sostenendo che tali emozioni costituiscono categorie di base per la categorizzazione lessicale delle emozioni. Tuttavia, vi sono termini complessi che pur potendo indicare una categoria devono essere ricondotti ad una analisi delle valutazioni di sé nel contesto.Come appare evidente, i fattori e le categorie evidenziate dagli autori (eccetto, evidentemente, Johnson-Laird e Oatley) costituiscono dei livelli di funzionamento mentale non emotivo ("processi freddi"); essi sono, in sostanza, dei fattori di lettura, valutazione, ed orientamento che hanno una giustificazione e un ruolo assai diverso da quello delle emozioni. Questi fattori, rilevati con le analisi fattoriali, hanno messo in luce, piuttosto, un livello di funzionamento "freddo" nella interazione tra organismo e ambiente, livello che può essere considerato precedente sia in senso logico, sia in senso adattivo-evolutivo.Un altro dato rilevante è quello della metodologia usata. Alcuni autori, infatti, hanno utilizzato l'analisi dei resoconti e il successivo ragruppamento categoriale, altri hanno utilizzato l'analisi dei cluster dei termini proposti come indicativi di stati emotivi, altri ancora hanno elaborato i giudizi di somiglianza e distanza tra termini o situazioni selezionate dagli autori stessi o proposte dai soggetti sperimentali.Alcuni punti generali vanno discussi. Un primo punto riguarda la scelta dei termini impiegati nella elaborazione fattoriale. Molto spesso i ricercatori utilizzano liste già disponibili di termini ( ad esempio presenti nei vari tests sulle emozioni) oppure elaborano termini riferiti dai soggetti sperimentali della ricerca(12)(14)(35). Ciò pone un problema di campionamento; inoltre i risultati spesso riproducono le aspettative di partenza in quanto i termini immessi, molto probabilmente, si organizzano dimensionalmente con maggiore facilità rispetto alla immissione di termini esterna rispetto alle ipotesi del ricercatore.Un altro aspetto interessante è quello riguardante la capacità del "senso comune" e del "linguaggio quotidiano" di discriminare finemente i fattori emotivi(33)(34).Infatti, data una configurazione neurobiologica determinata, e dati certi schemi predisposti all'azione, una lingua si sviluppa sulla base delle interazioni comunicative e miranti alla condivisione dei significati; il senso comune sarebbe la veste semantica interattiva più "naturale", nel senso che riflette i processi di adattamento della specie in modo più trasparente(15)(17)(28)(34)(37).

Obiettivi della ricerca

Gli obbiettivi della ricerca possono essere riassunti nei seguenti punti: studiare la struttura semantica attinente alle emozioni; determinare gli eventuali fattori esistenti; correlare la struttura semantica emotiva del lessico alle altre espressioni e comunicazioni delle emozioni.

Metodologia

La ricerca è stata effetuata attraverso un metodo consistente nel raggruppamento di termini emozionali in fattori. I termini emozionali sono stati ricavati da un normale comune dizionario nel quale sono presenti sinonimi del termine prescelto. La selezione dei vocaboli è stata identificata attraverso la scelta di termini riguardanti "stati d'animo", "emozioni", "sentimenti", "reazioni emotive", "pulsioni", ed altri vocaboli specificanti delle categorie attinenti a emozioni e manifestazioni emozionali. Si è, in pratica, costruito un elenco di termini attinenti a manifestazioni emozionali, il quale poi è stato elaborato attraverso un programma implementato al calcolatore. Tale programma aveva lo scopo di trarre dei raggruppamenti sulla base delle relazioni semantiche tra i sinonimi. Dato un termine, il programma cercava nelle definizioni immesse vocaboli-sinonimi determinando cos" dei raggruppamenti-fattori. In questo modo, da un insieme di vocaboli è possibile avere un numero di dimensioni di grandezza variabile, e di "purezza" variabile. La grandezza (dimensione) è data dal numero di vocaboli presenti nel fattore, la "purezza" (saturazione) è data dal numero di vocaboli comuni a più fattori (intersezioni). Quante più intersezioni vi sono in un fattore, tanto più esso è meno saturo, quindi meno interessante in termini di ricerca di dimensioni primitive fondamentali. Un vocabolo comune ad almeno due fattori è un vocabolo emozionalmente "ambiguo" (in quanto non indicante una specifica appartenenza categoriale) oppure è un vocabolo emozionalmente "complesso" (in quanto indicante un termine proposizionale esprimente un elemento linguistico con riferimento a costrutti complessi su di sé, sul mondo, sugli altri). Questo punto richiama le teorie che distinguono le emozioni di base da emozioni complesse o proposizionali in quanto esprimenti il contributo del ragionamento e di valutazioni "alte"(7)(14)(22).Tuttavia, un grande numero di fattori emozionali espressi nel lessico determinerebbe una certa indistinzione, una scarsa significatività delle dimensioni "primitive" cos" come riscontrate in altri ambiti dai diversi autori; al contrario, un numero esiguo di fattori costituirebbe un dato a riprova della capacità del linguaggio di rappresentarsi dimensioni "primitive", salvo riscontrare fattori non "centrati" semanticamente con l'obbiettivo della ricerca.Una ultima nota riguardo al metodo è quella relativa alla tecnica di analisi dei dati (vocaboli). L'analisi per raggruppamento di dati, nota come cluster analysis, solitamente utilizzata con dati numerici (o comunque con variabili aventi in qualche modo una componente numerica) è stata tuttavia anche impiegata come modalità "categoriale" di leggere insiemi complessi di dati di varia natura (anche nel linguaggio). L'idea alla base è quella della valutazione della presenza-assenza del legame tra coppie di variabili. Il numero dei raggruppamenti non può essere predeterminato, e quindi il metodo cerca di studiare la organizzazione, per cos" dire, naturale delle variabili in fattori(3)(4).Per concludere questa parte sul metodo, si fa presente che la prima elaborazione ha dato un certo numero di vocaboli che erano copresenti in più di due fattori (vocaboli complessi). La seconda elaborazione è consistita nella eliminazione di tali vocaboli, e di mantenere le intersezioni a due fattori simultaneamente (1 vocabolo associato a massimo due fattori). E' cos" diminuito il numero dei vocaboli presenti, ma è aumentato il livello di saturazione o purezza di ogni fattore. Nel passaggio dalla prima alla seconda elaborazione la struttura dei fattori, nel numero di esse e nella grandezza, non è cambiata.

Risultati

L'elaborazione fattoriale dei vocaboli indicanti gli stati emotivi ha evidenziato un numero ridotto di dimensioni attinenti ad emozioni, ed ha inoltre messo in risalto alcuni elementi di un certo interesse teorico. I fattori emersi sono distinti fra loro per grandezza e saturazione. Questi due elementi sono rilevanti in quanto permettono di distinguere dimensioni "centrate" con gli obbiettivi della ricerca, e altre dimensioni emerse per effetto del campionamento (come discuteremo più avanti).I fattori principali, cioè con una saturazione sufficientemente elevata, sono risultati essere 6, con una percentuale di purezza superiore all'87%, ed inoltre un fattore con saturazione inferiore (57.1%). Si è, infine, raggruppato in una ulteriore dimensione una serie di vocaboli, non centrati, con scarsa saturazione, esprimenti una percentuale molto bassa nell'insieme.I 6 fattori principali risultano essere pressoché coincidenti con le caratteristiche emozioni "di base" identificate da vari autori: gioia, tristezza, paura, rabbia, disgusto, sorpresa.Il fattore aggiunto risulta essere una rappresentazione di termini esprimenti constatazione di sensazioni fisiche. Quest'ultimo raggruppamento pur non esprimendo alcuna rappresentazione emotiva, va comunque evidenziato in quanto è rappresentato a livello lessicale con una certa saturazione significativa, ed inoltre è evidenziato a partire da vocaboli indicanti contenuti attinenti a stati emotivi "da dizionario". Il restante raggruppamento ci sembra un "difetto di taratura" del metodo, o del campione o della fonte. Va comunque precisato che la scarsa rilevanza in termini numerici non modifica alcunché nel risultato emerso, restando comunque interessante dal punto di vista metodologico l'approfondimento di tale questione. I risultati dei fattori sono rappresentati nelle Figure, indicanti le dimensioni e la saturazione dei raggruppamenti. (FIG.1, TAB1).La denominazione dei fattori è stata operata dallo scrivente, in quanto l'analisi dei raggruppamenti ha soltanto evidenziato i clusters assegnando a ciascuno di essi dei numeri. Data l'entità numerica dei vocaboli, diamo solo degli esempi dei termini appartenenti a ciascun raggruppamento. (FIG.1, TAB2).Qualche osservazione va fatta sulla base dei dati. (TAB.1)I fattori che coprono gran parte del campione di vocaboli utilizzati (N=518) sono rappresentati nelle 6 dimensioni principali. L'altro fattore è marcatamente distinto sia come numero sia come purezza. Tuttavia, è interessante notare che esso sia emerso nell'intento di focalizzare raggruppamenti emotivi.Pur riservandoci più avanti una discussione di questo punto, si può sottolineare che, nonstante la precisione del lessico a rappresentarsi le emozioni di base, il lessico proveniente da fonte mediamente "neutrale" come un dizionario sia impreciso nel accorpare tra le emozioni i termini riferentisi a sensazioni corporee e fisiche. Questo paradosso è del tutto apparente ove si consideri che la definizione "mediamente neutrale" dei vocaboli riflette la disposizione comune, dei soggetti parlanti questa stessa lingua, a rappresentarsi non solo la vita emotiva in senso stretto ma anche le sensazioni ad essa appartenenti ed in qualche modo ad essa collegate.In sostanza, questo fattore, pur non essendo una emozione di base è una dimensione rappresentazionale attinente alla vita emotiva. Dunque, il metodo adottato ha messo in luce da una analisi "generica" dei vocaboli, "da dizionario", una disposizione del linguaggio a rappresentarsi gli schemi emotivi basici, già studiati ampiamente, caratteristici di altre modalità espressive e comunicazionali (comunicazione non verbale, espressione dei volti)(9)(23)(26).

 
  gioia tristezza paura rabbia disgusto sorpresa sens. fisiche altro
dimensione % 15,6 19,7 19,7 14,5 12,3 13,5 4 1,5
saturazione % 95,06 93,81 93,81 96 89,06 87,14 57,1 25
N. dimensione 81 102 97 75 64 70 21 8
N. saturazione 77 95 91 72 57 61 12 2

Tabella 1 - I dati relativi ai fattori emotivi


Figura 1 - La dimensione e la saturazione percentuali dei fattori emotivi

 
gioia tristezza paura rabbia disgusto sorpresa
euforico mesto diffidente intrattabile avverso a bocca aperta
allegro svilito agitato geloso infastidito allibito
espansivo tetro impacciato indignato stomacato annebbiato
caloroso malinconico goffo furibondo rivoltato caotico
interessato desolato esitante invidioso schifato colpito
gaio squallido sconvolto collerico ripugnato confuso
affabile disilluso spaventato astioso scandalizzato di sasso
divertito colpevole preoccupato scontroso nauseato di stucco
eccitato umiliato vergognato suscettibile inorridito disarmonico

Tabella 2 - Alcuni esempi di aggettivi attinenti ai fattori emotivi

Discussione

A livello generale si può affermare che le emozioni vengono espresse nel linguaggio verbale per definirle, discriminarle, categorizzarle; e per comunicarle(31)(32)(35). Una sintesi delle varie concezioni e teorie delle emozioni sembra essere quella che considera le seguenti caratteristiche principali: valutare soggettivamente uno stimolo in relazione al bagaglio immagazzinato in memoria; permettere l'adattamento o l'azione nell'ambiente; comunicare con altri il proprio stato(16)(26).Da una riconsiderazione critica di alcune ricerche, emerge che alcune di esse sono basate sul metodo dei resoconti tratti direttamente dal soggetto che esperisce le esperienze emotive; altri autori, invece, derivano le categorie delle emozioni da raggruppamenti di liste di parole. Queste liste sono costruite o in modo "teorico", cioè in base ad una selezione operata da un gruppo di esperti della materia, oppure costruite sulla base di successive selezioni, fatte da soggetti sperimentali, di liste originariamente molto estese (Gius et al., 1992; Storm, Storm, 1987).Ciò che personalmente mi sembra importante è che, se da un lato gruppi di individui riflettono la categorizzazione emozionale della nostra lingua (e probabilmente per estensione di tutte le lingue), e quindi si approssimano ad una tassonomia basica delle emozioni, non è la stessa cosa affermare che questa procedura evidenzi la struttura categoriale di base delle emozioni. Vi sono alcuni aspetti da discutere.Un primo aspetto è che i soggetti sperimentali selezionando e raggruppando più etichette mettono in atto la propria rappresentazione linguistica delle emozioni in termini di competenza linguistico-emotiva e capacità di discriminazione delle emozioni attraverso la lingua (e non). Questo aspetto, tutt'altro che scontato è uno dei punti, a parare di chi scrive, più deboli di gran parte delle ricerche sul raggruppamento di termini emozionali.Un secondo aspetto è quello delle etichette usate, cioè del materiale delle ricerche. La maggior parte delle metodologie è fondata sull'analisi di sostantivi. Sebbene evidenziato da alcuni autori (Plutchick, 1980; Fehr, Russel, 1984) questo aspetto è raramente tenuto in conto. La scelta del sostantivo, piuttosto che dell'aggettivo, corrisponde linguisticamente ad un livello di analisi del problema che è tutt'altra cosa dall'esperienza emotiva; piuttosto il sostantivo può evidenziare un processo già avvenuto di categorizzazione di un "evento" presente nel mondo. L'analisi è spostata su un oggetto di analisi che non è sempre la medesima cosa rispetto ad uno stato interno esperito; semmai nel processo di collegamento (valutazione) di uno stato ad un evento vi possono essere diversi gradi di competenza. Un ulteriore aspetto riguarda la sovrapponibilità o meno delle categorie emozionali delle varie ricerche. Uno dei motivi, mi sembra, della non completa coincidenza consiste nella scelta di procedure metodologiche che non tengono conto di un possibile "errore" di competenza nella discriminazione ed etichettamento delle emozioni.Dunque, ai fini di una migliore definizione della struttura categoriale, sarebbe più auspicabile l'uso di metodi "dall'alto", cioè di fonti terminologiche sufficientemente generalizzate e mantenere l'analisi a questo livello, oppure l'uso di campioni di selettori molto estesi in tutti i diversi momenti delle procedure di analisi (scelta dei termini, raggruppamento, giudizi di somiglianza). Questo ulteriore aspetto può consentire lo sviluppo di analisi adeguate sulle emozioni affidabili e standardizzate. Infine tali punti complessivamente mi sembrano fondamentali in quanto tendono a mantenere separati livelli di analisi dell'emozione, come ad esempio i livelli valutativo, esperenziale, categoriale-astratto, situazionale-interazionale.

Conclusioni

Il risultato emerso dalla presente ricerca sottolinea la "capacità" del lessico di discriminare e far, eventualmente, discriminare la struttura emotiva di base veicolando in questo modo le segnalazioni utili all'organismo (certamente questo attiene alle funzioni delle emozioni utili alla specie, di cui l'individuo non ha coscienza; egli discrimina il suo stato interno sulla base del mezzo linguistico che la sua cultura ha costruito)(26)(31)(34).La struttura semantica evidenziata nel lessico "emotivo" si correla con una certa precisione ai risultati delle ricerche cross-culturali, ad esempio di Ekman (come già in Darwin), ed ai risultati in ambito neuropsicologico(13)(23)(26),specie nello studio del linguaggio non verbale, ed alle recenti osservazioni della psicologia cognitiva (in particolare la teoria proposta da Johnson Laird e Oatley).Infine, è utile rilevare quanto il processo di socializzazione incida non solo nella discriminazione lessicale emotiva ma anche nella più fine categorizzazione, e nella più utile auto- ed etero-regolazione (1)(17)(18)(27).

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La dinamica della AutoImmagine:
uno studio sulla valutazione di sè.

 

Gian Luigi Dell'Erba


Riassunto

Il presente contributo evidenzia il ruolo e le dinamiche del processo di costruzione della autoimmagine attraverso una analisi teorica del concetto di autovalutazione, delle sue componenti, e delle tipologie personologiche derivanti. L'Autore, inoltre, mette in risalto il ruolo svolto dal rapporto tra Immagine interna ed esterna attraverso una ricerca su soggetti normali e soggetti con disturbi psichici, sottolineando la peculiarità nello schema autovalutativo dei vari gruppi di soggetti.

Summary

This contribute focus on the rule and the dinamics of Self-Imaging costructional process by a conceptual analisys about self evaluetion, its components, and the relatives typologies of personality. Then, the Author points out the rule of the relations between internal and external self-image by a research on normal and psychiatric subjects, underlining the specific selfevaluation of some groups.

Parole Chiave: Valutazione, Autostima, Bilancio Autovalutativo

Key Words: Evaluation, Self-Esteem, Self-Evaluation Balance

 


La valutazione è una funzione del pensiero. E' la capacità di un individuo di avere una conoscenza sul potere rispetto ad un determinato scopo. Una valutazione può essere relativa al potere di un aspetto rispetto ad uno scopo (scopo esterno) o può essere relativa al potere di sè rispetto ad uno scopo esistente nel soggetto stesso (scopo interno). Quest'ultimo punto si definisce autovalutazione (8). Certamente c'è da specificare che la valutazione rispetto al potere dell'individuo sul raggiungimento di uno scopo può essere orientata allo scopo stesso (potere esterno) o orientata al soggetto (potere interno). Nel secondo caso ci si riferisce al repertorio di azioni che possono essere agite dall'individuo, cioè sono in suo potere; nel primo caso ci si riferisce ad azioni necessarie al conseguimento di un determinato scopo a prescindere dal soggetto agente, quindi sono azioni oggettivamente necessarie, e non necessariamente in possesso del soggetto. La valutazione (come anche la autovalutazione) può essere positiva o negativa in quanto può indicare la presenza o l'assenza di "potere" su uno scopo (o la presunzione di ciò); può però essere anche in un terzo modo, né positiva né negativa (8).Un aspetto della autovalutazione è legato in modo rilevante a modalità di sofferenza e disagio (4). Questi processi di autovalutazione costituiscono fasi molto precoci dello strutturarsi di alcune forme di sofferenza psichica. Abbiamo scelto tre forme di autovalutazione che possono essere ricondotte a processi mentali generali tipici di tutte le persone.

Autovalutazione "negativa"

Quando un soggetto si valuta negativamente si trova in una condizione che può essere chiamata di "vulnerabilità" in quanto egli diventa più sensibile alle critiche, ai giudizi, ai commenti su di sé da parte degli altri; sarà evidentemente più sensibile alle possibilità di critica negativa, quindi spesso coglierà in senso negativo (cioè di danno per sé) frasi ambigue, umoristiche, modi di dire, insomma tutto ciò che potrà essere da lui vissuto come una diminuzione in termini di immagine e di potere da parte degli altri (8). Di fronte a situazioni nelle quali sarà messo in ridicolo (anche in modo non volontario da parte di qualcuno) sarà colto da sentimenti di tristezza e ansia che lo accompagneranno per un po' di tempo. Può anche accadere di essere tenuto in scarsa considerazione soffrendo in questo caso di sentimenti di abbandono. Certamente potrà capitare di incorrere in qualche fallimento, cosa che comporterà nel soggetto sentimenti di intensità aumentata rispetto a persone con valutazioni di sé diverse. Il soggetto in questa condizione di vulnerabilità solitamente tende a far attribuzioni interne ai propri fallimenti; egli sarà più propenso a leggere come sua caratteristica la goffaggine, la incompletezza, la mancanza di precisione, la carenza di competenze. Essendo sensibile alle valutazioni degli altri su di sé il soggetto che abbiamo definito vulnerabile tenderà ad essere influenzabile facilmente da valutazioni di altri su di sé. La condizione di vulnerabilità, inoltre, si caratterizza mediante una tendenza del soggetto a valutare positivamente coloro che valutano lui in modo positivo, e ciò a prescindere dal realismo delle valutazioni. Questo punto, oggetto di numerose osservazioni da parte di vari autori, è noto come "bisogno di approvazione" (7). Il soggetto, sensibile alle svalutazioni, sarà attratto da quelle situazioni che lo incoraggiano, e che comunque non lo criticano. Si innesca così una tendenza verso il cercare l'apprezzamento degli altri, sopra ogni altra cosa, al riparo da possibili svalutazioni e critiche. Si giunge ad una condizione di ricerca della conformità come riparo dalle critiche; condizione, quest’ultima, che diventa ben presto una assunzione di atteggiamento conformistico. Il soggetto, così sarà legato agli altri nella misura in cui questi lo pongono al riparo da svalutazioni. Si tende, qui, a costruirsi una "nicchia" psico-sociale dove si possa stare tranquilli senza il pericolo di giudizi negativi. Ma questa condizione ha un punto fragile che è quello di creare una forte dipendenza dagli altri. Se gli altri, identificati come non svalutanti, non sono disponibili il soggetto è in pericolo; soprattutto è a rischio di essere esposto a svalutazioni (1).E' evidente come vi sia nel giovane che percorre questa direzione una escalation che se apparentemente lo protegge da critiche e svalutazioni immediate lo "incastra" in un processo di graduale "disabilità" psico-sociale tanto da correre comunque i rischi che cercava di evitare, affrontando però situazioni a più alta risonanza psicologica e sociale in termini di difesa della propria immagine auto- ed etero-riferita.La condizione della vulnerabilità dovuta alle auto-valutazioni negative, che abbiamo affrontato qui in termini fenomenologici, si lega in termini causali ad alcuni passaggi a livello dei processi mentali che il soggetto effettua e che costituiscono delle assunzioni circa il potere interno di raggiungere i propri scopi. Questo assunto è rilevante se pensiamo che la condizione stessa di sviluppo del soggetto è caratterizzata da potere rispetto al raggiungimento di scopi autodeterminati oppure di scopi sociali, cioè posti nel contesto di appartenenza: la costruzione della propria efficacia sarà in parte dovuta al risultato di queste prove graduali dalle quali il ragazzo deriverà le assunzioni di "potere interno" su scopi futuri mediante inferenze (4). Questa situazione comporta sostanzialmente alcune conseguenze. La prima è quella che il soggetto si aspetta dagli altri valutazioni negative. Ciò è chiaramente il risultato della considerazione che il soggetto attribuisce alla "conoscenza" dell'avere scarso potere. La seconda conseguenza è quella di ritenersi non autosufficiente, quindi cercherà l'aiuto degli altri con la conseguenza diretta di essere dipendente (come già sottolineato). Inoltre, egli cercherà di smentire le proprie convinzioni negative su di sè mediante la ricerca di valutazioni altrui positive (che stimolerà la tendenza al conformismo). Da quanto espresso ora ne deriva che la considerazione e le valutazioni degli altri assumono una importanza sbilanciata rispetto alle autovalutazioni (il soggetto dà maggiore peso ai giudizi altrui rispetto ai suoi). Si avrà una situazione nella quale la stima altrui sarà molto valutata, ma sarà (anche per questo) in pericolo, fragile, non sicura. L'individuo sarà orientato, in situazioni sociali, verso la salvaguardia della stima altrui; la sua attenzione sarà focalizzata sul rischio di perdere l'approvazione, la quale avrà (per il soggetto) una alta probabilità di essere negativa (il timore di ciò è alto). E' ovvio che l'evitamento delle frustrazioni o delle valutazioni negative altrui non può essere realisticamente raggiunto sempre, quindi si avrà comunque un risultato negativo agli occhi del soggetto. Quando la stima altrui sembra essere minacciata, il soggetto andrà incontro ad intense reazioni emotive tra le quali soprattutto Ansia e Depressione (cioè derivazioni complesse rispettivamente di emozioni quali Paura e Tristezza, che assumono il valore di una reazione "comprensibile" dato il set mentale di partenza del soggetto) (5).Sperimentati i primi colpi alla propria Stima da parte degli altri (i primi shock) egli tenderà ad attenersi alle richieste altrui, in modo meticoloso, e si asterrà dall'esporsi sviluppando comportamenti conformistici e dipendenti aventi lo scopo di evitare di "esporsi", di evitare aggressioni, rifiuti, abbandoni. Inoltre, egli cercherà di evitare che gli altri lo "conoscano bene", cioè che possano scoprire le auto-considerazioni negative del soggetto, e quindi criticandolo e svalutandolo; sarà allora impegnato ad evitare contatti coinvolgenti, relazioni strette, interazioni prolungate, tenderà verso la "superficialità" (8)(4).Questo quadro che abbiamo fin qui esposto sembra essere caratteristico dello sviluppo di molti giovani, e permette di comprendere il "come" numerose reazioni pre-adolescenziali giungono verso costruzioni di sè e degli altri simili a questa esposta.Questo processo di costruzione della propria Autovalutazione (negativa) presenta alcune importanti conseguenze. Una principale conseguenza di questo processo è proprio quella che il soggetto ha cercato di evitare faticosamente: se un soggetto è socialmente “superficiale", non disponibile, evitante, allora le altre persone raramente adottano i suoi scopi, saranno restie a fidarsi, e tenderanno a valutare negativamente il soggetto (1). Questo crea un seconda conseguenza che è quella di generare attorno al soggetto un contesto di solitudine non voluta. L'isolamento sociale sarà un ulteriore stimolo per indurre il soggetto a svalutarsi e sentirsi svalutato; questa condizione lo porterà ad avere progressivamente sempre meno rapporti intimi, e sempre più sentimento di abbandono, e mancanza di affetto, stima, e sostegno da parte degli altri. Tutto questo fino ad un vissuto di completa solitudine.In questa analisi delle valutazioni che il soggetto compie in questa direzione si è constatato che egli così non soltanto non raggiunge i suoi scopi ma si ritrova in una condizione di maggiore implicazione in termini di sofferenza emotiva, e psicologica in generale.Si è visto, in sostanza, come lo scopo della stima di sè (in questo caso) è conseguente e derivato da quello della stima degli altri (8). Questo processo oltre ad essere scarsamente adattivo socialmente, è fortemente disadattivo psicologicamente (6). Si giunge, da parte del ragazzo, a sovrapporre i due scopi, a confonderli, e a creare dipendenza di uno dei due dall'altro.La portata di questa disamina è rilevante. Ci permette di rispondere ad una serie di domande del tipo: quanto è importante il gruppo degli amici per il ragazzo? come si viene a creare la paura di esporsi? cosa può esserci dietro al comportamento conformistico? come agisce la spinta del gruppo su eventuali comportamenti individuali?

Autovalutazione "positiva"

Consideriamo ora la condizione contraria a quella su esaminata. Se un soggetto si valuterà dipendente produrrà un comportamento conformistico e svilupperà sentimenti di inadeguatezza, ansia e depressione; alla base di ciò vi è un assunto di fondo in termini di valutazione della propria implicita "inferiorità". Ma se un soggetto, invece, ha una valutazione di sè tale, per cui si ritiene adeguata ai suoi propositi, in grado di raggiungere i suoi scopi, in possesso degli strumenti materiali e psicologici per realizzarli, cioè si sente di avere "potere per", allora egli ha una Autovalutazione positiva del proprio Sé. Tale condizione assume che il soggetto ritenga sé "affidabile", relativamente ai propri scopi ed interessi. Egli, inoltre, deve ritenersi sicuro di sé, o perlomeno avere una valutazione probabilistica che gli permetta di escludere sentimenti quali paura, dubbio, imbarazzo, vergogna, e simili (1).Un individuo, certamente, fa i conti con una determinata cornice contestuale dalla quale deriva i dati di base per il calcolo delle proprie probabilità (12). Se un individuo eccede in questa valutazione (in sostanza il calcolo è sbilanciato verso la totale certezza sul proprio "potere per") allora il suo set autovalutativo è "rigidamente" positivo (9).Il soggetto compie, in quel margine di distanza tra la autovalutazione e il dato del contesto una implicita scommessa (la valutazione di tale distanza è soggettiva e dipende appunto dal proprio sistema mentale), per cui nella assenza di una certezza assoluta "rischia" sulla base di un "potere" presunto. L'assunzione del rischio di agire, di valutare, di assumere, è prevalentemente una attività automatica strettamente dipendente dalla costruzione del sistema di scopi su di sé, sugli altri, e sul mondo. Non accettare il rischio (l'incerto) conduce alla paralisi dell'agire, e alla confusione (come vedremo più avanti); sottostimarlo, invece, conduce a quanto segue. La scarsa considerazione della distanza tra sé e il resto, tra il proprio potere e lo scopo da raggiungere, è una condizione dovuta al mal funzionamento del "meccanismo" di calcolo del "potere di ...". L'individuo accetta di buon grado ogni avventura, intraprende azioni contro ogni consiglio, ed aldilà della evidenza degli altri di riferimento. Il soggetto accetta una auto-scommessa rispetto a scopi nuovi e vecchi con una modalità caratteristica. Nei riguardi di obiettivi nuovi, egli dimostra intraprendenza, spirito di avventura, temerarietà. Mentre ad alcuni potrà apparire come un individuo particolarmente "coraggioso", "eroico", "positivo", ai più sembrerà un soggetto imprudente. Il punto qui è quello di non evitare il pericolo; sia di ritenerlo troppo lontano (distanza) per causare qualche sorta di danno, sia ritenerlo troppo esiguo ed insignificante (quantità) per determinare qualche seria preoccupazione. Dunque, si parla qui della valutazione della distanza e della quantità connesse all'oggetto del "rischio". Verso obiettivi ben conosciuti, vecchi, il soggetto si esprimerà attraverso un comportamento tenace, testardo, ripetitivo. E' il caso di scopi già compromessi ai quali il soggetto non si rassegna. Qui, è in gioco la valutazione sia della distanza che della importanza di questi obiettivi (9). L'individuo non sarà capace di "mollare" quando ciò è necessario (ai più). Una delle caratteristiche di base di queste persone è quella attinente al "senso" della "misura" e della "distanza", così come comunemente ciò è inteso nel linguaggio quotidiano naturale. Caratteristiche come "invadente", "egoista", "borioso", "maleducato", "narcisista", "illuso", "vanaglorioso", "eccentrico", trovano in questo contesto un posto ideale. L'individuo adotterà, quindi, molto spesso manovre quali il continuo cimento in azioni e compiti ardui, la sperimentazione verso le più diverse situazioni, si lancerà (come già detto) in avventure rischiose (14).A tutto ciò vi sono delle ovvie conseguenze. Tali sono i ripetuti fallimenti che il soggetto incontra, dovuti alla cattiva valutazione anticipata sul proprio potere e sulle caratteristiche dell'obiettivo da raggiungere; la riprovazione sociale determinata dalla valutazione degli altri sul suo comportamento, spesso letto come "bizzarro"; la improvvisa disillusione catastrofica che è causata dal divario (una volta che esso è percepito) tra ciò che finora si è valutato come "possibile" e ciò che appare in termini negativi rispetto al proprio potere, situazione drammatica tanto più il soggetto ha sperimentato "autoscommesse" (14). Una situazione estrema è quella dovuta a situazioni vissute come shock. Tali eventi incidono, molto spesso, determinando nel soggetto una irrealistica valutazione di "totale perdita permanente" alla quale egli reagisce, spesso, in modo altrettanto estremo, con una "fuga" nel sentimento di grandiosità (queste situazioni sono determinate da costruzioni particolari in termini di identità personale; sono situazioni molto "simili" anche se di natura diversa, probabilmente biochimica e neurofisiologica, quelle nelle quali vengono alterati alcuni .fondamenti strutturali del funzionamento mentale, come nella Schizofrenia, nella Mania, nella Sindrome Organica di Personalità, nella Demenza, come pure nell'assunzione di sostanze stupefacenti) (11). A grandi linee, questo meccanismo di valutazione conduce ad un processo di graduale distacco dalla integrazione sociale e relazionale; inoltre, quanto sopra esposto determina nel soggetto un comprensibile sentimento di scarsa empatia, di essere poco compreso, di non essere "capito al volo", e quindi ingenera una interazione con gli altri sempre più scarsa e superficiale. L'estrema configurazione di ciò è il non essere più "capiti" dagli altri, il considerare le persone intorno "stupide" e "limitate", e quindi, sulla base di una ormai scarsa "familiarità" l'avere l'impressione che gli altri non siano più amici, ma possano ostacolare l'azione (11). In definitiva, tale processo origina la propria autostima (cioè la considerazione del valore di sè) dalla autovalutazione positiva (cioè dal calcolo personale soggettivo del proprio "potere" nel perseguimento dei propri obiettivi). L'individuo in questione trascura altri elementi di giudizio basandosi soltanto sul proprio sentimento di "capacità". A tale considerazione si legano concetti quali "egocentrismo", "narcisismo", operazionalismo concreto"; non è questa la sede adeguata per trattare questo legame, ma il significato più generale di tali termini (pur con le ovvie distinzioni) ci appare congruo con quanto esposto.

Autovalutazione "oggettiva"

Come si è potuto notare finora, se la funzione valutativa, utile per orientarsi e per calcolare il proprio potere di conseguire determinati risultati, dipende troppo strettamente dal bisogno di Autostima allora, possono verificarsi condizioni come la autosvalutazione, con conseguenti sentimenti associati, oppure la eccessiva autovalutazione (autostima senza contributo valutativo ulteriore), con le già trattate situazioni correlate. Vi sono, tuttavia, situazioni (e relativi meccanismi psicologici) secondo le quali l'individuo deriverebbe la propria Autostima da valutazioni "oggettivamente" valide e prestazioni "sicure" senza "ombra di dubbio". Tali circostanze in realtà, sono puramente teoriche, e costituiscono la meta ideale, l'utopia, o, da un altro punto di vista, l'illusione. Questo meccanismo autovalutativo consiste nel "calcolare" le prestazioni positive che hanno contribuito al proprio sentimento di "capacità", alla propria autostima, al proprio benessere, e le prestazioni negative che, invece, hanno stimolato nell'individuo sentimenti di autosvalutazione, vergogna, imbarazzo, paura, disgusto, seccatura; in generale, sentimenti negativi che l'individuo sarà portato ad evitare. Una volta effettuato il calcolo delle situazioni-tipo positive e negative per la propria autostima, egli applicherà "alla lettera" tale confronto. Si verifica, così, nell'individuo un bilancio rigido, "concreto", fin troppo aderente al particolare, tale da non permettersi la esistenza di lacune o dubbi nell'analisi delle situazioni (ovviamente con un eccessivo carico di lavoro mentale). Sulla base di tale bilancio risultante dal calcolo delle situazioni positive e negative, tale individuo effettuerà una previsione, che non potrà che rispecchiare il risultato "matematico" del proprio bilancio di "potere" (8)(9). Una tale situazione conduce al pieno e completo conservatorismo, in quanto egli non rischierà mai per un obbiettivo valutato in anticipo difficile (anche se voluto). Si avrà una marcata riduzione dello sperimentalismo e del comportamento di esplorazione. La base di ciò è, appunto, la mancanza di assunzione del rischio; egli non accetterà una autoscommessa se essa appare a sé stesso difficile, sebbene ampiamente desiderata. Costui, invece, aumenterà la capacità di maneggiare le conoscenze (su base decisamente categoriale, teorica, formale) apprese, e gestirà in modo abile le capacità di calcolare velocemente i pro e i contro delle varie situazioni (ovviamente si parla di vantaggi e svantaggi puramente logici e condivisi, non certo di motivazioni personali e soggettive). Il comportamento associato a questo set psicologico autovalutativo è quello di un atteggiamento circospetto, attento, orientato, vigile, che tende a sovraccaricarsi in termini di memoria (memoria a breve termine) e di attenzione (tende ad essere spesso frastornato). La meta del suo agire non può che essere la prevedibilità, delle situazioni esterne come dei comportamenti altrui; ciò che eviterà maggiormente, quindi, sarà la sorpresa, l'impatto con il fortuito, la sperimentazione del nuovo. Questo schema di processare la conoscenza, e di affrontare le situazioni non conduce ad uno sviluppo ricco della propria personalità, ma determina una organizzazione cristallizzata avente settori limitati di esistenza, seppur ricchi di elementi e dettagli anche sofisticati. Le principali manovre d'azione di questa tipologia autovalutativa saranno essenzialmente quelle attinenti all'evitamento del rischio, quelle riguardanti la chiusura rigida nel noto e conosciuto, quelle attinenti alle inferenze e generalizzazioni in favore del bilancio calcolato, del conservatorismo, e a sfavore dei cambiamenti. Le principali conseguenze tipiche di tale organizzazione autovalutativa sono: l'isolamento, derivante dalla scarsa propensione a "rischiare" coinvolgimenti relazionali e relative difficoltà di "gestione" correlate (le interazioni sociali sono fino ad un certo punto prevedibili); le sanzioni altrui, derivate dalla eccessiva lentezza e meticolosità di analisi, dalla scarsa prontezza di decisionalità, e dalla goffaggine derivante dalle situazioni di confusione e frastornamento (over-loading); il disagio relativo al dubbio perenne e alla diffidenza, che derivano dalla "umana" limitatezza nel calcolo delle inferenze e delle probabilità di occorrenza di un evento (9)(11). In sintesi, questo quadro deriva dalla determinazione della propria autostima a partire dal calcolo delle probabilità di successo in una situazione, e dalla relativa scelta "cauta" delle situazioni "sicure", positive (almeno relativamente al passato) (8). Egli deriva dall'esperienza passata di successo, e dalla relativa scelte conforme nel presente, la "possibilità" della propria autostima. Tale individuo, non sarà mai certo, almeno fin quando sarà cosciente, tramite il dubbio, della portata limitata del proprio calcolo valutativo.

Ricerca

Al fine di studiare le tipologie analizzate teoricamente, si è approntata una ricerca tesa ad indagare specificamente la tendenza verso la Autovalutazione positiva e quella verso la Autovalutazione negativa; inoltre, sempre sulla base della stessa metodologia, si è tentato di discriminare la componente valutativa legata alla Immagine di Sé (importanza della autovalutazione), da quella legata alla Immagine Sociale (importanza della valutazione degli altri) (1). Per ragioni puramente metodologiche e psicometriche non si considerata la tipologia "oggettiva", il bilancio rigido nella autovalutazione. Certamente, un approfondimento del metodo usato potrà portare alla operazionalizzazione di questa modalità autovalutativa.

Strumento.

La metodologia ritenuta adeguata è stata quella del questionario autovalutativo. Nello specifico, il questionario era una scala per la misura del Sentimento di Inferiorità versus Autostima, messo a punto da Eysenck e Wilson (2). Nella versione originale degli autori, questo strumento misurava, da 0 a 30, il grado di Autostima. Lo strumento originale è caratterizzato da 30 domande, bilanciate tra connotazione positiva e negativa, con una graduazione 0, 0.5, 1, per un totale di 30 punti. In questa ricerca, invece, oltre alla misura del "tratto" Inferiorità/Autostima sono considerati due Fattori interni alla scala: I - Valutazione della Autoimmagine, e II - Valutazione della Immagine Sociale. I due fattori interni, I e II, sono formati rispettivamente da 15 e 13 domande. Il I fattore copre il 50% del totale; il II fattore copre invece il 43.3% del totale della scala; questi due fattori sommati raggiungono una percentuale pari a 93.3% del totale della intera scala, saturandola quasi integralmente. Ai fini del punteggio, sia totale sia per ciascuno dei due fattori, non sono state considerate due domande, delle 30 della versione originale, che si discostavano da entrambi i due fattori interni. Le domande effettive calcolate sono state quindi 28 (sono state escluse le domande n. 12 e n. 23 del questionario originale).

Campione.

La ricerca è stata condotta su 75 studenti universitari, di entrambi i sessi, con età compresa tra i 19 e i 35 anni, e su 46 pazienti psichiatrici ambulatoriali di sesso maschile, con diagnosi variamente comprendente le seguenti categorie (secondo il D.S.M.III-R): Disturbi d'Ansia e Distimie, Disturbi dell'Umore, e Schizofrenia. I soggetti avevano una età compresa tra i 21 e i 43 anni.

Metodo.

L'analisi dei dati è consistita nel calcolo del punteggio totale, e del punteggio dei due fattori interni (I e II). Il punteggio è stato confrontato per "sesso", e tra i due gruppi della ricerca. E' stata, inoltre calcolata la percentuale sul totale, e su ciascuno dei due fattori.

Risultati

I risultati della ricerca indicano delle differenze rilevanti tra soggetti normali e pazienti psichiatrici, nelle varie categorie diagnostiche. Sono particolarmente interessanti le differenze nei due fattori interni della scala, oltre che il punteggio globale della Autovalutazione. I dati relativi al confronto fra soggetti maschi e femmine (studenti) indicano una differenza non significativa statisticamente, né apprezzabile numericamente, (p > 0.05), e quindi non viene riportata la disaggregazione per sesso. Un primo risultato sembra essere quello relativo al punteggio globale di Autostima. Come emerge dai dati (FIG.1) i valori di Autostima degli studenti si avvicinano a quelli dei soggetti schizofrenici, mentre gli altri soggetti hanno tutti un punteggio minore, con le varie differenze. Mentre si può concludere che i soggetti normali hanno una Autovalutazione più positiva dei pazienti, ciò non può essere concluso in modo netto relativamente ai soggetti schizofrenici. Infatti, questi ultimi hanno riportato un punteggio che si approssima, anche se inferiore, al valore di Autovalutazione dei soggetti normali (la differenza non è significativa per alfa = 00.5, a causa della ampia variabilità). Il dato che emerge potrebbe indicare una difettosa valutazione di sè dei soggetti schizofrenici dipendente da un deficit specifico nel trattamento dell'informazione attinente al rapporto tra sè e l'esterno (10)(11). Per quanto riguarda i dati degli altri pazienti, i soggetti con Disturbi d'Ansia hanno riportato i punteggi più elevati; con una certa differenza, i soggetti con Distimia possono essere accomunati ai precedenti, avendo riportato valori lievemente inferiori. I soggetti che si sono valutati in modo più negativo sono stati i pazienti con Disturbi dell'Umore.Questi dati possono essere considerati congrui con le conoscenze e le acquisizioni riguardo le specifiche psicopatologie (11). Un secondo elemento emerge dal rapporto tra i due fattori interni (Immagine di Sé e Immagine Sociale) nei diversi gruppi studiati. Negli studenti il rapporto tra il fattore I e il fattore II è di 2 a 1, come emerge dal calcolo delle percentuali. Questo significa che i soggetti di controllo valutavano la propria Autostima basandosi maggiormente sull'Immagine di Sé e in misura minore invece sull'Immagine Sociale, che risulta essere la metà della prima. Nei soggetti con disturbi psichici, lo schema di valutazione, determinato dal rapporto tra i due fattori, si evidenzia come congruo con le conoscenze psicopatologiche attinenti a ciascun gruppo (11). Nei soggetti con Disturbi d'Ansia, il fattore più elevato è il II; analogo risultato si evidenzia anche nei soggetti con Distimia. Il dato che appare discriminativo, oltre il livello globalmente più ridotto nelle Distimie, è il punteggio del I fattore che risulta essere più ridotto nei soggetti distimici. Nei soggetti con Disturbi dell'Umore, oltre il ridotto punteggio totale, appare rilevante l'elevato valore (e percentuale) nel I fattore, in un rapporto con il II pari a 3 a 1.. Nei soggetti schizofrenici vi è un andamento analogo ai precedenti, con un rapporto ancora più sbilanciato a favore del I fattore che risulta essere superiore al 76%.Globalmente, si può desumere che nello schema personale di Autovalutazione sia rilevante il rapporto tra le due modalità di costruire la propria Immagine, e quindi autovalutarsi. Infatti, da una parte, alcuni soggetti sono sbilanciati verso una sovrastima di sé, trascurando inoltre l'importanza della valutazione altrui; questi soggetti sottostimano, o perdono di vista, il necessario feedback derivante dai rapporti sociali e dalle relazioni con l'esterno, evidenziando un deficit di reciprocità (gli schizofrenici). Dall'altro lato, altri soggetti sbilanciano il loro schema autovalutativo in favore dell'importanza attribuita alla eterovalutazione, cioè all'Immagine Sociale, esponendosi alla dipendenza dagli altri e alla disistima globale di sé (Disturbi d'Ansia e Distimie). Infine, un'altra tipologia di soggetti (Disturbi dell'Umore), in un livello di autostima assai ridotto, evidenziano uno schema eccessivamente sbilanciato verso l'Immagine di Sé, trascurando e sottostimando l'importanza della eterovalutazione.

Discussione

E' opportuno ora porre alcuni punti da approfondire. Un primo elemento che merita di essere discusso è quello relativo alla differenziazione tra auto-valutazione e etero-valutazione. In sostanza i soggetti distinguono la valutazione su sè stessi a seconda che siano essi stessi i valutatori o siano invece gli altri (o più semplicemente "altri"). Quale può essere il senso di questa distinzione? Una prima risposta può giungere dalla più elementare considerazione che gli "altri" contano (hanno un peso) nel processo di attribuzione di valore a sè stessi. E' possibile anche distinguere se questa importanza attribuita o attribuibile agli altri come "valutatori autorevoli" sia una funzione naturale. La osservazione immediata che può essere fatta è che già nello sviluppo della conoscenza e della intelligenza il bambino utilizza gli altri come punto di repere o riferimento: potremmo dire che il bambino "si fida di X", o "imita X"; in definitiva, attribuiamo un significato di importanza ai comportamenti (in un senso largo) di altri sia come riferimento procedurale (pratico, tecnico, comportamentale, pragmatico) sia come riferimento valutativo (giudizio, regole, gerarchia di adozione di scopi, aspettative). Questa funzione che gli altri svolgono è importante in almeno due sensi. In una prima accezione è fondamentale nella relazione di accudimento e di attaccamento come base informativa e "prototipica" delle future relazioni con altri. In una seconda accezione, è decisiva nell'equilibrio tra giudizi autonomi e riferimenti esterni. Questo secondo punto, cruciale in un contesto come quello della filosofia morale e della psicologia delle norme, è decisivo per la determinazione della direzione della condotta del soggetto, e della scelta dei propri scopi, a breve e a lungo termine. In sostanza, se il soggetto si conforma agli altri non esplora creativamente, ma non rischia il rifiuto; se il soggetto, invece esplora in un modo non conforme e rischia, aumenta la propria conoscenza ma non ha garantita positiva accettazione sociale ed interpersonale. Ciò è valido anche ad un livello meno "sociale" e più basico quando un soggetto si trova a dover bilanciare uno stile deduttivo oppure induttivo di pensiero.Dunque, il processo teso a differenziare auto-valutazione dalla etero-valutazione sembrerebbe garantire questa funzione individuale e sociale.Un secondo punto è quello relativo alla funzione specifica della valutazione esterna, che sembrerebbe garantire il soggetto dal rischio di distorsioni ed autoinganni intrinseci al fenomeno della doppia autovalutazione: io che giudico me stesso, e quando giudico accondiscendo agli scopi di me stesso, pur tentando "de dicto" di non farlo. A cosa serve la valutazione degli altri? E' un "servomeccanismo", potremmo sostenere, che ha la funzione di fornire dati esterni, e dunque non soggetti alle strategie di perseguimento di propri scopi. Certamente, anche l'importanza di questi dati esterni è costruita in modo individuale, attribuendo più o meno valore alle specifiche fonti informative e valutative; purtuttavia, le fonti informative esterne hanno un loro peso ed importanza, a meno di non ricorrere a strategie di annullamento del valore informativo e critico degli altri, situazione che abbiamo appunto studiato nei pazienti psicotici.Un ultimo punto di discussione è quello relativo alla specificità del pattern autovalutativo, specificità che emerge a livello di categorie diagnostiche, come abbiamo evidenziato nella ricerca. L'elemento pregnante sembra essere non tanto il punteggio globale di autostima, che può essere un fatto risultante e secondario, quanto l'equilibrio tra i due fattori di auto- ed etero- costruzione della valutazione di sè (Fattore I° e II° rispettivamente, nella ricerca). Ciò che colpisce è che a differenza del punteggio globale di autostima nei pazienti psicotici affettivi e non-affettivi (prevalentemente, Depressione Maggiore con manifestazioni psicotiche versus Schizofrenia) lo schema di autovalutazione è simile: il fattore di auto-giudizio è sbilanciato (rispetto ai controlli) in senso positivo, e dunque, il fattore relativo alla costruzione del giudizio degli altri è insignificante; questo sia che il punteggio globale sia alto o basso, sia che vi siano stati depressivi o meno. Cosa può significare questo pattern simile? Si può affermare che in questi soggetti l'importanza del giudizio degli altri, al fine di costruire in modo più sofisticato la propria auto-immagine, è irrilevante. In quanto giudicata di poco conto o utilizzata scarsamente (cosa che comunque non è uguale) questi soggetti sarebbero inclini a non avere un "servomeccanismo" funzionante, e per questo motivo non sarebbero in grado di giovare delle correzioni proficue da parte dell'esterno. Di fronte al problema questi soggetti tenderebbero a basarsi unicamente su informazioni possedute (così come sono possedute) e scoraggerebbero l'attività informativa e valutativa esterna (sociale o meno). Questo risultato si avvicina alle descrizioni piagetiane dell'egocentrismo intellettivo, e alle strategie iperdeduttive e iperinduttive patologiche descritte dalla psicologia del ragionamento (13). Il risultato di ciò è una nota difficoltà alla correzione delle proprie "teorie" personali e delle proprie assunzioni ed auto-credenze.

Conclusione

La valutazione dalla propria immagine è un indicatore del processo di costruzione della identità personale, e dei relativi problemi e disturbi psichici.Lo schema di autovalutazione può essere operazionalmente distinto in due componenti, l'Immagine di Sé e l'Immagine Sociale, il cui rapporto ha la funzione di bilanciare il contributo reso dall'esterno alla costruzione della Autoimmagine, con quello derivante dalla attività ideativa interna.Alcuni soggetti con specifici disturbi mentali evidenziano un rapporto, tra le due componenti della Autoimmagine, sbilanciato fortemente in un senso o nell'altro in modo congruo con le specifiche categorie psicopatologiche.

 

 

Bibliografia

 

  1. Castelfranchi C. (1988) Che Figura. Emozioni e immagine sociale. Il Mulino. Bologna
  2. Eysenck H.J., Wilson G. (1986) Conosci la tua personalità. Ed. B.U.R.
  3. Gazzaniga M.S. (1990) Stati della Mente, Stati del Cervello. Giunti, Firenze
  4. Guidano V.F. (1988) La Complessità del Sé. Bollati Boringheri, Torino
  5. Liotti G. (1991) Il significato delle emozioni e la psicoterapia cognitiva. in Magri T., Mancini F. (a cura di) Emozione e Conoscenza. Editori Riuniti. Roma
  6. Hinde R.A. (1989) Individui, Relazioni e Cultura. Giunti, Firenze
  7. Kendall P.C., Northon-Ford J.D. (1986) Psicologia Clinica. Il Mulino, Bologna
  8. Miceli M., Castelfranchi C. (1992) La Cognizione del Valore. F.Angeli Milano
  9. Nisbett R., Ross L. (1989) L'Inferenza Umana. Il Mulino Bologna
  10. Pizzamiglio L. (1990) La neuropsicologia delle emozioni. in Denes G., Pizzamiglio L. Manuale di Neuropsicologia. Zanichelli. Bologna
  11. Sims A. (1992) Introduzione alla Psicopatologia Descrittiva. R.Cortina, Milano
  12. Stich S. (1983) From folk psychology to cognitive science. Cambridge,Mass., MIT Press.
  13. Tverski A., Kahnemann D. (1974) Judments under uncertainty: Heuristics and biases, in "Science", 185, pp.1124-1131.
  14. Zuckermann M. (1979) Sensation Seeking: Beyond the optimal level of arousal. Erlbaum, Hillsdale

 


 


Il trattamento psicologico breve nel Disturbo da Attacchi di Panico

 

Gian Luigi Dell'Erba

 


Riassunto

Il disturbo da attacchi di panico con o senza agorafobia è largamente sensibile al trattamento cognitivo - comportamentale, in particolare strutturato in modo tale da puntare l’intervento su quattro elementi ritenuti principali sia per quel che riguarda la eziologia che per quanto concerne il trattamento. Essi sono:

a) esposizione graduale "in vivo";
b) ri-etichettamento delle sensazioni somatiche;
c) rilassamento e respirazione addominale frazionata;
d) ristrutturazione cognitiva delle assunzioni disfunzionali.

Per valutare tale incisività è stata condotta una ricerca su pazienti in trattamento psicologico e pazienti in trattamento farmacologico aventi la funzione comparativa di controlli clinici. La valutazione dell’andamento è stata effettuata con il SCL90 somministrato a intervalli regolari di 15 giorni per 90 giorni. Il trattamento psicologico cognitivo - comportamentale è risultato efficace sui controlli clinici e la differenza tra i punteggi iniziali e quelli finali è ampiamente significativa.

Summary

Panic Attacks Disorders and Agoraphobia is very sensitive to cognitive-behavioral treatments, particularly when it is builted focusing on four fundamental elements both for etiology and for treatment. They are:

a) gradued in vivo exposure;
b) re-labelling of bodily sensations;
c) relaxation and frationed breathing;
d) cognitive restructuration of maladactive assumptions.

To evaluate this incisivity a research has been conducted upon subjects under psychological treatment and subjects under drug treatment as clinical controls. The assessment of the trend has done with SCL90 with regular intervals of 15 days for 90 days. Cognitive-behavioral psychological treatment is risulted more effective and efficacy than clinical controls and the difference between initial scores and the ending scores was largely meaningful.

PAROLE-CHIAVE: terapia cognitiva, attacchi di panico, agorafobia

KEY-WORDS: cognitive therapy, panic attacks, agoraphobia

Premessa

L’interesse per i Disturbi d’Ansia e di Panico è aumentato notevolmente negli ultimi anni ed è riconosciuto come uno tra i più frequenti motivi di consultazione specialistica nell’ambito dei problemi psicologici. Il Disturbo da Attacchi di Panico interessa dal 2 al 6% della popolazione ed è più frequente nelle donne, e molto spesso insorge in età giovanile. Pur senza rifarsi a dati epidemiologici ufficiali, si può sostenere con tutta tranquillità che la consultazione per problemi d’ansia e di panico è tra quelle più frequenti che spingono l’individuo a consultare il medico di base. Inoltre, da una parte, molti soggetti con problemi di ansia presentano al medico una lista numerosa con altri problemi (cefalea, insonnia, dispnea, tachicardia, ...), dall’altra numerose persone non consultano alcun medico ed a volte intraprendono la strada di tentativi eterogenei di "autoterapia".Il disturbo d’ansia acuto diventa motivo di consultazione ad un grado medio o elevato di intensità, quando il soggetto ha fallito i propri tentativi di gestione dei sintomi. Ad una elevata intensità, come è facile immaginare, vi è una quasi totale compromissione della vita di relazione e della autonomia personale.I disturbi d’ansia acuta possono essere distinti sulla base dei sintomi o della specifica compromissione che essi causano. Nel DSM IV (A.P.A., 1994) sono elencati i seguenti disturbi che possono coesistere con un disturbo di ansia acuta e panico negli adulti:

- Attacchi di Panico con agorafobia
- Fobia semplice
- Ansia sociale
- Disturbo ossessivo compulsivo
- Ansia generalizzata
- Depressione Maggiore
- Disturbo da somatizzazione
- Disturbo post-traumatico da stress

In questo lavoro verrà trattato soltanto il disturbo da attacchi di panico con o senza agorafobia con un interesse prevalentemente applicativo per le procedure di trattamento psicologico a breve termine.

Caratteristiche della sindrome da attacchi di panico con o senza agorafobia

Il disturbo da Attacchi di Panico con o senza Agorafobia è caratterizzato dai seguenti sintomi come variamente presenti nel DSM IV:

- palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia:
- sudorazione;
- tremori fini o grandi scosse;
- dispnea o sensazione di soffocamento;
- sensazione di asfissia;
- dolore o fastidio al petto;
- nausea o disturbi addominali;
- sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento;
- derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da sè stessi);
- paura di perdere il controllo o di impazzire;
- paura di morire;
- paraestesie (sensazioni di torpore o di formicolio) brividi o vampate di calore;
- ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile allontanarsi o ricevere aiuto.

Il disturbo da panico può essere associato ad altri disturbi in co-morbilità come ad esempio Depressione, Ansia Sociale, Disturbo Ossessivo-compulsivo, Disturbo da Somatizzazione, Disturbo da Ansia Generalizzata, Disturbo Post Traumatico da Stress. Possono naturalmente essere presenti alcuni tratti di personalità più frequenti di altri o anche veri disturbi di personalità come quello Evitante, Dipendente, Borderline.

Concettualizzazione del disturbo

Nel periodo precedente al primo attacco di panico i pazienti hanno frequentemente sperimentato un livello di stress elevato ma accompagnato da un atteggiamento di minimizzazione rispetto ai problemi contingenti. I soggetti spesso riferiscono problemi familiari, di lavoro, cambiamenti importanti nella qualità della vita o nella generale organizzazione familiare, frustrazioni o relazioni particolarmente impegnative, o altre situazioni "normalmente" caratterizzate da stress. I pazienti con attacchi di panico minimizzano questi antecedenti sulla base di una probabile assunzione personale attinente alla propria insensibilità o immunizzazione a tali situazioni. In sostanza non prendono le dovute precauzioni consistenti nel riorganizzare il proprio generale atteggiamento così da rispondere ai problemi senza però esaurire le proprie energie. Quella che è una caratteristica antecedente al primo attacco si ribalterà poi per divenire una attenzione allarmata su ogni sensazione somatica. In generale si potrebbe parlare di una conoscenza insufficiente delle segnalazioni dell’organismo in stato di stress, nelle quali il soggetto pur presentando livelli di attivazione, ansia, tensione, iperventilazione elevati non riorganizza il proprio comportamento in base ad essi, ma tenta di distrarsi, minimizza il dato e sopravvaluta le proprie capacità di fronteggiare fisicamente la situazione. In tali circostanze si manifesta il primo episodio di panico. Questo evento ha due aspetti rilevanti: un primo aspetto attinente alla circostanza traumatica di sperimentare uno stato acuto di ansia costruito dal soggetto come completamente diverso dalle "normali" esperienze finora sperimentate (aspetto traumatico); il secondo aspetto è relativo alla acquisizione di una nuova dimensione di conoscenza (avere gli attacchi di panico, i sintomi specifici, i sentimenti di urgenza). Questi due elementi costituiscono gli ingredienti della sindrome psicologica del disturbo.Una volta sperimentato il primo episodio, il soggetto attiverà una particolare attenzione ai segni precoci e premonitori di un successivo attacco; in sostanza, il soggetto sarà nuovamente in stato di ansia dovuta ad una ipervigilanza, e in questo stato attiverà l’atteggiamento ansioso con i noti correlati fisiologici (tensione prolungata, iperventilazione, amplificazione delle sensazioni somatiche). Tra il secondo e i successivi attacchi di panico si sviluppa la sindrome completa caratterizzata da elevata anticipazione dell’ansia, ricerca attentiva dei sintomi, iperventilazione, distorsioni cognitive (in particolare la catastrofizzazione e la selezione attentiva).La natura della sindrome del disturbo da attacchi di panico è caratterizzata da un preciso circolo vizioso: l’anticipazione dell’ansia genera ansia - lo stato di ansia conduce alle sensazioni di panico imminente - i sintomi vengono interpretati in chiave catastrofica ed estrema - il soggetto ha un attacco di panico. Dunque, la sindrome prende la forma di un meccanismo molto definito in cui è possibile intervenire su ciascuno dei suoi aspetti.Un elemento importante è il set di assunzioni su sè stesso che il soggetto ha costruito nel corso degli anni, il suo modo di avere a che fare con gli altri, di interpretare gli avvenimenti, di fronteggiare gli ostacoli ed i problemi della vita. Queste assunzioni, che non sono immediatamente consapevoli ma perlopiù automatiche, sono vere e proprie teorizzazioni personali che influenzano e guidano il comportamento del soggetto, fungono da coordinate di riferimento. Molto spesso, i soggetti con attacchi di panico hanno una diminuita "soglia" per i problemi legati alla autonomia personale (esplorazione, tolleranza, sopportazione, attribuzione di poteri interno-esterno) e frequentemente non hanno, nel corso dello sviluppo, articolato e potenziato questo aspetto. E’ quindi perciò possibile pensare che tali soggetti sono più esposti ad una brusca interruzione dei propri abituali schemi e subiscono una forte invalidazione, una confutazione della propria teoria. Naturalmente, la conseguenza di tale dato contrastante con le proprie aspettative è tanto più negativa quanto più il soggetto è "impoverito" nella conoscenza del proprio funzionamento e nella propria capacità di fare delle discriminazioni (sensazioni, eventi, frustrazioni, intensità degli ostacoli, ...).

Procedure psicoterapeutiche

Il trattamento è strutturato in modo da affrontare 4 obiettivi principali: a) esposizione graduale "in vivo"; b) ri-etichettamento delle sensazioni somatiche; c) rilassamento e respirazione addominale frazionata; d) ristrutturazione cognitiva delle assunzioni disfunzionali. Ognuno degli obiettivi è stato trattato come parte a sè, naturalmente discutendo con il paziente le integrazioni e le interrelazioni tra ciascun obiettivo con gli altri.

Esposizione in vivo

La tecnica della esposizione è notoriamente efficace nella riduzione dell’ansia associata a situazioni ben identificate come fobie specifiche, agorafobia, ansia sociale (Barlow D.H. et al., 1988, 1989; Clark, 1986, 1991; 1991; Clark D.M., Salkovskis P.M. 1991; Sanavio, 1994). La procedura di esposizione si pone l’obiettivo di permettere al paziente di percepire e valutare in modo "controllato" l’oggetto della propria paura. Questo metodo, se graduale, consente al paziente di riappropriarsi di quelle funzionalità sociali e quotidiane che ha perso a causa dei rilevanti evitamenti dovuti ai sintomi acuti dell’ansia ed alla sindrome di ansia anticipatoria. Se ben disegnata, la modalità di esposizione permette una rapida ripresa e confidenza di abilità che sono state sospese, ed in qualche caso dimenticate. Nel progettare ed effettuare le esposizioni deve essere ben spiegato il significato di tali procedure e quindi ricercare la piena collaborazione del paziente ed eventualmente di un suo familiare.

Ri-etichettamento delle sensazioni somatiche

La discussione concreta sulla natura di diverse sensazioni favorisce una categorizzazione ed una più realistica adesione ad un modello dei sintomi di ansia come effetti della sindrome da stress. La possibilità di discutere con il paziente delle cause dei singoli sintomi, con eventuali esempi anche calibrati sulle comuni esperienze della vita quotidiana ha la funzione di normalizzare e "decatastrofizzare" la condizione soggettiva del paziente (Barlow D.H. et al., 1988, 1989; Clark, 1986, 1991; 1991, 1996; Clark D.M., Salkovskis P.M. 1991; Salkovskis P.M., Clark D., Gelder M.G.,1996; Beck A.T., Emery G., 1985).

Rilassamento e respirazione addominale

Le tecniche di rilassamento e di educazione respiratoria hanno la funzione duplice di essere sia uno strumento "sotto controllo" del paziente, il quale può contarci nelle situazioni quotidiane più diverse, sia un metodo per bloccare o inibire la tendenza ad iperventilare e quindi a produrre i sintomi caratteristici che il paziente interpreta come l’imminente attacco di panico (Bonn J.A., Readhead C.P. A., Timmons B.H. , 1984; Clark D.M., Salkovskis P.M., Chalkley A.J., 1985).

Ristrutturazione cognitiva

Il paziente deve essere preparato ed allenato a riconoscere i propri pensieri automatici e spontanei, i quali possono essere molto rapidi ed istantanei e possono non lasciare più traccia in memoria; l’allenamento nel percepire i propri pensieri ed i propri atteggiamenti è molto importante in quanto attraverso questa procedura il paziente si rende consapevole di come effettivamente modifica il proprio stato emotivo Beck, Emery, 1985; Clark, 1986, 1991; Mancini, 1996; Freeman et al, 1990). Da tale abilità deriva anche il successivo lavoro di revisione e modificazione delle assunzioni generali del paziente. Il lavoro di riconoscimento e ricostruzione degli schemi disfunzionali (solitamente, gli schemi più usuali e frequenti che vengono elaborati da questi pazienti fanno riferimento a tipologie come "vulnerabilità", "fragilità", "mancanza di autonomia", "oppressione", "incapacità di controllo personale", "insopportazione - scarsa tolleranza alla frustrazione", "perfezionismo", "elevati standards") è la chiave del lavoro a più lungo termine, ed in genere la parte più impegnativa del trattamento. Il paziente prende coscienza di come ha costruito certi settori della propria esperienza e delle spiegazioni e teorie personali che utilizza per darsi un significato. Attraverso il lavoro sulle assunzioni disfunzionali il paziente modifica i propri schemi a favore di spiegazioni alternative più realistiche, adattive e concrete.Un ruolo di rilievo è costituito dal lavoro con i familiari (o con un familiare) attraverso il quale è possibile non solo ottenere la collaborazione per eventuali coinvolgimenti diretti in procedure di esposizione dal vivo, come esposto più sopra, ma è utile anche avere una collaborazione nella gestione delle relazioni in casa. Molto spesso il paziente può essere molto richiedente e ricercare insistentemente un sostegno nelle pratiche della propria vita quotidiana, ma nel fare ciò può assumere un atteggiamento "doveristico" e prescrittivo nei confronti del partner o di altri familiari; in tali casi è sempre utile informare e preparare i familiari di questo tipo di caratteristiche "tipiche" della sindrome psicologica senza che a questo debba seguire una reazione punitiva o svalutativa. I familiari vengono preparati a essere supporti validi, affidabili, e positivi mediante colloqui dedicati a loro ma con la presenza del paziente. L’atteggiamento generale è psico-educativo, con una particolare attenzione alla evidenziazione di distorsioni cognitive ed atteggiamenti disfunzionali anche nei familiari, che vanno segnalati delicatamente e con tatto ma pure con decisione ed atteggiamento professionale.Alcune tra le tipiche reazioni della famiglia al paziente ansioso (in particolare al paziente con attacchi di panico e agorafobia) sono le seguenti:

- svalutazione delle lamentele del paziente, anche con interazioni comunicative caratterizzate da scherno, sarcasmo, messa in ridicolo; la minimizzazione dei problemi del paziente è un problema che spesso si aggiunge ai problemi principali e primari della sindrome psicologica;
- reazioni punitive in risposta alla insistenza ed all’atteggiamento irritato e prescrittivo del paziente nel volere essere aiutato ("devi aiutarmi", "è tuo dovere accompagnarmi", ...);
- trascuratezza ed allontanamento dovuti alla difficoltà della relazione affettiva ("non sei più come prima", "vuoi sempre l’attenzione per te", "i tuoi problemi sono sempre più importanti ed urgenti dei miei", ...).

Un altro aspetto importante è quello delle procedure da attuare tra una seduta e l’altra, i cosiddetti "compiti per casa" o homeworks. E’ utile insistere sulla necessità di attuare i compiti in quanto molto spesso il lavoro progettato ha un senso preciso ed il suo risultato è necessario per la continuità del trattamento. Gli specifici compiti sono progettati in collaborazione con il paziente e consistono frequentemente in diari di registrazione di elementi-bersaglio, o diari di automonitoraggio, o in schede di analisi delle cognizioni associate agli eventi contingenti.

Metodologia della ricerca

disegno

La ricerca è stata caratterizzata da uno doppio schema: il primo di confronto diretto interno dovuto al tipo di valutazione prescelta consistente nell’andamento sintomatologico sulla base di un test normativo (SCL90); il secondo di confronto esterno con un gruppo di controlli clinici. La valutazione degli esiti è stata caratterizzata principalmente dalla valutazione degli andamenti psicometrici del test, somministrato a scansione predeterminata.

strumenti

Lo strumento prescelto è stato il Sintoms Check List 90 items di De Rogatis e collaboratori, per le buone qualità di praticità, precisione sintomatologica degli items, velocità di somministrazione e scoring, fedeltà, validità rispetto all’esame clinico. Il test consiste di 90 items sintomatologici raggruppati nelle seguenti scale: Somatizzazione, Ossessioni, Sensitività, Depressione, Ansia, Ostilità, Ansia Fobica, Ideazione Paranoidea, Psicoticismo, Sleep (disturbi del sonno), Neu (indice di nevroticismo generale).La buona manegevolezza dello strumento ha permesso di usarlo con una scansione di 15 giorni.

dati

L’esame dei risultati è consistito nel confronto diretto interno dei punteggi del campione, e nel calcolo della significatività dello scarto tra la prima e l’ultima somministrazione. Tale semplice metodologia è direttamente discendente dall’impianto lineare della ricerca, in quanto il criterio di confronto esterno (i soggetti normali) è definito in partenza come tutti i soggetti con un profilo nel SCL90 non significativo; mentre il criterio di confronto interno (re-test sugli stessi pazienti) è dato dallo scarto nel corso dell’andamento della terapia. Come criterio comparativo per il confronto esterno è stato selezionato il piccolo campione di pazienti seguiti con Visite di Controllo ma senza effettuare sedute di psicoterapia.

campione

Il campione della ricerca è composto da due gruppi: uno di soggetti in trattamento psicologico e uno di controlli clinici.Il campione dei soggetti è composto da 27 pazienti con diagnosi di Attacchi di Panico con o senza Agorafobia (DSM IV) valutati con la SCID-P e II, e con il SCL90. Tali soggetti sono stati selezionati in base ad un criterio temporale (tutti quelli che in certo periodo seguivano la psicoterapia).Come gruppo di controllo clinico è stato utilizzato un campione di 31 pazienti in terapia farmacologica equivalente al regime farmacologico del campione sperimentale ma che seguivano visite di controllo mediche invece delle sedute di psicoterapia. Per il numero esiguo dei soggetti sperimentali e di controllo tale ricerca si pone più come uno studio pilota controllato che come uno studio di efficacia definitivo.

Alcuni esempi clinici

Paz. n. 11

F., 39 anni, impiegata statale, coniugata, con una figlia di 2 anni, ha manifestato attacchi di panico con agorafobia, ansia sociale, somatizzazioni, e depressione di grado lieve, per un periodo di 7 anni. Durante questi anni si è rivolta a 3 psichiatri assumendo la terapia farmacologica prescrittale, differente nei 3 diversi casi (1: antidepressivi triciclici, benzodiazedine; 2: benzodiazepine; 3: benzodiazepine, fluoxetina), ed a 2 psicologi con i quali ha svolto rispettivamente 3 mesi di colloqui di psicoterapia analitica, ed 1 anno e 4 mesi di psicoterapia ad orientamento esistenziale. Gli attacchi di panico sono sempre stati presenti nella sintomatologia della paziente, come pure gli evitamenti di tipo agorafobico. La riduzione delle performances e della qualità della vita sono state tali da far abbandonare alcuni comportamenti ed abilità cruciali per i suoi standards di vita (guida dell’auto, fare la spesa, andare da sola al lavoro, ...).La paziente ha chiesto di terminare gli incontri dopo circa 5 mesi di psicoterapia in quanto era soddisfatta degli obiettivi raggiunti.

Paz. n. 5

P., 32 anni, coniugata, diplomata, disoccupata, ha manifestato la sintomatologia di attacchi di panico con agorafobia e somatizzazioni per un periodo di 5 anni, rivolgendosi in questo periodo a 2 psichiatri, seguendo le prescrizioni psicofarmacologiche (antidepressivi triciclici, antidepressivi SSRI, benzodiazepine). Quando la paziente ha iniziato la psicoterapia aveva interrotto tutte le attività ricreative all’aria aperta, e le normali attività domestiche. Gli incontri psicoterapici sono durati per 7 mesi circa.

Paz. n. 22

M, 25 anni, studentessa universitaria, nubile, ha manifestato la sintomatologia ansiosa per 4 anni, consultando in questo periodo 1 psichiatra con il quale ha praticato terapia comportamentale (desensibilizzazione immaginativa) e benzodiazepine, ed uno psicologo con il quale ha praticato una terapia con il Biofeedback (EMG); ha abbandonato entrambi dopo circa 4-5 mesi di frequenza. Le consizioni della paziente al momento di inizio erano particolarmente drammatiche in quanto a causa degli attacchi di panico si recava spesso al Pronto Soccorso per un intervento di urgenza, qualcuno proseguito con il ricovero presso vari reparti (Psichiatria, Cardiologia, Medicina Generale, Neurologia). Ha effettuato gli incontri per circa 6 mesi, durante i quali ha mantenuto i risultati positivi dei primi mesi ed ha approfondito alcuni suoi temi disunzionali (Ansia Sociale).

Paz. n. 3

S, impiegato di 41 anni, coniugato, ha manifestato una sintomatologia di attacchi di panico con evitamenti agorafobici e rilevanti somatizzazioni, insieme a lievi sintomi di depersonalizzazione, derealizzazione e alterazioni della percezione. La condizione psicopatologica è rimasta stabile per circa 10 anni durante i quali il paziente si è rivolto a 3 psichiatri, seguendo le relative prescrizioni farmacologiche (antidepressivi triciclici, benzodiazepine, aloperidolo, levomepromazina). Il paziente si è rivolto anche ad uno psicologo per una psicoterapia ad orientamento analitico ed un training di rilassamento (T.A.). Dato il perdurare della sintomatologia acuta, il paziente ha interrotto sempre tutti i vari tentativi terapeutici. Nel periodo di inizio del trattamento, il paziente assumeva una modica quantità di benzodiazepine che poi ha deciso di interrompere dopo circa 15 giorni. Il trattamento è durato circa 18 mesi, con una focalizzazione, nella seconda parte, sui suoi aspetti personologici (tratti borderline ed istrionici).

Risultati

Il presente studio controllato ha dimostrato con un alto livello di significatività (p < 0.001) che il trattamento cognitivo - comportamentale è particolarmente efficace sui sintomi di ansia acuta, panico e agorafobia. In particolare, le valutazioni affettuate con il SCL90 hanno evidenziato che il profilo caratteristico dei pazienti con disturbo di panico ed agorafobia comprende una forte elevazione delle scale di Ansia Fobica, Ansia, Somatizzazione, e Depressione.Oltre a tali scale sono presenti anche altri raggruppamenti sintomatologi, che però hanno una minore intensità ed una maggiore variabilità. Il calcolo della deviazione dalla media ha rilevato che il piccolo gruppo di soggetti, sia sperimentali che di controllo, era rappresentato sufficientemente dal valore medio (ds media delle scale = 9.78); la scala più variabile è risultata essere la Ideazione Paranoide con una deviazione di 15.2 mentre la meno variabile è stata Ansia Fobica con una deviazione di 5.9. Il confronto tra i profili è ampiamente dimostrativo dell’effetto del trattamento sui soggetti del gruppo di controllo clinico. Lo studio ha coperto un periodo di oltre 90 giorni di valutazione con il SCL90, ma il trattamento in alcuni casi si è prolungato per successivi obiettivi che i soggetti erano propensi a proporre. Non si sono verificati attacchi di panico durante il resto del trattamento, né durante il corso delle procedure cognitivo - comportamentale dopo i primi 30 giorni.

Conclusioni

Il trattamento cognitivo - comportamentale si è dimostrato efficace in una vasta e corposa serie di ricerche sulla valutazione degli esiti delle psicoterapie cognitive e cognitivo - comportamentali e delle psicoterapie in genere (Hollon S.D., Beck A.T., 1994; Emmelkamp P.M.G., 1994; Barlow D.H. et al., 1988, 1989; Clark, 1986, 1991; 1991; Clark D.M., Salkovskis P.M. 1991; Kosko J, Barlow D.H., Toussinari. R.B., Cerny J., 1990; Mattick R.P., Andrews G., Hadze-Pavlovic D., Christensen H., 1990). L’approccio presentato in questo studio è cognitivo - comportamentale in quanto è composto, oltre ai classici interventi di ristrutturazione cognitiva, di procedure attive e sul campo, di esercizi e di allenamento; lo sfondo di tale approccio è più esattamente cognitivista "standard", nel significato correntemente utilizzato (Beck A.T., Emery G., 1985). Le applicazioni di tale approccio sono diverse ma, come è possibile dedurre da tale lavoro e da altri simili, è la caratteristica di essere "tailored" cioè tagliati su misura del problema (o del tipo generale di disturbo) a caratterizzarne maggiormente la tipologia; tale lavoro si è focalizzato proprio sul Disturbo da Attacchi di Panico con o senza Agorafobia.Riguardo questo disturbo sia l’approccio cognitivo (soprattutto Beck e collaboratori) e quello cognitivo - comportamentale (Barlow, Emmelkamp, Clark) sono stati da molti anni indicati come trattamenti di prima scelta, ed inoltre hanno coperto la gran parte degli studi sulle procedure efficaci nel settore dei disturbi d’ansia. Molti autori cognitivisti hanno sviluppato particolarmente il lavoro sulla ristrutturazione degli schemi disfunzionali in diverse modalità; ad esempio: come ricostruzione della storia di vita, come correzione di distorsioni cognitive di contenuto generale, come modificazione di atteggiamenti in seduta (hot cognition), come riduscussione e ridecisione di piani di scopi a medio e lungo termine, ed altri ancora.In un senso lievemente diverso altri autori cognitivisti hanno sviluppato il lavoro sui disturbi di ansia acuta come una specie di sintomo tra i tanti di organizzazioni di personalità specifiche (Sassaroli e Lorenzini, 1995) o tendenzialmente generali (Guidano, 1988; Bara, 1996; Reda, 1986). Il punto di vista del presente lavoro tende più specificamente a definire di disturbo acuto come il risultato di un meccanismo composto da diverse parti, e da certi meccanismi cognitivi (Mancini, 96) e tali aspetti specifici sono anche il target del trattamento; non si considera il panico come il precipitato di costrutti definiti (ad esempio "forte - attaccato versus debole - autonomo" o "vulnerabile" o anche "malato") ma si studia il meccanismo, composto spesso anche dalla presenza di tali costrutti o schemi, come non specifico di un modo di essere strettamente definito. In questo senso non si è tenuto conto, nel campionamento, della presenza di variabili più strettamente personologiche (il che può sempre essere fatto in futuro).Il disturbo da ansia acuta e panico può manifestarsi in diverse organizzazioni personologiche non per questo i soggetti sono "fobici" come cluster personologico (ad esempio il cluster C del DSM IV).Nel presente studio si è evidenziato tuttavia un andamento nello stile dei pazienti studiati, e tale caratteristica pur senza essere stata riportata tra i dati della ricerca può essere sintetizzato come segue: intolleranza alle difficoltà, minore capacità di tollerare punti di vista diversi (anche nelle discussioni), tendenziale assolutismo e perfezionismo nelle mete personali, stile sportivo ed attivo nella adolescenza. Tali caratteristiche, che non sono ovviamente dei tratti predisponenti nè delle stigmate personologiche, devono essere più dettagliatamente studiati ai vari livelli di descrizione della psicopatologia: da tali dati potrebbe derivarne anche una smentita del presente punto di vista.

Bibliografia

 

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Gli interventi psicologici preventivi: dalla psicoterapia alla psicoeducazione.

di Gian Luigi Dell’Erba


 

1.Introduzione

 

Gli interventi sulla prevenzione psicologica primaria sono spesso stati definiti in modo ambiguo e vago sia per la intrinseca difficoltà a definirne gli ambiti specifici che per la rarità di interventi autenticamente progettati per essere preventivi rispetto a disturbi psicologici o a condizioni di disagio generalmente inteso.Molto importante è il problema di come si possa fare prevenzione psicologica primaria; questo argomento tocca il problema della educazione, in particolare della educazione della famiglia, e degli interventi psico-educativi nella scuola, e riguarda anche il problema del modo in cui possono essere veicolati quegli strumenti educativi di intervento attivi sui processi psicologici del soggetto, ma anche del modo in cui possono riguardare gli interventi di prevenzione delle ricadute dopo un trattamento psicologico, ad esempio dopo una psicoterapia.Classicamente, la prevenzione psicologica è stata spesso attuata tramite interventi di educazione o trasmissione di informazioni relative a tematiche particolarmente centrali, tra cui la sessualità, i rapporti tra amici, i rapporti genitori-figli, le norme ed il comportamento sociale. Molti di tali interventi sono caratterizzati da seminari o discussioni in classe con gli alunni della scuola.Altre forme di prevenzione psicologica sono pensabili attraverso la più generale educazione alla salute nelle scuole dove sono trattati argomenti di ampio interesse per l’educazione al benessere psicofisico. Infatti, varie forme di prevenzione psicologica sono state progettate come interventi tesi allo sviluppo di abilità di ragionamento o problem-solving, al fine di potenziare le capacità del soggetto nel fronteggiare le difficoltà, adattarsi con più successo, e raggiungere più facilmente i propri scopi.Certamente, con il termine prevenzione si è spesso confuso un intervento specifico di educazione generale e primaria con interventi più mirati alla riparazione o gestione di situazioni già problematiche sia per il soggetto che per un contesto più allargato e sociale (ad esempio, un gruppo-classe).Tali interventi sul problema sono spesso chiamati "prevenzione secondaria" in quanto sono mirati a gruppi di soggetti che manifestano elementi del problema o che sono coinvolti più generalmente nel problema definito; in questo specifico ambito l’obiettivo principale è ridurre l’ampiezza e limitare gli esiti del problema individuato. Dunque, a questo livello di analisi, può esserci una ulteriore confusione rispetto agli obiettivi pratici degli interventi preventivi: se da una parte gli "elementi-bersaglio" sono comportamenti o atteggiamenti di base da incrementare per gestire in modo migliore un condizione "a rischio", dall’altra gli elementi individuati come problema, cioè devianti o clinici, possono essere condizioni anch’esse di base, e costituire fattori favorenti una evoluzione disadattiva (condotte devianti, problemi psicopatologici). Per riassumere, se l’intervento preventivo secondario riduce l’ampiezza di un problema esistente e l’intervento diretto sul problema mira a risolverlo, spesso le due cose possono coincidere. Un esempio immediato di tale situazione può essere un intervento in una classe di alunni dove l’obiettivo è quello di intervenire sul problema di un alunno parlando a tutta la classe: è evidente che lo scopo di un intervento di questo tipo è duplice anche se il mezzo è unico.Un altro aspetto fondamentale è stabilire se un intervento preventivo psicologico sia più efficace se indirizzato direttamente ai soggetti in forma di discussione, seminari o letture oppure se attuato indirettamente attraverso la formazione delle figure significative che interagiscono con il soggetto (docenti, genitori, ...). In questo secondo caso, ad esempio, l’intervento preventivo prende le forme di una formazione di adulti che interagiscono in modo adeguato riducendo quei fattori predisponenti il disadattamento: l’esempio più diretto è l’influenza sullo stile di attaccamento e sulle relazioni precoci tra genitori e figli oppure l’influenza sull’atteggiamento educativo riguardo all’apprendimento di regole e norme sociali.Il punto centrale resta il seguente: gli interventi preventivi in psicologia sono informazioni che il soggetto elabora, ed in base a tale elaborazione egli attiva o modifica una certa condotta. In sostanza, questi interventi si occupano di fornire conoscenze, utili e pratiche, mirate al potenziamento della capacità di adattamento del soggetto e del raggiungimento dei suoi scopi.Tutti questi interventi di tipo preventivo possono riguardare alcuni punti chiave nella organizzazione mentale del soggetto, ed in particolare riguardano la organizzazione di alcuni concetti, di alcune assunzioni e credenze in generale, ed alcune nostre teorie del senso comune, alcune nostre abitudini nell’affrontare, fronteggiare e giudicare alcuni aspetti della nostra realtà, del nostro mondo, dell’avere a che fare con le persone, delle nostre relazioni sociali, e anche delle relazioni riguardo noi stessi.In breve, queste abilità possono essere denominate come "abilità metacognitive"; con tale termine si vogliono indicare quelle abilità di sviluppo ed uso del nostro essere coscienti, del nostro essere consapevoli del fatto che in dati momenti funzioniamo in un certo modo, cioè dell’essere consapevoli del nostro stesso funzionamento mentale (e di alcuni importanti contenuti e processi).Queste abilità metacognitive permettono all’individuo di auto-regolarsi, di autocorreggersi, e così assumere degli atteggiamenti e strategie di fronteggiamento e risoluzione dei problemi della vita, in particolare della nostra vita quotidiana.Prima di dedicarci ad alcuni fattori cognitivi presenti negli interventi preventivi, cerchiamo di schematizzare il campo psicologico di intervento attraverso la definizione di alcuni concetti della psicologia della personalità e della condotta, in un modo che sia direttamente utile per le applicazioni in psicologia della educazione e della formazione.

 

2. La psicologia della personalità e le abilità del soggetto

Le abilità sono gli strumenti del soggetto in base ai quali egli acquisisce i suoi scopi. Alcune abilità sono possedute dalla nascita e permettono al soggetto di sopravvivere e crescere. Altre abilità sono apprese. Lo sviluppo del soggetto è centrale in quanto durante esso si acquisiscono le conoscenze, si formano i principali atteggiamenti, si stabiliscono alcune importanti abitudini, e si apprendono alcune abilità principali. Tra le diverse capacità del soggetto ricordiamo alcune principali abilità che si acquisiscono nello sviluppo:

- abilità di auto-organizzazione

- abilità di fare e mantenere le amicizie

- abilità di riconoscere ed esprimere le emozioni

- abilità di gestione della rabbia

- abilità di gestione dello stress.

Tali abilità si formano durante la crescita del soggetto e possono indicare se un individuo è capace di acquisire i propri scopi oppure incontra alcune difficoltà.Le caratteristiche fondamentali del soggetto possono essere brevemente riassunte in alcuni aspetti centrali:

- funzionamento dell’organismo

- carattere ed abitudini di base:

- estroversione/introversione

- amicizia/ostilità

- coscienziosità/superficialità

- stabilità emotiva/instabilità

- apertura mentale/dogmatismo

- sistemi di conoscenza: credenze, desideri, motivazioni, intenzioni, progetti, teorie personali

- abilità sociali e competenza interpersonale.

Comunemente, ci si riferisce ad alcuni concetti che sinteticamente riassumono importanti aspetti del funzionamento dell’individuo. Di seguito sono riassunti alcuni di questi fondamentali aspetti del soggetto.

 

2.1. La Personalità

Con il termine Personalità ci si riferisce a modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell’ambiente e di se stessi, che si manifestano in un ampio spettro di contesti sociali e personali. Questi modi costanti di essere, chiamati Tratti di Personalità, possono essere diversi, e solo quando essi sono particolarmente Rigidi e Non Adattivi, e quindi causano al soggetto una compromissione significativa del proprio funzionamento e una stabile sofferenza, sono definiti come Disturbi di Personalità. Le principali componenti della personalità sono le seguenti: estroversione/introversione, amicizia/ostilità, coscienziosità/superficialità, stabilità emotiva/instabilità, apertura mentale/dogmatismo.Per aspetti più pratici, clinici e diagnostici varie combinazioni di questi tratti sono state raggruppate in tre categorie molto generali:

A) isolamento, impermeabilità, freddezza, bizzarria, imprevedibilità

B) insistenza, drammaticità, manipolazione, esplosività, instabilità emotiva

C) evitamento, ansia, insicurezza, dipendenza.

Ognuno di questi gruppi comprende a sua volta altre distinzioni più specifiche.

Questi aspetti di base si manifestano attraverso modi di pensare e di comportarsi in diversi contesti. Gli aspetti della personalità si manifestano in specifici modi di pensare. Le diverse modalità di essere possono essere schematicamente riassunte in un profilo di personalità costituito dai diversi tratti.Generalmente, e per scopi più pratici, la personalità può essere studiata attraverso specifiche tendenze di pensiero e di comportamento:

- credenze e desideri su sé stessi

- credenze e desideri sugli altri

- credenze e desideri sul mondo esterno.

Questi aspetti hanno delle interessanti applicazioni nel settore della psicologia del lavoro, nel marketing, nello sport, nelle relazioni pubbliche, nella scuola, oltre che una consolidata applicazione nella psicologia clinica.Uno degli aspetti più conosciuti di queste applicazioni, qui più volte ripreso, è quello relativo alla attribuzione soggettiva delle cause degli eventi. Vi sono soggetti che attribuiscono sistematicamente il controllo degli eventi a cause esterne mentre altri lo considerano stabilmente all’interno di sé stessi. Questa differenza è alla base del tratto di personalità pessimistico e ottimistico. La valutazione di tale tratto è solitamente alla base dei programmi di selezione in ambito scolastico, lavorativo e sportivo, e permette di fare delle previsioni sull’andamento dei soggetti nei loro compiti. Gli psicologi che si occupano di questi aspetti solitamente forniscono anche dei programmi di modificazione di questo tratto (pessimismo-ottimismo) per il più adeguato inserimento nel proprio contesto e una più efficiente acquisizione dei propri obiettivi.La condotta dei soggetti e le relative aspettative che essi hanno di essere efficaci oppure di rischiare dei fallimenti (autoefficacia percepita) è la caratteristica di personalità forse più studiata dalla psicologia applicativa. Se un soggetto ha una aspettativa positiva oppure reagisce bene ad un fallimento probabilmente avrà un specifica modalità di valutare gli effetti e le cause di ciò che gli capita; viceversa, se un soggetto si aspetta di fallire o svaluta i propri successi la modalità di affrontare effetti e cause sarà l’opposto.Dallo studio della personalità si può derivare lo studio delle motivazioni individuali. Per motivazione si intende la presenza di uno scopo, di un obiettivo, di una meta che il soggetto si rappresenta nella propria mente. Qualche volta, ed in alcuni casi, gli individuo possono avere degli scopi in contrasto nella loro mente, e che perseguono contemporaneamente; questo, tuttavia, conduce al blocco dei propri progetti come anche alla paralisi del comportamento. Perseguire scopi incompatibili è un paradosso, ma purtroppo ciò è molto comune. Diversi individui soffrono intensamente ma nondimeno perseguono scopi impossibili. Vi sono alcuni scopi che nessun individuo può realizzare, e sebbene questi scopi possono sembrare alla nostra portata non lo sono affatto. Alcune cause di disturbi psicologici, del comportamento e delle relazioni interpersonali possono essere indicate appunto in questi scopi paradossali. Alcuni di questi scopi sono i seguenti (Dell’Erba, 1998a):

1) voglio X e non riesco ad averlo: in tale proposizione il soggetto si confronta con un obiettivo (X) che non può perseguire; il soggetto può recedere e rinunciare a tale scopo finale, oppure non rinunciando può insistere e restare bloccato, a volte non riuscendo a giustificare la situazione in cui pur volendo qualcosa a volte non la otteniamo.

2) voglio X e voglio Y e non riesco ad averli insieme: il soggetto non riesce o non vuole scegliere; questo vale solo per le mete incompatibili, quindi deve essere visto se due obiettivi sono in realtà incompatibili; il soggetto è bloccato in quanto non assegna una priorità.

3) non voglio sentirmi in modo X: tale proposizione si riferisce alla impossibilità di agire ad un livello diverso di quello intenzionale, in quanto pur non desiderando avere una certa sensazione di fatto l’abbiamo; il soggetto può agire in vari modi per creare le condizioni favorevoli per ridurre o impedire un certo stimolo non intenzionale ( C), ma di fatto non può farlo direttamente; spesso è non perseguendo tale scopo che lo stimolo si riduce o si risolve.

4) voglio X ma dovrei volere Y: il soggetto pur desiderando un certo obiettivo, valuta negativamente questo fatto in quanto ha delle assunzioni generali nelle quali un certo obiettivo (X) è o incompatibile o almeno indesiderabile; il soggetto si trova in conflitto tra un desiderio specifico e una teoria generale, e non riesce ad articolare né i casi particolari o eccezioni, né è in grado o desidera modificare parte della teoria.

5) Voglio X anche se non posso avere X: se il soggetto non crede all’effetto invalidante e negativo delle proprie azioni allora può insistere anche contro l’evidenza plateale che un certo X, di fatto, non lo raggiunge; è possibile che un soggetto ignori il risultato di certe proprie azioni o non desidera verificarne l’effetto, e dunque tende, per principio, a continuare nella direzione stabilita; in alcuni casi il soggetto può insistere perché non altro davanti, non può scegliere nulla ("vorrei vivere anche se so che non posso più continuare a vivere"), ma in questo caso il soggetto può desiderare liberamente X anche se conosce la propria mancanza di potere su X e quindi non punta tutto sull’insistenza.

6) non posso fare a meno di X: il soggetto crede che X sia tutto, o sia un bene indispensabile, o un mezzo insostituibile; è il caso della indispensabilità, nella quale il soggetto non vede l’alternativa; spesso il soggetto ha delle convinzioni generali, altre volte ha delle credenze specifiche che ha costruito in esperienze concrete specifiche e particolari, ed in base a tali valutazioni ed inferenze crede che quelle aspettative che ha siano l’unico volto possibile della realtà.

7) non voglio essere X (o non voglio avere un "tratto" X): il soggetto si pone lo scopo di essere in un certo modo non badando al fatto che ciò che a volte significhiamo con alcuni termini personologici e caratteriologici è in sostanza il resoconto del giudizio di altri (educato, sensibile, onesto, comprensivo, simpatico, spontaneo, ...); da alcuni è definito "effetto Stendhal", il quale, come si sa, voleva diventare completamente spontaneo in società.

8) non voglio credere X: le credenze non sono intenzionali, quindi non possono essere oggetto di scelta; tuttavia, molti pazienti rifiutano molte credenze e constatazioni sulla base delle conseguenze che queste conoscenze comporterebbero secondo proprie assunzioni e schemi; i tentativi di rifiutare conoscenze che gli stessi soggetti hanno avuto modo di percepire è sempre un problema complesso; molti autori tendono a non trattare tali rifiuti come inconsapevolezze complete ma come tentativi continui di bloccare, interferire, e deviare i processi attentivi su altre conoscenze più neutrali.

9) non voglio che S sia X: qualcuno crede che il nostro potere sia anche quello di influire direttamente sugli altri, ma ciò non è di fatto possibile; dunque, i soggetto si pone lo scopo volere che qualcun altro sia fatto in un certo modo, o si comporti in qualche particolare modo, ma resta deluso; pur potendo desiderare che qualcuno o altri siano come ci piace o come vorremmo, le persone sono tali al di là della nostra volontà e del nostro desiderio.

 

            10) non voglio che S creda X (o voglio che S creda Y): è il più comune paradosso che le persone attivano nelle relazioni interpersonali; tale proposizione è la base di tutte le fobie sociali, di tutte le timidezze, di ogni forma di dipendenza dagli altri e di sottomissione, di tutte     le subordinazioni comuni che gli individui attivano, e delle quali si lamentano sia direttamente sia riguardo i loro effetti; pur potendo desiderare un giudizio favorevole o positivo dagli altri il soggetto non può pretenderlo, pena l’effetto paradossale della bizzarria della stessa richiesta; il soggetto può attivare tutte le condizioni in suo potere che possono favorire un giudizio positivo (comportarsi  simpaticamente o benevolmente, essere generosi, aiutare, sorridere, ...) ma alla fine l’effetto non è mai scontato perché il proprio comportamento non agisce direttamente sulle libere opinioni degli altri.Lo scopo di perseguire questi obiettivi non può che portare a soffrire, come anche a far soffrire le persone che ci sono vicine.

 

2.2. L’assertività

L’assertività è quella capacità del soggetto di mantenere il perseguimento attivo dei propri scopi. E’ quel tratto della personalità che è caratterizzato da tenacia, costanza, chiarezza, sicurezza, impegno, attenzione, disponibilità. I soggetti assertivi acquisiscono i propri scopi mantenendo attiva la propria meta e la direzione della propria azione. Certamente, è importante distinguere la tenacia dalla testardaggine; infatti, i soggetti che rigidamente perseguono lo stesso scopo anche contro una ragionevole evidenza del contrario non sono assertivi ma testardi, e talvolta ostili, aggressivi, predatori, antisociali. Quindi, la assertività è quella capacita di dirigere il proprio comportamento verso la propria meta non trascurando però le informazioni che provengono dal nostro ambiente e le informazioni che noi stessi possediamo. Teoricamente possiamo distinguere i soggetti in:

- assertivi

- anassertivi (passivi, evitanti, timorisi, insicuri, dubbiosi)

- aggressivi

I soggetti assertivi possono essere riconosciuti non solo dalle proprie motivazioni espresse e dalla comunicazione delle proprie credenze, ma anche dal comportamento non verbale. I gesti, la posizione abituale del corpo, la postura durante le interazioni sociali, le espressioni facciali e la mimica, la direzione dello sguardo, sono tutti indicatori di tratti della personalità del soggetto. Questi indicatori sono segnali di quanto avviene all’interno della mente del soggetto, e segnalano appunto le abitudini e gli atteggiamenti più stabili e consolidati. Infatti, un soggetto può dichiararsi amichevole ma essere smascherato come ostile proprio a causa del proprio comportamento non verbale; oppure un individuo può negare un fatto ma segnalare involontariamente che sta mentendo. Numerosi psicologi addestrano soggetti al potenziamento della propria capacità di comunicare attraverso programmi centrato sul linguaggio non verbale; questi strumenti, attualmente, sono molto usati nelle abilità di persuadere e motivare gli altri, abilità che hanno una applicazione sempre più intensa e generale.La assertività è un aspetto particolare sia della organizzazione della propria personalità, cioè del proprio particolare profilo di tratti personali, come anche costituisce una applicazione specifica della organizzazione delle proprie motivazioni.Le motivazioni (o bisogni, o motivi, o impulsi, o scopi, o obiettivi) sono gli aspetti energetici dell’essere umano in quanto tramite i propri scopi l’individuo cresce, apprende, costruisce, ricorda, si impegna e così via. Le motivazioni possono essere sintetizzate in molti modi, uno dei quali è il seguente (McClelland, 1985):

- bisogno di riuscita

- bisogno di affiliazione

- bisogno di potere.

Il bisogno di riuscita è la caratteristica più emergente delle società industriali, ed esprime bene il carattere centrato sui risultati concreti del comportamento di un soggetto. La motivazione a riuscire si pone all’origine delle principali realizzazioni individuali, ed ispira gran parte del sistema educativo e delle organizzazioni che sono deputate a trasmettere conoscenza. Questo bisogno ha come obiettivo il desiderio di eccellere, ed ha come caratteristica propria l’evitamento del fallimento (paura del fallimento). Un individuo spiccatamente centrato su esso avrà il piacere di riuscire, un senso di competenza che gli deriva dal mettersi alla prova, e dalla inclinazione verso il fare le cose nel migliore modo possibile. Solitamente, il soggetto si impegna con puntualità, tenacia, e responsabilità.Il bisogno di affiliazione è la caratteristica più spiccatamente sociale in quanto ispira il comportamento di socializzazione, di aiuto, di supporto. Questa motivazione determina un orientamento verso la particolare considerazione nei confronti del giudizio altrui. Il soggetto orientato verso questa inclinazione attribuisce molta importanza al giudizio degli altri, cerca di farsi ben volere, intrattiene relazioni particolarmente affabili e calde con le altre persone, ama essere protetto o proteggere, ed è spiccatamente orientato a farsi accettare dal proprio gruppo (di lavoro, di riferimento, familiare, amicale, ecc.). Il soggetto con forti inclinazioni in questa motivazione tenderà ad evitare il rifiuto da parte degli altri (paura del rifiuto).Il bisogno di potere è la caratteristica motivazionale più centrata sul dominio, sul potere, sulla gerarchia, sull’uso della manipolazione. Questa caratteristica è centrale nelle organizzazioni di lavoro, non per questo aggressive, dove è determinante la diversità di responsabilità, di mansioni, di interessi, di potere. Un soggetto centrato su questo aspetto sarà interessato ai punti deboli degli altri così da poterli controllare e manipolare secondo le proprie esigenze; inoltre, egli potrà avere spesso un atteggiamento diffidente e sospettoso. Un individuo incline alla motivazione al potere tenderà ad evitare la dipendenza (paura della dipendenza).

 

2.3. La Comunicazione Interpersonale

Vi sono diverse teorie che definiscono i vari aspetti della comunicazione; alcune di esse prendono in considerazione la comunicazione tra strumenti e ne analizzano la tecnologia; altre esaminano la comunicazione sociale, sia tra soggetti che tra animali; altre teorie prendono in considerazione gli aspetti esterni, stilistici, osservativi, mentre altre analizzano gli aspetti di contenuto, proposizionali, linguistici, logici.Per sintetizzare, possiamo definire la comunicazione come un comportamento complesso orientato definito da una fonte di trasmissione, un messaggio, un canale di trasmissione, una base di ricezione, dalla presenza di strumenti di decodifica, ed infine dalla presenza di rumore e disturbo del segnale.In questo schema devono essere definiti gli aspetti sia formali sia impliciti. Gli aspetti formali sono costituiti dalla descrizione osservativa della comunicazione; gli aspetti impliciti sono costituiti dalle intenzioni dei due partecipanti alla comunicazione. Chi trasmette un segnale può non farlo intenzionalmente, mentre chi riceve un segnale può attribuire intenzioni errate nei confronti di chi ha trasmesso. In alcune tipologie di comunicazione (ad esempio non verbale) non è sempre possibile chiedere una conferma, quindi è sempre possibile mettere in atto degli errori di decodifica e di interpretazione; le comunicazioni importanti devono sempre avere dei dispositivi di conferma anche se la comunicazione può essere ripetitiva ed appesantita (ridondante).Classicamente, si può distinguere tra le tipologie della comunicazione una comunicazione verbale in:

- descrittiva: quello che si dice serve a descrivere qualcosa;

- valutativa: quello che si dice serve a giudicare un qualcosa;

- ingiuntiva: quello che si dice serve a far fare qualcosa a qualcuno.

E’ di fondamentale importanza imparare a riconoscere queste differenze sia in quello che noi diciamo agli altri che in quello che gli altri dicono (sia a noi che ad altre persone). La scarsa capacità di "sintonizzarsi" sull’esatta caratteristica della comunicazione porta ad importanti equivoci che se possono essere fonte di umorismo (in realtà questa è una delle basi dell’umorismo e della comicità) può anche determinare danni e sofferenze di rilevante entità.Un aspetto della comunicazione è quella definita "metacomunicazione" ed ha come contenuto la stessa comunicazione, o una sua parte. Ad esempio, un soggetto descrive un fatto, e di seguito commenta e giudica il suo stesso racconto, il modo come lo ha espresso. Questo elemento della comunicazione è positivo in quanto segnala il fatto che gli individui riflettono su sé stessi, ma può essere una fonte di disturbo quando i commenti non sono coerenti ed adattati al contesto particolare della situazione comunicativa. Infatti, metacomunicare accorcia le "distanze" tra le persone, e spesso può rendere la comunicazione più "intima" e più ravvicinata, cosa che non è sempre gradita e opportuna. La metacomunicazione è a volte causa o innesco di litigi e discussioni. A volte, al contrario, la abilità metacomunicativa è il fattore che può risolvere un conflitto tra persone.Lo stile della comunicazione dipende direttamente dai tratti di personalità del soggetto, ma una tipologia può essere schematizzata come segue:

1) dominante;

2) compiacente

3) estroverso

4) isolato.

Sono riconoscibili le posizioni intermedie quali: 1+3: consiglia, coordina, comanda, dirige, promuove; 1+4: analizza, critica, disapprova, condanna, si oppone; 2+3: sopporta, approva, collabora, è servizievole; 2+4: evita, concede, rinuncia, indietreggia, si ritira.

 

2.4. Problem Solving

I problemi sono o situazioni nuove che richiedono comportamenti nuovi o situazioni per cui non si hanno soluzioni soddisfacenti. Quando non possiamo rispondere ad una domanda usando la nostra informazione contenuta nella memoria, o quando non possiamo comportarci in una situazione come abbiamo fatto l’ultima volta o di solito, allora siamo di fronte ad un problema.Alcuni problemi sono difficili da risolvere perché "ci mettono", o ci mettiamo da soli, su una pista sbagliata. Quando ciò succede si dice comunemente che vi è una impostazione negativa. Altri problemi, invece, sono difficili perchè richiedono una impostazione molto poco probabile nella media dei ragionatori, e per cui è necessario comporre i dati in modo insolito e creativo (vedremo più avanti).La capacità degli esseri umani a risolvere i problemi che incontrano e che si oppongono alla acquisizione dei propri scopi è una caratteristica specifica e basilare; senza di essa non saremmo sopravvissuti. La specifica abilità nella risoluzione di problemi è una caratteristica molto individuale e può variare da soggetto a soggetto. Non possiamo affermare che i soggetti risolvono problemi tutti nello stesso modo, né si può affermare che tutti i problemi sono della stessa natura. Tuttavia, possiamo indicare una traccia generale che è una direzione logica della nostra mente, una sequenza naturale, una esigenza specificamente determinata del funzionamento mentale. Naturalmente, non tutti i soggetti hanno lo stesso grado di abilità nello sviluppo della funzione di analisi, organizzazione e risoluzione di problemi. La sequenza che segue è orientata sull’analisi mezzi-fini della condotta.L’analisi razionale della condotta orientata allo scopo assume una struttura graduale, con passi che causalmente conducono all’obiettivo.

- Il primo passo è quello della definizione o indicazione dell’obiettivo : voglio X. Questo passo può o può non avere i criteri di realismo e coerenza, come abbiamo già osservato (paradossi e scopi impossibili).

- Il secondo passo è quello della valutazione personale della conoscenza dei mezzi utili per acquisire la meta: posso averlo? Anche questo passo è sensibile a distorsioni ed irrazionalità.

- Il terzo passo indica la eventuale riformulazione della meta o del piano orientato allo scopo, cioè il soggetto si adegua al proprio potere per l’acquisizione della meta o per l’acquisizione del potere necessario aggiuntivo: allora, voglio Y.

- Il quarto passo è la esperienza passata o memoria della meta stessa, cioè se il soggetto ha già sperimentato l’acquisizione dell’obiettivo: conosco Y? Ciò è essenziale per gli ovvi motivi della adeguata rappresentazione sia della meta che dei mezzi.

- Il quinto passo è quello relativo alla conoscenza dello stato finale, cioè se il soggetto ha un criterio adeguato per riconoscere l’avvenuta acquisizione dello stato desiderato: so riconoscere Y? E’ evidente qui che la mancanza del criterio di "stop" perpetua il comportamento di acquisizione all’infinito.

Vari ricercatori hanno messo in luce che quanto più efficaci si è nel risolvere problemi (di vario tipo) tanto più è stata di aiuto una buona rappresentazione del problema.Un problema viene compreso, e quindi risolto, sulla base di ciò su cui è rappresentato (modello), anche se questo limita la possibilità di altre rappresentazioni.Così come si definisce il metodo scientifico così anche si definisce il comportamento risolutorio dell’individuo:

- il soggetto nota un problema ed è motivato a risolverlo;

- egli formula delle ipotesi e compie dei tentativi che possono essere casuali o mirati sulla base delle proprie ipotesi;

- il soggetto nota quali tentativi sono sbagliati e gli elimina e parimenti nota cosa funzione e lo ripete;

- l’individuo formula un modello o una teoria che renda conto degli errori e dei tentativi esatti;

- egli ora si baserà su questa teoria fino a quando sarà messa in crisi da nuovi problemi.

Sulla base dei concetti della psicologia della personalità e della condotta esaminiamo le possibili applicazioni preventive alla luce dei contribuiti incrociati tra psicologia generale contemporanea e psicologia clinica cognitivista.

3. Il Modello ABC della condotta

3.1. Gli aspetti generali

A questo proposito si può fare riferimento al cosiddetto "modello ABC" della psicoterapia cognitiva, il quale appare un modello semplice ed utile per studiare i processi e gli accadimenti delle nostre reazioni emotive e comportamentali, nonché le nostre attività cognitive, i nostri processi di pensiero e di giudizio, e quindi tutto il funzionamento psicologico del soggetto; questo ci da la possibilità di spiegare il comportamento, ed in generale la psicologia dell’individuo in quei determinati momenti che possono risultare problematici.Il "modello A-B-C", ben descritto nei lavori di Ellis (primariamente) e Beck (in seguito), è la caratteristica sia teorica sia tecnica che funge da "minimo comune denominatore" dei diversi trattamenti cognitivistici (Dell’Erba, 1998b).Il modello ABC non solo è uno schema teorico utile per concettualizzare le variabili fondamentali connesse alla condotta dell’individuo ma è anche una procedura tramite la quale può essere concretamente attuata una valutazione, una formulazione del caso, una sua pianificazione, ed un trattamento.L’ABC può essere immaginato come uno schema a tre colonne, la prima delle quali, A, identifica le condizioni antecedenti, gli stimoli, gli eventi. Il B indica le credenze, il pensiero, il ragionamento, le attività mentali che hanno come oggetto gli antecedenti. Il C definisce le conseguenze di queste attività mentali ed identifica reazioni emotive e comportamentali (Ellis, 1994, 1987; De Silvestri 1981a; Dell’Erba, 1998a).L’aspetto centrale dell’interesse cognitivista per il funzionamento mentale riguarda la distinzione delle attività e dei processi cognitivi rappresentati e focalizzati dal B; classicamente sono prese in considerazione le seguenti attività psichiche: immagini, inferenze, valutazioni, assunzioni personali, schemi.Le immagini, che sono attività dove le funzioni sensoriali e mnestiche svolgono un ruolo fondamentale, sono prese in considerazione in quanto parte integrante delle rappresentazioni soggettive riguardanti la interpretazione di un dato evento. Le immagini riflettono direttamente il senso attribuito dal soggetto ad un dato evento ed il contributo dei processi di elaborazione più automatici (regole, assunzioni personali, inferenze).Le inferenze sono ipotesi che attengono alla presenza o assenza di condizioni fattuali, cioè di eventi attesi nel A. Alcune inferenze sono elaborate in modo quasi-automatico, e quindi il soggetto non ne è immediatamente cosciente, tanto che Beck le ha definite "pensieri automatici". Le inferenze sono, dunque, anche "predizioni" su ciò che accadrà, sta’ accadendo o è accaduto; ad ogni evento il soggetto attribuisce delle caratteristiche e delle cause, ma tali attribuzioni sono guidate dalla propria base conoscitiva.Proprio riguardo ai processi inferenziali sono state definite varie tipologie di errori inferenziali che possono riguardare sia le caratteristiche dello stimolo sia le sue determinanti. Alcuni errori cognitivi tipicamente considerati nella Psicoterapia Cognitiva sono le "distorsioni cognitive" che riguardano il processo di elaborazione dei dati (eventi, fatti, sintomi, pensieri), e attengono alla attribuzione soggettiva di dati che "vanno oltre l’evidenza dei fatti" (Johnson Laird, 1993; Girotto, 1994). Come ha evidenziato Beck (Beck et al., 1976; Alford, Beck, 1997), le distorsioni cognitive sono influenzate dall’umore ma, a loro volta, lo influenzano intensamente. Tali errori cognitivi, così come definiti dalla Cognitive Therapy di Beck, sono i seguenti:

 

Pensiero dicotomico: le cose sono viste in termini di categorie mutualmente escludentisi senza gradi intermedi. Ad esempio, una situazione o è un successo oppure è un fallimento; se una situazione non è proprio perfetta allora è un completo fallimento. ("o tutto o nulla").

Ipergeneralizzazione: anche definito come "globalizzazione"; uno specifico evento è visto come essere caratteristica di vita in generale o globale piuttosto che come essere un evento tra tanti. Ad esempio, concludere che se qualcuno ha mostrato un atteggiamento negativo in una occasione, non considera poi le altre situazioni in cui ha avuto atteggiamenti più opportuni. ("di tutta l’erba un fascio").

Astrazione selettiva: Un solo aspetto di una situazione complessa è il focus dell’attenzione, a altri aspetti rilevanti della situazione sono ignorati. Ad esempio, focalizzare un commento negativo in un giudizio sul proprio lavoro trascurando altri commenti positivi. ("bicchiere mezzo vuoto").

Squalificare il lato positivo: le esperienze positive che sono in contrasto con la visione negativa sono trascurate sostenendo che non contano. Ad esempio, non credere ai commenti positivi degli amici e colleghi dubitando che dicano ciò solo per gentilezza. ("ciò non conta nulla, conta di più ... ").

Lettura del pensiero: un soggetto può sostenere che altri individui stiano formulando giudizi negativi ma senza alcuna prova evidente di ciò che afferma. Ad esempio, affermare di sapere che l’altro ci giudica male anche contro la rassicurazione di quest’ultimo. ("ti ho già capito").

Riferimento al destino:: l’individuo reagisce come se le proprie aspettative negative sugli eventi futuri siano fatti già stabiliti. Ad esempio, il pensare che qualcuno lo abbandonerà, e che lo sa già, e agisce come se ciò fosse vero. ("lo so già"). Insieme al precedente formano il "salto alle conclusioni", cioè il caso esemplare di inferenza arbitraria.

Catastrofizzare:: gli eventi negativi che possono verificarsi sono trattati come intollerabili catastrofi piuttosto che essere visti in una prospettiva più pratica e moderata. Ad esempio, il disperarsi dopo un brutta figura come se fosse una catastrofe terribile e non come una situazione semplicemente imbarazzante e spiacevole. ("è terribile se...).

Minimizzazione:: le esperienze e le situazioni positive sono trattate come reali ma insignificanti. Ad esempio, il pensare che in una cosa si è positivi ma che essa non conta in confronto ad un’altra più importante. ("niente conta veramente di quello che faccio").

Ragionamento emotivo:: considerare le reazioni emotive come reazioni strettamente attendibili della situazione reale. Ad esempio, concludere che siccome ci si sente sfiduciati, la situazione è senza speranza. ("se mi sento così allora è vero"). 5

Doverizzazioni::l’uso di "dovrei", "devo", "bisogna", si deve", segnala la presenza di un atteggiamento rigido e tendente alla confusione tra "pretendere" e "desiderare", e ciò è in diretta connessione con regole personali. Ad esempio, il pensare che un amico deve stimarci, perchè bisogna stimare gli amici. ("devo ...", "si dovrebbe ...", "gli altri devono ...").

Etichettamento:: identificare qualcuno tramite una etichetta globale piuttosto che riferirsi a specifici eventi o azioni. Ad esempio, il pensare che si è un fallimento piuttosto che si è inadatti a fare una certa cosa. ("è un .....").

Personalizzazione: assumere che il soggetto stesso è la causa di un particolare evento quando nei fatti, sono responsabili altri fattori. Ad esempio, considerare che una momentanea assenza di amicizie è il riflesso della propria inadeguatezza piuttosto che un caso. ("è colpa mia se...").

Tali errori cognitivi non sono tipici di un disturbo psicologico ma sono invece diffusi e caratteristici nel funzionamento mentale normale. L’aspetto disfunzionale è determinato dalla compresenza di più errori, dalla frequenza di comparsa e dal grado in cui tali procedure sostituiscono il ragionamento realistico e funzionale del soggetto. In sintesi, le distorsioni cognitive sono euristiche di ragionamento che svolgono una funzione adattiva in situazioni di emergenza e, probabilmente, non più adeguate allo stile di vita contemporaneo (essendo modalità automatiche possono in qualche modo essere state sviluppate evoluzionisticamente, ma attualmente potrebbero essere un esempio di "deriva evoluzionistica").Vari autori hanno approfondito le modalità di ragionamento in condizioni di incertezza (Kanheman, Slovic, Tversky., 1982; Piattelli Palmarini, 1993, 1994; Nisbett, Ross, 1980; Girotto, 1994; Dell’Erba, 1998c), e tali condizioni sarebbero centrali in stati di attivazione dei soggetti (stress, condizioni cliniche, ...). Dalle diverse ricerche nel campo della influenza di variabili contestuali, o di fattori emotivi, sul ragionamento emergono diverse tipologie di biases cognitivi, spesso dipendenti dallo specifico obiettivo della ricerca; il minimo comune denominatore di tali errori cognitivi sembra essere la seguente schematizzazione: generalizzazione di informazioni, eliminazione di informazioni, distorsione di informazioni. Ciascuna di queste categorie raggruppa vari tipi di errori cognitivi, definiti dalle ricerche in psicologia generale sia in ricerche nel campo clinico.Le valutazioni possono essere definite come giudizi (buono-cattivo, OK-non OK) o preferenze. I soggetti formulano delle valutazioni sia sulla base di processi inferenziali sia in base all’uso di conoscenze possedute, e dunque i giudizi e le preferenze dei soggetti possono essere influenzate sia da errori cognitivi di processazione dell’informazione sia da osservazioni personali (ad esempio, teorie e modelli di spiegazione soggettivi).Un aspetto principale, teorico e tecnico, è il ruolo rivestito dalla teoria attribuzionale (ad esempio, il contributo di autori come Heider, Rotter, Seligman) nell’impianto della Psicoterapia Cognitiva e negli interventi cognitivisti. Le inferenze e le valutazioni, rispetto alle determinanti o alle caratteristiche degli eventi, possono essere identificate da 3 fattori. L’attribuzione causale può riguardare la distinzione tra globalità e specificità a seconda che il fattore causale sia riferito a variabili generali o strettamente particolari: ad esempio, criticarsi per un difetto particolare (specificità) oppure criticarsi come persona (globalità). Le attribuzioni sulla causalità possono anche riguardare le variabili stabilità e temporaneità: ad esempio, giudicare una caratteristica altrui come temporanea piuttosto che stabile. I processi attributivi riguardano, altresì, le caratteristiche di internalizzazione (o personalizzazione) e esternalizzazione: ad esempio, giudicarsi meritevoli per un successo proprio (giudizio interno) ma giudicare non meritevole un’altra persona attribuendo il suo successo al caso o alla fortuna (giudizio esterno). Queste tre variabili bipolari rappresentano i fattori costitutivi delle decisioni sui processi causali ma, ovviamente, costituiscono anche le variabili di distorsione di giudizi ed inferenze su quelle stesse attribuzioni.Dunque, i trattamenti cognitivi hanno pienamente applicato questi meccanismi di attribuzione e decisione per modificare le convinzioni e le conoscenze disfunzionali del soggetto. Vale la pena ricordare che uno dei modelli più celebri nella concettualizzazione della psicologia depressiva è proprio la teoria attribuzionale che identifica nel paziente giudizi negativi su sé, interni, stabili e globali (Beck, Freeman, 1990; Seligman, 1990, Seligman. Rosenhan, 1997).Un ulteriore punto è quello riguardante le valutazioni di stati emotivi. Gli individui spesso sono coinvolti in problemi psicologici dovuti al fatto di avere certi problemi; questa condizione viene definita come problema secondario e dipende da valutazioni formulate su valutazioni, emozioni, comportamenti, o qualsiasi altro stato del soggetto. <<Alla base di alcuni di questi stati psicologici vi è il fatto che gli esseri umani non soltanto possono procurarsi un problema (che possiamo chiamare problema primario) ma quando si accorgono e valutano questa condizione possono crearsi un altro problema (che chiamiamo problema secondario); questo tipo di stati psicologici, relativamente frequenti nelle condizioni cliniche, possono complicare e mantenere notevolmente il quadro psicopatologico (De Silvestri, 1981a, 1981b; Mancini, 1996; Dell’Erba, 1998a).>> (Dell’Erba, 1998b).Le assunzioni personali sono regole e principi fondamentali che guidano il comportamento e che sono formulate nel corso della propria esistenza. Più le assunzioni sono precoci e più sono pervasive e stabili, in quanto varie credenze si collegano tra loro in reti di conoscenza che possono avere temi esistenziali generali comuni o specifici episodi soggettivamente rilevanti. Le assunzioni personali sono atteggiamenti specifici riguardo una varietà di eventi o temi che riguardano il soggetto (o più esattamente, temi che il soggetto sostiene che lo riguardino). Ellis (1987) ha individuato una lista di atteggiamenti o idee irrazionali che riguardano le regole che il soggetto si dà e le relazioni che egli intraprende con gli altri o con il mondo esterno o con sé stesso. Questa lista può ben essere ricondotta ad alcuni principali atteggiamenti:

- doverizzazioni

- giudizi totali su di sé e su gli altri

- insopportabilità e intolleranza

- catastrofizzazione

- indispensabilità e bisogni assoluti.

Tali atteggiamenti sono ulteriormente definibili, secondo Ellis (1987, 1994), in tre doverizzazioni di base:

- doverizzazioni su sé stessi ("io devo assolutamente... altrimenti... e quindi...");

- doverizzazioni sugli altri ("gli altri devono trattarmi in modo .... e devono essere ... altrimenti ... e allora .... ");

- doverizzazioni sulle condizioni di vita ("le cose che succedono devono essere come io le pretendo ... altrimenti ... e quindi tutto sarà ingiusto o insopportabile").

Questi atteggiamenti sono appresi durante lo sviluppo del soggetto e sono particolarmente resistenti principalmente in base a due fattori generali: la generalità di applicazione di un atteggiamento, e la automaticità di formulazione della specifica regola nella particolare situazione.Gli schemi costituiscono l’attività meno consapevole delle attività mentali (con l’esclusione dei processi mentali delle funzioni cognitive di base, come memoria, percezione, attenzione, apprendimento, ...) (Johnson Laird, 1983, 1988, 1993).Gli schemi, secondo il modello della psicologia cognitivista, guidano o interferiscono sulla elaborazione di informazioni attraverso un uso selettivo dei dati in arrivo; questa caratteristica può essere così generale da limitare soggetto stesso nella propria autoconoscenza. Il problema alla base è che il soggetto non è pienamente consapevole delle proprie teorie personali, costruite a partire da stadi precoci della propria vita, ma può essere consapevole sia della propria condotta attuale sia di valutazioni, giudizi ed inferenze (semplici, ma non seriali o concatenate); tale possibilità data dalla propria attività mentale cosciente è sufficiente per ricostruire o ri-attribuire significati generali che possano spiegare dati, evidenze, ricordi, e modalità di scelta del soggetto.Il fine del trattamento psicologico cognitivista, e quindi di un intervento preventivo da esso derivante, è permettere al soggetto di esaminare la modalità con cui costruisce e comprende il mondo (cognizioni ed attività mentali in genere) e sperimentare nuovi modi di attribuire significati e attivare condotte orientate. Attraverso l’apprendimento dei modi tipici e personali di dare un senso a ciò che avviene, scegliere i propri scopi, definire i propri progetti, il paziente può essere in grado di modificare costrutti e significati non adeguati e ri-orientare i propri scopi e progetti generali per fronteggiare in modo più soddisfacente le proprie relazioni con il mondo e con le persone (Beck, Freeman, 1990; Guidano, 1988; Guidano, Liotti, 1983).Per sintetizzare, possiamo affermare che alla base del modello ABC c’è la distinzione tra la categoria A, cioè i Fatti, gli Eventi, le Situazioni, lo Stimolo, pensati più oggettivamente possibile. Nella categoria B vi sono le nostre attività mentali come le Valutazioni, Pensieri, Immagini, Giudizi, sia istantanei sia abituali; in sostanza, tutta la nostra attività cognitiva. Nella categoria C vi sono le nostre reazioni emotive e comportamentali in risposta a ciò che avviene nel B.E’ un modello molto semplice che permette di spiegare la psicologia della condotta umana.Lo scopo di un progetto di prevenzione che abbia la caratteristica sia educativa sia di intervento si basa su una modalità tecnica di base per la modificazione degli aspetti cognitivi e comportamentali del soggetto, e sembra focalizzare alcuni particolari punti.Prima di trattare alcuni punti specifici, si può sicuramente affermare che la puntualità e la particolare definizione del modello ABC della condotta, come derivato dalla psicoterapia cognitiva, cioè della distinzione tra ciò che è un Fatto, ciò che è una Opinione o un Giudizio o qualunque altra attività di Pensiero, e ciò che è una reazione emotiva e comportamentale, distinzione particolarmente importante, ci spinge a fare alcune considerazioni che sono immediatamente conseguenti.

 

3.2 Alcune conseguenze del modello

3.2.1. I problemi emotivi sono conseguenze

 

La prima di queste considerazioni è che noi possiamo dire che tutti i problemi che una persona vive ed esperisce, come ad esempio stati di ansia, depressione, stress, irritabilità, sono tutti problemi che possono essere identificati come C, cioè come conseguenze delle nostre attività mentali, questo è il presupposto alla base della psicologia contemporanea, che appunto mette al centro della condotta umana la nostra attività di giudizio, di rappresentazione, di valutazione.Soltanto in conseguenza di queste attività cognitive, tipo inferenze o giudizi o valutazioni, noi abbiamo delle reazioni comportamentali ed emotive.Quindi possiamo riassumere che in realtà "tutti i problemi possono essere definiti come dei C", e noi possiamo schematicamente collocare questi problemi in una categoria che è quella delle "conseguenze" o delle "reazioni", come abbiamo già detto del tipo affettivo, sentimentale, emotivo e comportamentale.

 

3.2.2. I problemi sono determinati dalle valutazioni

 

Una seconda conseguenza che deriva dal modello ABC è che i problemi sono determinati dal B e non dagli eventi della vita, dai fatti, dalle circostanze così strettamente intese.In pratica, i problemi della persona, i suoi stati d’animo, le sue sensazioni, sono determinate soprattutto dalla nostra attività valutativa, dai nostri giudizi ed interpretazioni, dalle nostre inferenze e dalle nostre ipotesi, e non certamente dalle cose in sé stesse, da ciò che ci succede, dagli eventi descrittivamente intesi.Per fare degli esempi, possiamo immaginare il caso di un certo ragazzo che viene lasciato dalla propria fidanzata, e che egli si sente in uno stato di abbattimento e depressione. Ma cosa ha causato la sua depressione? L’ha determinata il fatto stesso che la ragazza ha rifiutato di continuare questa relazione? Oppure è stata la valutazione così particolare e soggettiva del ragazzo? Naturalmente, la risposta è che l’attività valutativa e di giudizio del soggetto è stata quella determinante a sviluppare in lui un sentimento di depressione; scendendo nello specifico, il soggetto avrà sicuramente avuto una valutazione negativa per quanto riguarda le proprie possibilità future di ricostruzione di questo legame, e probabilmente un giudizio su di sé anch’esso svalutativo e negativo in termini di autocritica. Un altro esempio potrebbe essere quello di un soggetto che in un conflitto con il suo capo ha uno stato di forte irritazione, o anche di rabbia. Ma cosa ha causato questa profonda attivazione emotiva? E’ stato il fatto che il capo si sia comportato in modo brusco e maleducato, oppure in modo aggressivo e svalutativo? Oppure è la particolare valutazione, il giudizio del soggetto a farlo stare così male? Anche qui, la risposta è che la particolare valutazione del soggetto in termini di "che cosa una persona ha il diritto di fare oppure no" o "che cosa un soggetto può permettersi oppure no di farci" può causare una emozione di rabbia, ed in particolare di avere una valutazione in termini di "torto" (danno ingiusto): il soggetto potrebbe pensare che "lui non ha il diritto a trattarmi così", e dunque attivare una emozione di rabbia attraverso la considerazione di "aver subito un torto". Quindi, come abbiamo detto, i soggetti non sono attivati emotivamente dai fatti, da eventi, da stimoli, ma sono attivati dalle loro personali considerazioni, processi mentali, giudizi e valutazioni, che possono riguardare sé stessi, gli altri, o le circostanze della vita in generale.

 

3.2.3. Ci sono dei collegamenti tra valutazioni specifiche ed emozioni specifiche

 

Un’altra conseguenza del modello ABC è che sicuramente vi sono dei legami preferenziali tra le nostre attività mentali, la nostra vita interiore, e le nostre reazioni emotive. Ci sono dei legami molto stretti fra alcuni tipi di valutazioni e pensieri, ed il nostro stato emotivo. Ad esempio, nel caso sopra descritto, la valutazione in termini di "torto", vale a dire il pensare di subire un danno ingiustamente, è legato alle emozioni di rabbia, irritazione, odio; le valutazioni in termini di "perdita", cioè pensieri sulla perdita di qualcuno, di autosvalutazione, perdita di potere o amicizia, oppure perdita di un legame importante o dello status sociale o dell’immagine o della reputazione; se in queste valutazioni è coinvolta una valutazione anche pessimistica sul futuro lo stato del soggetto sarà anche di depressione piuttosto che solo di tristezza. Per quanto riguarda l’ansia, se il soggetto ha un pensiero riguardante il "subire un danno" e questo danno viene immaginato accadere in un immediato futuro, l’emozione sarà quella di ansia, cioè del pericolo di subire un danno che può riguardare il proprio fisico, o l’immagine pubblica, o la considerazione si sé stessi, o la propria reputazione (in questo caso parleremo di Vergogna e Imbarazzo).In generale, possiamo dire che per quanto riguarda i C cioè le categorie delle reazioni emotive, ad un livello primario di organizzazione vi sono le "emozioni di base": Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia, Disgusto, Sorpresa. Esse sono organizzazioni comportamentali filogeneticamente predisposte e sono reazioni universali in quanto le condividiamo con tutti i nostri simili in tutti i luoghi del pianeta, al di là delle culture e metodi educativi. Nell’uomo, diversamente dai primati, essendo più sviluppato in senso sociale e più complesso in senso mentale, possiamo trovare solo raramente emozioni così primarie, ma troviamo quelle emozioni basiche con un contenuto più ricco in termini di valutazioni, pensieri, giudizi, ragionamenti, intenzioni e progetti, che rendono queste emozioni degli stati complessi, come i sentimenti (emozioni secondarie o sociali) le quali costituiscono la caratteristica più peculiare della nostra vita interiore.

 

3.2.4.Le nostre valutazioni derivano dalla nostra storia personale

 

Un altro punto molto importante, che deve essere sottolineato come una conseguenza della concettualizzazione ABC della condotta umana è che alcuni pensieri, valutazioni, giudizi, molto rilevanti e generali, una specie di teorie su sé stessi, riguardano il modo in cui siamo cresciuti, e come abbiamo appreso delle informazioni particolarmente importanti e centrali su noi stessi, su chi siamo, su chi pensiamo siano i nostri genitori, su come sono fatte le persone, su cosa ci aspettiamo dal mondo e dagli altri, ecc... Insomma, esse sono risposte nella forma di piccole teorie personali, assunzioni riguardo aspetti generali della storia di vita del soggetto e possono essere rintracciati, come affermano gli psicologi contemporanei, come delle "organizzazioni schematiche" o "schemi", come delle strutture di contenuto, o più semplicemente come delle convinzioni e credenze di base, che fin da più giovane età manteniamo strettamente dentro noi stessi perché in qualche modo esse hanno fatto o ancora fanno da base per altre credenze e convinzioni più specifiche e particolari, più legate ad avvenimenti concreti e particolari della vita (Guidano, 1989, 1991; Dell’Erba, 1993; Beck, 1996; Beck, Freeman, 1990). Un esempio potrebbe essere quella di una ragazza la quale si fa sempre accompagnare perché ha stabilito delle abitudini e comportamenti di dipendenza, ma essi stessi si ricollegano alla paura di rimanere da sola, e tale paura a sua volta si ricollega al fatto che lei si trova sola può sentirsi male, ma anche tale ipotesi di sentirsi male può essere legata alla convinzione più generale di essere "fragile" ed "a rischio" nella salute fisica, e ciò potrebbe anche essere derivato da alcune esperienze più o meno precoci in cui, sia direttamente o traumaticamente o anche indirettamente (osservando altri), può aver appreso che "ha una salute delicata", "deve essere protetta", "è a rischio". E’ solo un esempio per illustrare come alcune convinzioni di base, organizzatrici della vita mentale, derivano dalla storia di vita dell’individuo.Un elemento molto importante è quello che riguarda la convinzione del soggetto di avere subito un danno nel passato e di esserne ancora condizionato. Questa è tecnicamente uno stato mentale presente, una convinzione o giudizio che il soggetto fa su sé stesso e ne subisce naturalmente delle conseguenze in termini di attivazione emotiva attuale, ma il contenuto di questo pensiero si riferisce ad un fatto passato; questa non è una spiegazione del fatto che il passato influisce nel presente ma sono le convinzioni della persona, convinzioni che sono attuali, su ciò che egli ritiene di aver subito o vissuto nel proprio passato a determinare lo stato emotivo. La stessa cosa dovrebbe valere se una persona giudica o valuta di essere predisposto a delle particolari situazioni e circostanze negative, catastrofiche, particolarmente danneggianti nel proprio futuro; naturalmente ciò non può essere previsto (anche se alcuni soggetti spesso danno per scontate le proprie ipotesi).

 

3.2.5. Il lavoro sui pensieri modifica lo stato emotivo

 

Infine, come ulteriore e finale conseguenza del modello ABC vi è il punto in cui possiamo affermare con certezza che il lavoro sui pensieri e le valutazioni, cioè l’intervento che modifica certi giudizi o assunzioni o ipotesi, praticamente il lavoro sul B, naturalmente modifica il proprio stato emotivo, sentimentale, affettivo, e le conseguenze comportamentali.

 

4. Interventi Psicoeducativi

Affrontiamo ora alcune delle applicazioni della psicologia cognitiva in campo educativo negli interventi di prevenzione sui soggetti; questi interventi possono essere visti come interventi psico-educativi al personale scolastico, come interventi di educazione psicologica agli alunni della scuola, come interventi di psico-educazione ai familiari che hanno all’interno del gruppo familiare soggetti con disturbi psicologici, in particolare con disturbi mentali gravi; inoltre, possono essere visti anche come interventi indirizzati al personale di organizzazioni dove, è prevedibile che si possano sviluppare dei conflitti, e questi conflitti possono pesare psicologicamente sul rendimento, sul clima aziendale, ecc...In sostanza, si tratta di applicare quelle direttive della psicologia cognitiva contemporanea al campo della prevenzione (Fontana, 1995; Ingram, 1986).Svilupperemo alcuni punti in particolare, e questa disamina non sarà certo esaustiva e non comprenderà tutti i possibili interventi che possono essere applicati usando la psicologia contemporanea al campo della prevenzione primaria; nonostante questo, i punti che tratteremo sono particolarmente rilevanti e centrali.

 

4.1. La distinzione tra Fatto e Opinione

Il primo di questi punti riguarda l'intervento che mira a far sviluppare la distinzione al soggetto, o al gruppo di soggetti a cui è indirizzato l'intervento, tra il concetto di "Fatto", "Stimolo", "Evento", e il concetto di "Opinione", "Valutazione", "Pensiero". In sostanza, ed in termini del modello ABC, far fare la distinzione su che cosa è un "A" e che cosa è un "B"; in particolare, che "A" è qualcosa di diverso da "B".Sebbene questa distinzione è alla base dello sviluppo della intelligenza infantile, è noto che in condizioni di stress individui adulti normali adottino strategie di risoluzione e di fronteggiamento di difficoltà intellettivamente inadeguate alla situazione come anche al proprio potenziale risolutorio.E’ anche un dato acquisito che tutti i soggetti siano predisposti, in condizioni di incertezza, ad adottare "euristiche di ragionamento" che pur essendo economiche psicologicamente sono virtualmente delle distorsioni della realtà.Dunque, tale capacità di distinguere le proprie attività valutative dalla descrizione dei fatti è una abilità cognitiva cruciale, ma anche molto precoce; tale potenzialità può essere promossa oppure ritardata nello sviluppo intellettivo del soggetto.L'intervento che si pone questo tipo di scopo, cioè la distinzione tra Fatto e Opinione, ha l'obiettivo di far acquisire al soggetto una autonomia rispetto alle circostanze della vita, riguardo ai fatti della vita quotidiana, ed a porre una barriera (per usare una immagine) che ripara il soggetto dalle stimolazioni della vita o degli altri, o più esattamente stimola il soggetto ad acquistare una giusta misura tra sè e gli eventi esterni. "Che cosa è un Fatto?" è la domanda tipica che indirizza il soggetto verso una analisi più descrittiva delle circostanze e del contesto in cui egli è inserito, in cui ha vissuto una certa esperienza, o sta attualmente vivendo una certa esperienza. "Che cosa è una Opinione?" è quella tipica domanda in cui il soggetto è più spinto a pensare a quale è la propria attività mentale personale, e della quale ha responsabilità, in quanto deriva dai propri stessi processi mentali del soggetto (gli appartiene), e questa attività mentale, come abbiamo detto, è il motore o la sorgente della propria attivazione emotiva, della propria vita sentimentale; quindi, in sostanza, le persone non sono stimolate o spinte dai fatti a reagire emotivamente, ma sono guidate dalle proprie opinioni e giudizi a sviluppare certi sentimenti piuttosto che altri, o certe reazioni emotive al posto di altre.Quindi la distinzione è tra cosa è un A e cosa è un B; cioè tra cosa è un fatto "oggettivo", cosa è una situazione "descrittiva", cosa è veramente successo, e invece "cosa ho pensato io", "cosa ho potuto pensare o immaginare" o "in che modo ho interpretato un certo fatto".

 

4.2. La distinzione tra Opinione Propria e Opinione Altrui

Un secondo punto è una ulteriore distinzione tra "cosa è una Opinione propria" e "cosa è una Opinione altrui". In sostanza, e nei termini del modello standard della psicologia cognitiva e del modello ABC, la distinzione tra un B proprio e un B altrui. La distinzione tra "quale è l'opinione propria" e "quale è l'opinione altrui" ha lo scopo di individuare il soggetto a separarsi, a distinguersi, a prendere la "giusta distanza" tra le opinioni, le valutazioni e i giudizi di qualcun altro o degli altri in genere; in generale, possiamo dire che è sempre utile prendere in considerazione le opinioni degli altri perchè esse costituiscono un feedback sociale, una informazione utile e rilevante, qualche volta correttiva delle informazioni delle quali noi teniamo conto per autocorreggerci e per regolarci rispetto a certe conseguenze e a certe tendenze di una maggioranza (Castelfranchi, 1989; Dell’Erba 1994); in particolare, quando mettiamo in atto un intervento cognitivo educativo ponendo la distinzione tra "cosa è una opinione propria?" e "cosa è una opinione altrui?" lo scopo è proprio quello di far acquisire al soggetto quella "giusta distanza" tra un proprio pensiero o punto di vista ed il pensiero o punto di vista di un'altra persona.Aspetti particolari possono essere pensati nel caso di conflitto o delle offese dove la distinzione tra il proprio giudizio e quello di qualche altra persona serve a mettere a fuoco ed a confronto due diverse posizioni che sono teoricamente delle "opinioni".Un altro punto sono i giudizi negativi su sè stessi dove, in senso opposto, poniamo un confronto tra il nostro giudizio (negativo) e quello di qualche altra persona (eventualmente positivo o neutrale). Prendiamo il caso di un ragazzo che subito un giudizio negativo da parte del proprio compagno di classe, il quale gli dice, ad esempio, che è "uno sciocco"; il nostro soggetto può essere messo a confronto e guidato a porsi questa distinzione: "che cosa penso io di me stesso?" e "che cosa pensa lui di me?"; ora, anche se il compagno pensa che il nostro soggetto è sciocco, egli può non pensarla in questo modo, può avere in sostanza una opinione differente. Naturalmente, il prerequisito di questa distinzione è che "una opinione vale un'altra", e che "le opinioni sono punti di vista", e che "i punti di vista sono attività mentali che sono soggettive", e dunque non esiste, in genere, una persona che a priori ha un giudizio più importante di quello di un altro soggetto. Quindi, nel confronto tra "opinione propria" e "opinione altrui" è molto importante sottolineare che un punto di vista è uguale ad un altro, che il proprio punto di vista vale tanto quanto quello di un'altra persona. Dunque, se un'altra persona ci offende o esprime un giudizio negativo, questo è soltanto il suo personale punto di vista.Questa distinzione è particolarmente importante in quanto si pone l'obiettivo di far acquisire al soggetto quella distanza utile per poter affrontare in modo positivo ed assertivo, in modo non catastrofico e svalutativo, delle situazioni in cui qualcuno ci giudica negativamente.Il formato utile di questa operazione cognitiva di distinzione concettuale può risultare particolarmente vario in relazione alle capacità cognitive possedute dai soggetti.

 

4.3. Modello del robot e modello della condotta

Un ulteriore punto che si basa sempre su una distinzione è quella che si pone come scopo di far risaltare certe descrizioni di soggetti sulla propria condotta come se fossero una specie di automi, di macchine; gli psicologi si riferiscono a queste spiegazioni come "modello del robot", che sostanzialmente è, in termini del modello ABC della condotta, un "modello A/C". Su questa base viene descritto al soggetto un esempio di una persona che stimolata a fare una certa azione reagisce emotivamente in un dato modo, appunto automaticamente, senza alcuna mediazione di attività mentali valutative. Ad esempio, se un individuo riceve un giudizio negativo del tipo "non vali nulla" egli si deprime automaticamente; se ad una persona gli si dice "tu sei bravissimo" il soggetto sarà automaticamente felice ed orgoglioso. In questo tipo di intervento deve essere messo, invece, in risalto che il modello AC è inadeguato in quanto non prende in considerazione i dati mentali, il contenuto valutativo ed interpretativo del soggetto, ma il modello più adeguato per descrivere la condotta e le reazioni, in generale, del soggetto è il modello ABC, nel quale egli è responsabile e, comunque, attivo attraverso una attività di valutazione e di interpretazione di ciò che gli viene detto, cioè l'interpretazione dello stimolo.Nell'esempio sopra riportato, se un ragazzo dice "sei stupido" ad un altro, il soggetto può interpretare come altamente rilevante questa informazione e quindi svalutarsi e deprimersi, o può anche svalutare la "fonte" di questa informazione e quindi restare indifferente; egli può anche interpretare come bizzarro o strano questo comportamento del compagno e quindi avere una emozione di sorpresa e curiosità; ma, ancora, può interpretare come danneggiante ed ingiusto questo giudizio del compagno e quindi sentirsi emotivamente attivato nel senso della rabbia e della irritazione.Dunque, questo terzo punto mira ad evidenziare ed a far emergere il modello ABC in modo più esplicito.Un tipico formato utile ad operare una tale distinzione è il porre l’attenzione sul dialogo interno dei soggetti, sia sotto la forma di pensiero automatico e di verbalizzazioni istantanee, sia accentuando le diverse interpretazioni tra diversi soggetti dello stesso stimolo o focalizzando le interpretazioni e valutazioni del soggetto in relazione all’attenzione riposta su singoli dettagli, diversi di volta in volta.

 

4.4. La distinzione Devo/E’ utile

Un quarto punto è abbastanza rilevante in quanto mira ad una distinzione particolarmente interessante che è quella di differenziare le considerazioni di tipo "doveristico" come "tu devi", "egli deve", "si dovrebbe" da considerazioni in termini di utilità come "è conveniente", "è meglio fare così", " è preferibile". La distinzione "Devo/E' utile" è un punto rilevante, potente ed efficace che deve essere portato avanti ed inserito in un programma di prevenzione in quanto le valutazioni in termini di comportamento reattivo ed aggressivo, ma anche depressivo o anche ansioso, sono sviluppati a partire da atteggiamenti doveristici o assolutistici del tipo "devo assolutamente fare questa cosa, altrimenti chissa’ cosa succede...", "devo accontentare Tizio altrimenti..." piuttosto che " è utile fare i compiti in quanto...", "è utile essere gentile con...".La distinzione Devo/E' utile è molto importante in quanto responsabilizza il soggetto, lo pone in un atteggiamento pratico e realistico, e finalizzato ad un comportamento "mezzo-fine", il quale si pone l'obiettivo di vedere il termine della propria azione e lo scopo del proprio comportamento piuttosto che comportarsi su delle indicazioni impartite a partire da regole delle quali egli non conosce, nè il senso nè l'origine. Ad esempio, pensiamo a ragazzini che si comportano in un dato modo perchè hanno sentito i genitori dargli delle direttive, ed essi pur non condividendo e non comprendendo tali regole si comportano in un certo modo ma con la conseguenza di soffrire; avendo una reazione emotiva negativa possono attivare comportamenti disfunzionali negativi, depressivi, ansiosi. Mentre delle direttive e regole impartite promuovendo un atteggiamento di "utilità" tendono a sviluppare nel soggetto un atteggiamento di responsabilità, come anche contribuiscono alla conoscenza della congruità e della finalità realistica del comportamento.Spesso la distinzione Devo/E' utile (Dovere/Utilità) viene equivocata criticando il fatto che l'utilità può intaccare il comportamento educativo che dovrebbe avere delle doverizzazioni, in modo tale che il soggetto sia saldo su certe regole. Ciò, in realtà, è un errore perchè ogni atteggiamento educativo che porta avanti delle doverizzazioni, cioè dei doveri che non sono spiegati al soggetto, non può essere efficace perchè il soggetto poi pone in discussione questi doveri e regole, e può avere anche, in determinati casi, un atteggiamento oppositivo e ribellistico su queste stesse regole (Ellis, 1987; Pope A., McHale S., Craighead E., 1988; Fontana, 1995).

 

4.5. La distinzione Pretendo/Vorrei

Il successivo punto si pone l'obiettivo della distinzione "Pretendo/Vorrei". Questa distinzione affronta un argomento particolarmente dibattuto nella filosofia e nella psicologia, e viene chiamato "paradosso della spontaneità" o anche "paradosso della intenzionalità". In particolare, questa distinzione Pretendo/Vorrei pone come obiettivo il poter distinguere due tipi di atteggiamento; l'uno in cui il soggetto pretende che sia suo diritto che gli venga concessa una certa cosa, come pretendere l'amore, l'affetto, l'amicizia, la fiducia, insomma un certo stato di cose che egli ritiene desiderabili, dal fatto che questo stato di cose siano soltanto "desiderabili", vale a dire che egli le desideri soltanto. Tale distinzione non è da poco, ovviamente, e ci si impiega un certo tempo prima di coglierla appieno, in quanto molte persone racchiudono nella espressione "Voglio" entrambi questi atteggiamenti che sono invece molto distinti, il pretendere qualcosa e il desiderare qualcosa. Questa distinzione cerca di favorire il soggetto nella direzione del libero desiderio di qualcosa, e magari attivarsi per quanto gli è possibile verso quel suo desiderio, senza cadere in una sorta di trappola per la quale pretendere qualcosa vuol dire, molto spesso, precludersela. Può essere fatto un esempio in cui un soggetto pretende delle cose che non sono in suo potere (o in suo possesso), vale a dire dove non è possibile pretenderle, ma il fatto di pretenderle mina alla base la possibilità di averle. Se noi diciamo a qualcuno "pretendo che tu mi ami", e l'altra persona ci dice che ci ama, noi siamo tentati a non credergli. Perchè? La risposta "ti amo" è una risposta che abbiamo stimolato noi stessi con la pretesa di avere proprio quella risposta. Come un certo stato di cosa sono valide solo se spontanee, quando noi le pretendiamo, nonostante abbiamo avuto l'emissione di un comportamento che somiglia molto all'oggetto che noi desideriamo, quel comportamento è solo la superficie che viene giudicata come ipocrita, falsa, non genuina.. Quindi il paradosso della spontaneità ossia la distinzione Pretendo/Vorrei mira proprio a far sviluppare nel soggetto quella distanza rispetto alla possibilità di cadere in trappola nel pretendere uno stato che non è possibile determinare con la nostra intenzionalità. Certi atteggiamenti intenzionali, certe nostre pretese, sono molto pericolose perché una volta attivate rendono difficoltosa la ripresa dello stato iniziale. Per esemplificare, possiamo immaginare una situazione che ben rende questa delicato meccanismo, la barzelletta dei fiori: una signora desidera molto dei fiori, ed in particolare ricevere un mazzo di fiori dal marito, e si pone come problema il fatto che il marito non le regala mai dei fiori; il giorno dopo si decide e gli dice "non mi regali mai dei fiori"; il giorno successivo il marito torna a casa con un bel mazzo di fiori, ma la donna è visibilmente scontenta e delusa. Che cosa è successo? Si è, appunto, attivato il paradosso della spontaneità; vale a dire un comportamento genuino e spontaneo, che non vorremmo fosse provocato da noi ma fosse spontaneo nella mente dell’altra persona o nel mondo che ci circonda, invece provocandolo non ci sentiamo più di riconoscerlo come desiderabile, perché ha perso quel carattere di spontaneità, ma ha acquisito un carattere di forzatura e di autoinganno. Quindi questo punto è particolarmente importante, il paradosso della spontaneità o della intenzionalità, perché mira a sviluppare nel soggetto degli atteggiamenti che sono più tendenti verso dei desideri, e naturalmente verso tutto quello che egli può fare che è in accordo con il proprio libero desiderio, ma senza cadere nella trappola delle pretese perché altrimenti si verrebbe a creare una situazione bizzarra e paradossale come quella di avere qualcosa che era desiderabile ma ora non lo è più.Inoltre, la distinzione Pretendo/Vorrei mira a porre l’attenzione del soggetto sulle proprie realistiche possibilità nel raggiungimento dei propri scopi e allontana gli "oggetti" del desiderio dallo status di mezzi preseguibili, così che il soggetto può pensare a tali desideri in modo libero, spontaneo, e non opportunistico.

 

4.6. La distinzione tra Potere proprio e Potere altrui

Un punto importante è la distinzione tra Potere proprio e Potere altrui. Alcuni psicologi cognitivisti (Castelfranchi, 1988; Miceli, Castelfranchi, 1995) hanno particolarmente sviluppato questo concetto, già in qualche modo tradizionale nella psicologia generale (ad esempio nei contributi di Albert Bandura), in cui si sottolinea la distinzione tra "ciò che possiamo fare noi e che è in nostro potere" e "ciò che non è in nostro potere". Questa distinzione così centrale negli interventi psicologici, era già presente nella filosofia stoica, ed in particolare in Epittetto, e cioè la indicazione sul fatto che le persone possono fare solo ciò che è in loro potere, e non possono né pretendere né realizzare ciò che non è in loro potere. Dunque, questa distinzione ora sviluppata dagli psicologi col termine di ""stile esplicativo o attribuzionale" (ad esempio Seligman, 1990) mira a far sviluppare nel soggetto quell’atteggiamento consistente nel porsi sempre il quesito su ciò che è in nostro potere rispetto a ciò che non ci appartiene o a qualcosa rispetto alla quale non abbiamo i mezzi per acquisirla. Tale punto da due tipi di risultati immediati: l’uno è quello di fare in modo che il soggetto non si spinga in iniziative o progetti sui quali non ha possibilità concrete e i mezzi per portarli avanti, l’altra ricaduta è invece quella di spingere il soggetto a porsi delle mete che possono essere quelle della acquisizione dei mezzi per avere più potere e possibilità. Ad esempio, se noi vogliamo fare qualcosa ma ci mancano i mezzi materiali, possiamo porci come obiettivo la acquisizione di quei dati mezzi, in vari modi, o direttamente o sviluppando precise abilità o chiedendolo ad altre persone più congruamente identificate. Questo sembra essere molto importante nella educazione in età evolutiva nella quale si informa e si contribuisce alla fermezza dell’individuo sviluppando un atteggiamento realistico e concreto secondo il quale per ottenere ciò che si vuole è importante avere i mezzi, e il comportamento di ricerca ed acquisizione di questi mezzi deve essere concreto, realistico e finalizzato, e quindi ciò, come abbiamo già affermato, può essere acquisito attraverso lo sviluppo di abilità proprie attinenti all’oggetto, oppure attraverso lo sviluppo delle abilità di richiedere ad altri il mezzo opportuno che non possediamo, o attraverso la ricerca di un mezzo intermedio che possa farci acquisire la nostra meta, cioè ciò che ci manca.Per fare un esempio, se noi vogliamo andare all’università dobbiamo acquisire il diploma delle scuole superiori, e se non l’abbiamo dobbiamo studiare per poterlo avere; quindi in questo caso l’abilità da sviluppare è quella di superare gli esami finali; se il nostro scopo è quello di appendere un quadro al muro, il nostro obiettivo sarà quello di avere un chiodo ed un martello; e se non abbiamo l’uno o l’altro di questi mezzi, dovremmo attivare lo scopo di chiederlo a qualcuno, o andare a cercarlo o, se è in nostro potere, comprarlo.In sintesi, lo sviluppo della distinzione fra Potere proprio e Potere altrui è interessante ed efficace perché contribuisce allo sviluppo di un atteggiamento mirato alla condotta realistica e finalizzata dell’individuo; ciò permette una applicazione di questo intervento in molti campi, da quello scolastico ed educativo, a quello lavorativo o anche a quello psicoterapico e clinico.

 

4.7. La competenza emotiva

Un differente dominio di sviluppo, e quindi di intervento, è quello dello sviluppo della competenza emotiva. Tale competenza inizia con lo sviluppo delle capacità di riconoscimento delle emozioni principali (o primarie).Le emozioni sono condotte organizzate aventi una funzione sia di salvaguardia dal pericolo sia di organizzare i contatti sociali fondamentali; in sostanza, sono le basi del comportamento sociale e servono per la sopravvivenza. Le emozioni, essendo comportamenti organizzati e predisposti filogeneticamente, sono sia universali sia innate. Le forme primarie di queste condotte sono le "emozioni di base", riconosciute come presenti in tutti gli individui a partire da età molto precoci. Le emozioni di base sono "famiglie" o "categorie" di emozioni principali; esse sono: Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia, Disgusto, Sorpresa. Ogni categoria rappresenta e segnala uno scopo specifico per la vita del soggetto e predispone la condotta orientata verso obiettivi definiti. Ciascuna classe emotiva di base è composta da diverse sfumature che definiscono emozioni più complesse e sociali.Gli scopi basici delle emozioni primarie possono essere definiti come segue: acquisizione e riproduzione (gioia), accudimento (tristezza), autoprotezione (paura), predazione ed aggressività (rabbia), rifiuto e protezione dei confini del corpo (disgusto), orientamento (sorpresa) (Dell’Erba, 1993b; Johnson Laird, 1988).Le categorie emotive che più frequentemente affrontiamo ed osserviamo sono però quelle relative alla tristezza alla paura, ed alla rabbia. Ciascuna di esse raggruppa diversi stati che si differenziano tra loro per gli scopi più specifici da acquisire o proteggere, e sono più complesse in quanto in esse vi è un contributo elaborato da parte del ragionamento, e per questo sono anche più culturalmente sensibili. Esse sono, ad esempio: Paura: ansia, panico, preoccupazione, tensione, agitazione, paura, timore, vergogna, imbarazzo; Tristezza: depressione, tristezza, colpa, scoraggiamento, delusione, apatia, svilimento; Rabbia: collera, rabbia, furia, irritazione, risentimento, gelosia, invidia.Le credenze e le convinzioni legate a emozioni di paura e ansia sono attinenti alla minaccia di un danno sia fisico che psicologico; esse sono collegate con il comportamento di evitamento e fuga. Le convinzioni e le credenze che riguardano emozioni di tristezza sono attinenti alla perdita di status, di autostima, di libertà o di possibilità, di persone rilevanti; la condotta, che tende all’immobilità, è caratterizzata da pensieri di incapacità e mancanza di speranza. Le credenze e le convinzioni riguardanti la rabbia concernono la invalidazione di diritti o di convinzioni relative a torti subiti (danni che sono pensati come ingiusti); i comportamenti sono orientati alla vendetta, al pareggiamento, all’attacco.La competenza emotiva si basa principalmente sulla gestione delle reazioni emozionali, ed un ruolo fondamentale è giocato dal riconoscimento degli stati emotivi sia propri che degli altri, intorno a noi.Apprendere o potenziare il riconoscimento degli stati emotivi è relativamente un intervento semplice, e prende la forma di un intervento educativo in cui la "alfabetizzazione" sugli stati emotivi è lo stadio iniziale. L’uso di esempi, l’apprendimento di volti tipici per ciascuna emozione di base, il simulare situazioni che tipicamente possono innescare specifiche emozioni è una attività educativa importante e basilare, in quanto intervento preventivo (o base per interventi preventivi più complessi).Un secondo stadio nella educazione emozionale è quello di focalizzare l’importanza delle valutazioni personali, dei giudizi, delle attività mentali sull’innesco di specifiche reazioni emotive (ciò è stato già accennato più sopra nella distinzione tra A e B, e nel modello A/B/C). Tale intervento tende ad incrementare la consapevolezza che il dialogo interno e le verbalizzazioni del soggetto influiscono nella tonalità emotiva (il tipo di emozione) e nella intensità della emozione stessa.A tale livello di educazione emotiva, i soggetti possono essere coinvolti nella definizione di una certa emozione riconoscendola attraverso delle verbalizzazioni di altri, nelle intenzioni espresse, e negli atteggiamenti espliciti caratterizzanti simulazioni o scene tratte da resoconti o figure.Come per ognuno dei punti riguardanti gli interventi psicoeducativi, anche nella competenza emotiva è importante adattare il livello della complessità dei materiali e delle informazioni veicolate; in tale ambito, comunque, il grado di intellegibilità delle informazioni riguardanti le emozioni di base è elevata già precocemente nello sviluppo affettivo ed intellettivo (capacità di riconoscere le emozioni primarie, capacità di comprendere le intenzioni dell’altro, simulare stati emotivi) (Harris, 1991; Attili, 1995; Karmiloff-Smith, 1993).

 

4.8. L’Autostima

Sebbene il valore che i soggetti attribuiscono a sé stessi può dipendere da numerosi fattori sia centrali sia superficiali, è certamente il modo di pensare a sé stessi in modo più strategico che distingue un soggetto con elevata autostima da un soggetto con autostima bassa. Inoltre, la maggior parte dei ricercatori in tale ambito sostiene che la capacità del soggetto di considerarsi efficiente e puntare su sé stesso è una delle caratteristiche distintive.Da tale prospettiva la teoria attribuzionale (Seligman, Rosenham, 1997) identifica tre principali fattori che modulano le valutazioni personali del soggetto riguardo a sé o riguardo al giudizio di altri, sia in caso di successo sia in caso di fallimento (Seligman, 1990). Questo tipo di intervento vede coinvolti gli specifici fattori esposti insieme come strumenti di modificazione delle valutazioni e delle convinzioni del soggetto. Come già esposto precedentemente, i fattori nei giudizi di attribuzione causale o di merito sono i seguenti:

- la valutazione interno o esterno, quando il soggetto deve stabilire se un dato fenomeno o capacità o fatto specifico dipende da un qualche fattori interno a sé e qualche propria abilità, oppure dipende dal caso o da qualcun’altro;

- la valutazione globale o specifico, quando il soggetto deve valutare se un certo episodio ha caratteristiche generali e omnicomprensive oppure si riferisce soltanto ad un aspetto di quell’episodio;

- la valutazione stabile o temporaneo, quando il soggetto giudica se un fatto è durevole nel tempo oppure e soltanto uno stato temporaneo e passeggero.

Queste valutazioni riguardano sia i casi positivi, i successi, i meriti, sia i casi negativi, i fallimenti e le colpe. Riguardano la valutazione delle responsabilità delle proprie azioni e delle azioni altrui.La graduazione dei tre fattori esposti è in grado di modulare la percezione della propria autostima, del proprio benessere psicologico, della capacità di percepirsi efficaci ed in grado di raggiungere le proprie mete; inoltre, è anche responsabile della psicologia del pessimismo, dell’evitamento, del conservatorismo estremo e dell’incapacità di rischiare nel perseguire i propri scopi.Una delle immediate applicazioni di tale prospettiva è il riconoscimento della estrema diversità tra attribuzioni in un senso o nel senso contrario in diverse situazioni proposte, sia in situazioni positive che in episodi negativi: in questo senso si può pensare alla proposta di casi scolastici tipici come litigare, essere accusati ingiustamente, ricevere una offesa, prendere un brutto voto, subire una sgridata, ricevere una punizione. Tutti questi esempi implicano la capacità di modulare i fattori attribuzionali per essere fronteggiati adeguatamente.Tra i fattori favorenti la modulazione dell’autostima, e quindi in aggiunta alle valutazioni attribuzionali, possiamo ritrovare il possesso di specifiche abilità che il soggetto utilizza nel fronteggiamento di difficoltà. Alcune di queste abilità, così come identificate da diversi autori (ad esempio, McGinnis e coll, 1986), sono state messe a punto per specifici scopi educativi e scolastici. Esse sono: abilità di auto-organizzazione, abilità di fare e mantenere le amicizie, abilità di riconoscere ed esprimere le emozioni, abilità di gestione della rabbia, abilità di gestione dello stress.L’uso di tale fattore prende le forme di esperienze di apprendimento o training durante le quali i soggetti apprendono e si esercitano nelle abilità sociali di base.Alla base della maggior parte dei programmi strutturati sia preventivi sia rieducativi possiamo ritrovare ingredienti simili: apprendimento delle abilità sociali, ristrutturazione cognitiva tramite distinzioni concettuali, sviluppo della competenza emotiva, esercizi di rilassamento e anti-impulsività, problem solving (Di Pietro, 92; Kendall, Di Pietro, 96; Pope e coll, 88; Goldstein, Glick, 87).

 

5. Conclusione

Quale è la base sulla quale progettare interventi psicologici preventivi? Come possono essere pensati interventi efficaci? Quale obiettivo devono avere? Queste domande devono guidarci nella progettazione degli interventi sia negli aspetti strategici che nelle caratteristiche tecniche ed infine nel diverso uso di materiali e stimoli. Un intervento può essere preventivo del disagio solo se definendo che cosa è ed in cosa consiste il disagio, o una sua componente, ne definiamo anche le caratteristiche mentali (scopi, conoscenze, processazione delle informazioni); in questo modo ogni argomento può essere ricondotto a regole e punti di riferimento applicabili nella pratica ed utilizzabili dai soggetti come strumenti concettuali. Se un seminario o una discussione in classe, ad esempio sul "rispetto degli altri", non traduce delle regole morali in credenze e desideri nella vita concreta dei soggetti, o in educazione alle tipologie di valutazione e comportamento, è improbabile che dalla teoria ne scaturisca una qualche pratica.Ogni soggetto crede ciò che per lui è plausibile; e se le sue credenze sono platealmente in contrasto con quelle di una maggioranza oppure la applicazione di esse determina sofferenza al soggetto allora è bene chiedersi quale sia la fonte di tali credenze. Tutti noi crediamo a qualcosa, ripeto, che ci sembra plausibile ed affidabile; dunque, un aspetto del cambiamento di credenze, o della loro formazione, deve essere ben plausibile ed affidabile come un intervento preventivo costruito su basi concrete. Molte delle informazioni contenute in lezioni, seminari, discussioni di gruppo possono essere in stridente contrasto con regole e bersagli concettuali che l’intervento vorrebbe veicolare: tali interventi non sono solo inefficaci, ma sono dannosi, in quanto contribuiscono alla formazione di molteplici casi particolari, rendendo gli obiettivi sganciati dalla vita concreta.Si può seriamente credere che parlare della situazione giovanile ed il suo rapporto con la droga possa davvero ridurre il rischio di consumo? Oppure, si può prendere in considerazione una discussione di gruppo sul rapporto genitori-figli sia davvero un intervento che ha un senso? Non potremmo pensare, invece, che tali metodi incidentalmente favoriscano i comportamenti e le valutazioni critiche bersaglio sulle quali si intendeva incidere?Un intervento psicologico deve avere una strategia mirata alla produzione o al cambiamento di informazioni le quali guidano la condotta; la formazione e la modificazione di ogni comportamento deve porsi il problema di come incidere sulle credenze e sui desideri dei soggetti, ed a tale finalità ogni strumento tecnico educativo deve essere tradotto in informazioni critiche che vogliamo trasmettere in modo plausibile ed affidabile. Senza una fonte autorevole le informazioni non sono ascoltate, e senza un contenuto plausibile tali informazioni non sono credute.

 


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LA TERAPIA RAZIONALE EMOTIVA

Dott.ssa Leticia Marin

 

PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA RET

 

Il dott. Albert Ellis (Ellis, 1957-1962), propone un tipo di terapia denominata Terapia Razionale Emotiva, che a detta dell’autore é una disciplina clinica efficace; utile con adulti nevrotici, adulti estremamente perturbati ed individui psicotici. Si afferma che quest’approccio terapeutico sia utile a partire dai quattro anni d’età. La sua tecnica si basa sulle seguenti supposizioni:

a)                     ciò che un individuo dice a se stesso, ha un valore determinante nella sua condotta;

b)                     il metodo consiste in uno strumento per la modifica di tali verbalizzazioni.

La Terapia Razionale Emotiva (RET), è una terapia cognitivo-comportamentale e si basa sull’idea che tanto le emozioni, quanto i comportamenti, siano il prodotto delle convinzioni di un individuo e della sua interpretazione della realtà (Ellis, 1962). La meta principale della RET consiste nell’assistere il paziente nell’identificazione dei suoi pensieri irrazionali e dei disturbi, aiutarlo a rimpiazzare tali pensieri con altri più “razionali” o reali, che gli permettano di raggiungere con più efficacia obiettivi di tipo personale, quali essere felice, stabilire relazioni con altre persone, ecc… (Ellis y Dryden, 1987).La RET è stata fondata da Albert Ellis nel 1955, ma continuò a consolidarsi fino al 1962. Da un punto di vista fìlosofico, la RET si riallaccia a due correnti antiche: la filosofia orientale, con Buddha e Confucio, che afferma “Cambia il tuo atteggiamento e potrai cambiare te stesso”, e quella dei filosofi greci e  romani come Epicteto y Marco Aurelio (Vedi: Susuki, 1956 e Watts, 1959-1960, citati da ElIis, 1980), che evidenziarono l’importanza della filosofia individuale nel disturbo emozionale. Millenni fa hanno dato origine alla prospettiva cognitiva, enunciando così l’ABC della RET. Il quadro fìlosofìco della RET si basa principalmente sulla premessa che: “il disturbo emotivo non è creato dalle situazioni, ma dalle interpretazioni di tali situazioni” (Epicteto, I sec. d.C., citato da Lega, 1995). In un’intervista fattagli da Leonor Lega (1995), Ellis afferma quanto segue: “Il postulato che sostiene ‘non ci preoccupano le cose, ma la visione che abbiamo di esse’, è diventato la base di ciò che più tardi è stata la RET, come la descrivo nel mio libro Ragione ed Emozione in Psicoterapia. Sono stato anche influenzato da filosofi più recenti come Kant e dai suoi scritti sull’importanza delle idee, e da persone come Russel, dal quale è derivata l’idea di usare metodi empirici della scienza e della logica nella pratica della RET” (ElIis, 1989, citato da Lega, l995). Dal punto di vista psicologico Ellis è stato anche influenzato da Karen Horney, Alfred Adler, e da Watson.

Il modello ABC, usato dalla RET per spiegare i problemi emozionali e determinare l’intervento terapeutico per aiutare a risolverli, ha come fulcro principale il modo di pensare della persona, la maniera in cui il paziente interpreta il suo ambiente, e le connessioni e  le convinzioni che ha sviluppato su se stesso, sulle altre persone e sul mondo in generale (Ellis, 1975). Quando tali interpretazioni o convinzioni sono illogiche, poco empiriche o rendono difficile il raggiungimento delle mete stabilite dal paziente, sono chiamate “irrazionali”, giacché la persona ragiona male ed arriva a conclusioni errate. Se accade il contrario, nelle sue interpretazioni ed inoltre nella sequenza scientifica e logica tra le premesse e le conclusioni, le convinzioni della persona sono “razionali”, giacché il ragionamento è corretto e la filosofia basilare di quella persona è funzionale (Ellis, 1982).

Le convinzioni irrazionali che una persona mantiene e che danno origine a sentimenti ed azioni che sabotano la  possibilità di affrontare un determinato fatto spiacevole, consistono di solito in affermazioni assolutiste del tipo dovrei, devo, oltre alle logiche, ma distruttive e denigratorie irrazionalità che generalmente accompagnano questi “devo”. Le tre basilari affermazioni assolutiste generatrici di nevrosi sono le seguenti:

 

1.  “Devo, assolutamente, avere successo nella maggior parte delle mie azioni e relazioni: altrimenti come persona sono del tutto inadeguato e inutile!”. Risultato: sensazioni di grave ansietà, depressione, disperazione, inutilità. Atti de fuga, rinuncia, abbandono, dipendenza.

2. “Il resto della gente deve, assolutamente, trattarmi con considerazione, giustizia, rispetto e amabilità; altrimenti, non sono così buoni come dicono e non meritano di raggiungere la felicità durante la vita”. Risultato: sentimenti di ira, rabbia, risentimento. Atti di lotta, inimicizia, violenza, guerre, genocidi.

3. “Le condizioni in cui vivo devono essere assolutamente confortevoli, piacevoli e di pregio: altrimenti sarà orribile, non lo sopporterò e tutto questo maledetto mondo sarà uno schifo!” Risultato: sentimenti di autocommiserazione, ira e bassa tolleranza alla frustrazione. Atti di abbandono, lamentela continua e dipendenze (Ellis, 1999).

 

Il modello della RET, fu pubblicato per la prima volta nel 1958, ampliato nel 1984 (Ellis, 1958b), e funziona nel seguente modo: di fronte ad una determinata situazione o “Evento Attivante” (A), le “Conseguenze Comportamentali” che la persona produce (C): che possono essere emozionali (Ce), o comportamentali (Cc), sono determinate dalle sue convinzioni, “Believes” in inglese  (B), in modo tale che non ci può essere A e poi C direttamente, bensì attraverso B: da qui la definizione ABC. Le convinzioni possono essere razionali (rB) o irrazionali (iB), dando luogo a loro volta a conseguenze (C) razionali (adeguate, funzionali) o irrazionali (inadatte, inefficaci). Il proposito della RET è quello di cambiare le iB per trasformarle in rB, dato che è l’unico modo affinché le conseguenze (C) che ne derivano siano funzionali. Il modo per ottenerlo è attraverso la “confutazione” o il  “dibattito” (D), dove si mettono in discussione queste convinzioni irrazionali. È fondamentalmente un adattamento del metodo scientifico alla vita quotidiana (Ellis, 1987; Ellis y Bnecker, 1982; EIlis y Harper, 1961, 1975). Rispetto all’ABC della RET, è importante ricordare ciò che Ellis ha affermato nel 1999: “nel 1955, quando creai la REBT sapevo in cosa consisteva, ma ora non mi è ben chiaro. Questi ABC – che onestamente non ho fatto altro che “rubare” da filosofi sia antichi che moderni –   avevano qualcosa di molto bello e profondo” (Ellis, 1999). Ellis ha detto che gli elementi A, B e C interagiscono e influiscono solo tra loro. Ha anche dimostrato come le convinzioni della gente (B), quelle che ha originariamente definito autoaffermazioni o frasi che diciamo a noi stessi, essenzialmente consistono in questo, ma nascondono spesso idee, immagini, atteggiamenti, simboli ed altri tipi di cognizioni, coscienti o incoscienti a livello più sottile.  Nelle sue recenti ricerche include gli elementi P (Progetti) e gli elementi E (Effetti o nuove filosofie, emozioni e comportamenti Efficaci), definite originalmente come le “risposte” che i clienti davano nello scoprire le loro convinzioni inefficaci, i loro segni di superamento o di lotta contro di esse e il processo di impostazione di nuove filosofie di vita e azioni più salutari. All’inizio Ellis vide gli elementi P piuttosto come qualcosa di conoscitivo (Ellis, 1999). Ciò che si può davvero catalogare come nuovo è probabilmente l’applicazione alla psicoterapia di punti diversi che sono stati esposti anteriormente in contesti radicalmente differenti (Ellis, 1980). Ellis continua a proposito degli ABC della REBT riferendo che la gente “vive immersa in un contesto, tanto fisico che sociale, e frequentemente insegue mete (g) od obiettivi che elenca nel modo seguente:

 

a)      Restare vivi, in movimento e godere.

 

b)      Godere la vita sia individualmente che in  collettività.

 

c)      Mantenere relazioni di intimità con determinate persone.

 

d)      Dare un senso alla vita attraverso l’educazione e l’esperienza.

 

e)     Inventare e raggiungere obiettivi derivati da una latente inclinazione.

 

f)      Godere dell’ozio e del gioco.

 

  Spesso nell’inseguire queste mete si trovano davanti ad un Avvenimento o ad un’esperienza Azionante o ad un’Avversità (A) che blocca e porta a sentirsi rifiutati o a provare disagio. La REBT da origine ad una quantità di approcci emotivi e comportamentali (nonché i metodi cognitivi che vi sono inclusi), come la TCC (Terapia Cognitiva Comportamentale, CBT in inglese) e come la Terapia di Arnold Lazarus, ma in modo più complesso di quanto lo fosse negli anni cinquanta. La REBT mantiene il suo ABC delle nevrosi benché sia diventata più complessa. Le persone (anche se non del tutto) diventano nevrotiche con assolutismi del tipo: Dovrei e Devo, sia a livello cosciente o incosciente. Dovrebbero cambiare per un ambito di “preferenze” chiare e decise e otterrebbero di essere meno suscettibili ai turbamenti. Come? Discutendo sulle loro convinzioni disfattiste sia rispetto a se stesse che nei confronti della società e agendo sia a livello cognitivo, sia emotivo che comportamentale. E soprattutto con pazienza, fermezza ed energia! Questo ci conduce ai tre insight principali (non i soli) usati dalla REBT dall’inizio degli anni sessanta e necessari per portare a termine una REBT efficace e, specialmente nel caso di una terapia breve, più opportuna ed intensa. Tali insight, che Ellis ci rammenta nel 1999, sono i seguenti:

  • Insight 1.- Gli Avvenimenti Azionanti (A) che sono visti come avversi o spiacevoli contribuiscono in modo notevole a sviluppare conseguenze (C) nevrotiche, ma questo non implica che siano le uniche cause. Probabilmente, la causa principale, che va cercata da terapeuti e pazienti, è la B, ossia la convinzione attivamente dinamica ed assolutista che le persone hanno della A. B interagisce in modo significativo con A perché si produca C. Dato che generalmente B è più suscettibile di cambio che A, risulta particolarmente interessante lavorare con esse e discuterne affinché la persona nevrotica sia capace di costruire E, ossia una nuova filosofia di vita, con emozioni e comportamenti idonei.
  • Insight 2.- Quando i pazienti pensano, sentono o agiscono in modo nevrotico (con atteggiamento disfattista verso se stessi e verso gli altri), ci troviamo spesso di fronte al fatto che hanno costruito queste convinzioni irrazionali (iB) in presenza di Avvenimenti Attivanti spiacevoli (A) già nella prima infanzia. Ma è possibile che più avanti non si comportino così. Quando generano sintomi nevrotici nel presente, ciò che stanno facendo è perpetuare le loro convinzioni inefficienti originarie o crearne altre diverse. Generalmente continuano a ricreare, ristabilire e indottrinare nuovamente se stessi con le proprie convinzioni irrazionali mantenendo o persino esacerbando così i loro problemi. I loro pensieri, i sentimenti e i comportamenti del passato non hanno ragione di perdurare nella vita odierna. Le persone continuamente modificano e ricostruiscono attivamente questo sistema di convinzioni.
  • Insight 3.- Generalmente ai pazienti risulta “semplice” e “facile” scoprire le convinzioni irrazionali specifiche (iB) che accompagnano il comportamento nevrotico e quasi sempre è possibile discuterle e sostituirle con convinzioni preferibili più funzionali. Ma per farlo si richiede una buona dose di lavoro perseverante ed energico, nonché di pazienza. Sì, non è magia: è principalmente questione di “lavoro e pratica” (Ellis, 1999).

 

COSA SONO LE IDEE IRRAZIONALI E LA LORO ALTERNATIVA RAZIONALE?

 

             Nella pratica della Terapia Razionale Emotiva uno dei passi è l’identificazione delle convinzioni irrazionali, di conseguenza un altro passo importante è il presentare “alternative più razionali” e meno autodistruttive che possano sostituire i modelli di pensiero irrazionale. Nell’identificazione delle Convinzioni Irrazionali, per il terapeuta razionale emotivo esperto, questa prima fase si porta a compimento attraverso lo scambio verbale tra paziente e terapeuta. Il paziente riferirà l’emozione e/o il comportamento problematico – li chiamiamo Conseguenze Emozionali o Comportamentali (C) – e le situazioni, eventi, fatti o persone in presenza dei quali accadono – chiamiamo ciò Antecedenti Ambientali o irrazionali che accadono nel punto (B), ossia tra A e C ­­ ­–. Inizialmente, quando Ellis pubblicò, en 1962, la sua monumentale Reason and Emotion Psychotherapy, affermò che predominavano dodici idee irrazionali che si nascondono dietro al comportamento e all’emozione alterata. Quindici anni dopo, nel 1977 Ellis evidenzia l’esistenza di quattro forme di pensiero irrazionale illogico ed autodistruttivo che prevalgono sulla maggior parte delle emozioni alterate (Ellis e Grieger 1977, citati da Bartolomé, 1985). Vedremo qui di seguito le dodici Idee Irrazionali Basilari, che secondo Ellis si celano dietro il nostro disordine emotivo, pubblicate nel 1962:

·         Idea Irrazionale numero uno: un adulto ha l’imperiosa necessità di essere amato e approvato da quasi tutti in quasi tutto ciò che fa.

·         Idea Irrazionale numero due: bisogna essere totalmente esperti, adatti ed efficienti sotto ogni aspetto possibile.

·         Idea Irrazionale numero tre: certe persone sono cattive, malvagie. Vili o inferiori e devono essere severamente castigate o accusate per i loro difetti, peccati o cattive azioni.

·         Idea Irrazionale numero quattro: è terribile, orrendo e catastrofico che le cose non marcino nel modo che uno vorrebbe che marciassero.

·         Idea Irrazionale numero cinque: la disgrazia umana ha cause esterne e l’individuo non è in grado di controllare le sue angosce o di liberarsi dei sentimenti negativi.

·         Idea Irrazionale numero sei: se qualcosa è o può essere pericoloso o temibile, l’individuo deve preoccuparsene moltissimo e deve sentirsi sconvolto.

·         Idea Irrazionale numero sette: è più facile sfuggire a molte difficoltà e responsabilità della vita che mettere in pratica forme di autodisciplina più soddisfacenti.

·         Idea Irrazionale numero otto: il passato è di assoluta importanza; se una volta qualcosa ha danneggiato la vita di qualcuno, continuerà a farlo indefinitamente.

·         Idea Irrazionale numero nove: la gente e le cose dovrebbero essere diversi da come sono ed è catastrofico non trovare immediatamente soluzioni perfette per le sgradevoli realtà della vita.

·         Idea Irrazionale numero dieci: il massimo della felicità umana si può ottenere attraverso l’inerzia e l’inazione o “auto-compiacendosi di se stessi” passivamente e senza impegnarsi.

·         Idea Irrazionale numero undici: ci si deve infastidire moltissimo per i problemi e i turbamenti degli altri.

·         Idea Irrazionale numero dodici: si deve avere qualcuno più forte di noi in cui confidare e da cui dipendere.

 

             Come già citato, Ellis nel 1977 evidenziò quattro forme di pensiero irrazionale logico e autodistruttivo, che prevalgono nella maggior parte delle emozioni alterate, descrivendole così:

 

·    Certi tipi di esigenze naturali infantili che il terapeuta può sospettare nel suo paziente a seguito di verbalizzazioni come “Deve”, “Dovrebbe”, ecc… Il terapeuta nell’interrogare il suo paziente sul perché della sua esigenza, identificherà l’esigenza come chiaramente puerile, nel senso che non deriva da nessuna legge naturale, bensì dal puro desiderio o gusto personale.

·    L’Ideazione Catastrofica, ossia il fatto di considerare che, quando le cose non sono come si crede che “dovrebbero” essere, allora la situazione è “orribile, terribile, orrenda e catastrofica”.

·    L’Idea dell’Incapacità Personale di gestire una situazione che secondo le persone è “orribile” perché non “dovrebbe” essere così. L’Idea dell’Incapacità Personale la possiamo dedurre a partire da verbalizzazioni del tipo: “non lo sopporto, non lo tollero, non lo sopporto, ecc…”

·    Certi tipi di accuse, dirette sia ad altre persone che al mondo, alla sorte, al destino, alle cose o a se stessi, si possono identificare a partire da parole o frasi come “stupido, cretino, incapace, incompetente, nullità, ecc…”

  È importante, dopo aver conosciuto le Idee Irrazionali, continuare con la conoscenza delle Alternative Razionali per il Pensiero Irrazionale, stabilendo pensieri con tali alternative (Bartolomé, 1985):

 

1.                   Deve combattere la convinzione che gli sia assolutamente necessario essere amato o approvato da quasi tutti in quasi tutto ciò che fa. Consideri l’approvazione degli altri come un obiettivo “auspicabile” ma non “necessario”.

2.                   Abbandoni la convinzione che deve essere totalmente esperto, adatto e vincente sotto ogni aspetto possibile. Non si inganni credendo che sarà una persona migliore se raggiunge la sua meta, credendo che non commetterà errori; li commetterà, sia disposto ad accettarli! Le sconfitte sono sgradevoli, ma non sono “terribili”. Non hanno niente a che vedere con il suo valore intrinseco come persona. Apprenda da esse.

3.                   Si distacchi dall’idea che certe persone sono cattive, malvagie o vili che dovrebbero essere severamente condannate o punite per le loro cattive azioni. Non confonda mai un individuo con le sue azioni, una persona che agisce male con una cattiva persona. Impari a distinguere tra il fatto che un individuo è “responsabile” delle sue azioni, come in effetti è, ed il fatto che sia “colpevole” (cosa che non è mai).

4.                   Combatta l’idea che gli risulta terribile, orrendo e catastrofico che le cose non procedano secondo i suoi desideri. Quando le condizioni non sono come vorrebbe che fossero, tranquillamente e con determinazione cerchi di migliorarle, e se sul momento non è possibile cambiarle, l’unica cosa sensata che può fare è accettarle tranquillamente, aspettare e fare piani per quando arrivi il momento di cambiarle. Quanto maggiore sia la perdita o la frustrazione, accetti con maggiore convinzione il fatto che è “sgradita e cattiva”, ma non catastrofica, né terribile, né insopportabile”.

5.                   Rifiuti l’idea che la disgrazia umana ha cause esterne. Al contrario, comprenda che la maggior parte delle sue disgrazie deriva dal suo stesso pensiero irrazionale, il suo autoconvincimento, e che può eliminare quasi tutta la sua disperazione o la sua collera cambiando il suo modo di pensare o di parlare a se stesso. Se sopprime tutti i suoi illogici “Dovrei” e “Dovrebbe” e sostituisce le sue “esigenze” puerili con “preferenze” realiste, si sentirà raramente angustiato o turbato.

6.                   Si distacchi dall’idea che qualcosa è o può essere pericolosa o terribile. Esamini seriamente i veri pericoli presentati dalle cose che teme e veda quali sono realmente le probabilità che accadano o che, se accadono, producano conseguenze spaventose o terribili. Accetti certi pericoli e rischi inevitabili che accompagnano l’esistenza quotidiana.

7.                   Smetta di sfuggire alle molte difficoltà della vita. Accetti le sue responsabilità. Benché l’acquisizione di un notevole grado di autodisciplina può sembrare troppo “difficile”, a lungo andare è molto più soddisfacente del cammino “facile”, che con il tempo risulta molto più duro, meno appagante e altamente autodistruttivo.

8.                   Abbandoni la convinzione che il passato è determinante e che se una volta qualcosa ha danneggiato la sua vita in modo significativo, continuerà a farlo indefinitamente. Pur considerando la sua storia passata e facendo il possibile per trarne lezioni valide, è importante che comprenda che “il suo presente è il passato del domani”.

9.                   Rinunci all’idea che le persone e le cose dovrebbero essere diverse da come sono e che sia catastrofico non trovare immediatamente soluzioni perfette per gli eventi spiacevoli della vita. La realtà è la realtà ed è meglio accettarla invece di sforzarsi a cambiarla.

10.                Combatta l’idea che si possa ottenere il massimo della felicità umana attraverso l’inerzia e l’inazione, o il piacere passivo e senza impegnarsi. S’imponga, attraverso azioni valide specifiche a correre rischi, ad agire contro la propria inerzia, ad essere attivamente “vivo”, interagendo e assorbendo da persone e cose per “loro stesse” e non per ottenere “approvazione sociale”.

11.                Impari a riconoscere il fatto che gli altri creano i loro stessi problemi emozionali: Li aiuti, quando può farlo, ma non si preoccupi per i problemi altrui. La preoccupazione blocca il comportamento a livello affettivo. Se non può assolutamente essere d’aiuto, accetti il dato di fatto: “non sarà mai terribile o catastrofico”. Corra rischi, decida da solo, agisca. Si esponga a commettere qualche errore. Non rifiuti l’aiuto degli altri per dimostrare di essere “forte”, ma non lasci nemmeno che decidano al suo posto nel labirinto della vita.

 

 

 


I PARADOSSI DELLA DROGA

UNA INDAGINE PSICO-ANTROPOLOGICA

 

 

 

             Filippo Sciacca*

Psicologo, Psicoterapeuta presso l'AUSL n° 1 - Agrigento

 

 

RIASSUNTO

 

 

La cultura è un sistema complesso - che include le regole scritte e non scritte, le usanze, le forme organizzative, la religione, l'arte appartenenti ad un popolo - che determina nei singoli individui la costruzione della loro visione della realtà e ne regola il loro comportamento appreso. Molti processi psicologici importanti dipendono dalla interazione fra individuo e contesto culturale di appartenenza. Utilizzando in questo articolo il metodo psico-antropologico, che mira al confronto tra le differenti culture e alla comprensione delle azioni umane inserite nel contesto sociale più ampio, viene effettuata una indagine su come i mutamenti della cultura e della società determinano effetti sia sui comportamenti sia sul modo di costruzione della identità dei singoli individui. In particolare vengono analizzati gli stati di alterazione della coscienza strutturati dalla cultura e vengono esemplificate due diverse modalità storico-culturali di uso di droghe, anche attraverso la descrizione personale raccontata da due differenti scrittori . A. Artaud che inserisce la propria esperienza con la droga all'interno dell'uso rituale di iniziazione . W. Burroughs che, a partire dal secondo dopoguerra, negli Stati Uniti determina la nascita della forma attuale di consumo di droga. Emerge che l'uso recente si riallaccia al bisogno adolescenziale di iniziazione, di rinnovamento vitale, che fallisce, diventa patologico e conduce all'autodistruzione.

 

 

 

La culture est un système complexe qui comprend les règles écrites et non écrites, les coutumes, les formes de l'organisation, la religion, l'art appartenant à un peuple et qui  détermine chez les individus la construction de leur vision de la réalité en reglant leur conduite apprise. Beaucoup de  procès psychologiques principaux  dèpendent de l'interaction entre le sujet et le contexte culturel d'appartenance. Dans cet article qui utilise la méthode psycho-anthropologique pour arriver à la comparaison entre les cultures différentes et à la compréhension des conduites humaines dans le contexte sociale plus étendu, on effectue une recherche sur la manière où les changements de la culture et de la société  causent  les transformations des conduites et de la construction de l'identité du sujet.. En particulier on  analyse les états d' altération de la  conscience  structurés  par la culture et l'on  expose deux manières historiques et culturelles d'usage  de drogues, mème à travers  les narrations personnelles de deux différents  écrivains: A. Artaud qui fait son expérience avec la drogue dans le rituel d'initiation; W. Burroughs  qui, après la  deuxième  guerre mondiale, aux Etats Unis détermine la naissance de la forme actuelle  de consommation de drogue. On peut affirmer  que l'usage récent trouve sa naissance dans le besoin adolescentiel d'initiation, de renouvellement vital, qui manque le but, devient pathologique et mène à l'autodestruction.

 

 

 

Culture is a complex system - that includes written and unwritten rules, customs, organized forms, religion and art belonging to a people - that determines in the individuals the construction of their vision of reality and regulates their behaviour. A lot of important psychological processes depend on the interaction between the individual and the cultural context in which he lives. In this article where we make use of the psycho-anthropological method aiming at yhe confrontation among different cultures and at the comprehension of human actions included in a wider social context, we carry out a survey of how the changes of the culture and society determine some effects both on the behaviours and on the way of constructing the identity of the individuals. In particular, we analyse the altered states of the conscience structured by culture and illustrate two different historical-cultural methods abouts the use of drugs, also by means of the personal account made by two different writers. A. Artaud who inserts his own experience whith drugs in the initiatory rites. W. Burroughs who, after the 2nd World War in the United States, gave birth to the present form of drug abuse. It comes out that the recent use can be linked to the adolescent need of initiation, of vital renewal, that fails, becomes pathologic and leads to self-destruction.

 

 

 

 

 

      "Allora pensò un'altra cosa Elena, nata da Zeus:

nel vino di cui essi bevevano gettò rapida un farmaco,

che fuga il dolore e l'ira, il ricordo di tutti i malanni.

Chi l'ingoiava, una volta mischiato dentro il cratere,

non avrebbe versato lacrime dalle guance, quel giorno,

neanche se gli avessero ucciso davanti, col bronzo,

il fratello o suo figlio, e lui avesse visto cogli occhi.

Tali rimedi efficaci possedeva la figlia di Zeus,

benigni, che a lei Polidamna diede, la sposa di Teone,

l'Egizia. La terra che dona le biade produce moltissimi

farmaci, lì: molti, mischiati, benigni; molti, funesti.

Ciascuno è medico esperto più d'ogni

uomo: sono infatti della stirpe di Asclepio"

                           

                         Omero, Odissea, IV  219-232

 

 

 

1   La guerra dell'oppio

 

 

21 agosto 1842. Venne stipulato in questa data il Trattato di Nanchino, in assoluto il primo trattato politico-commerciale concluso dall'Impero cinese con una potenza marittima occidentale, la Gran Bretagna. Trattato sfavorevole per l'Impero cinese, che comportava la concessione della piena sovranità della Gran Bretagna sull'isola di Hong Kong per un secolo e mezzo e l'apertura al commercio estero dei porti fluviali, oltre a quello di Canton, di Amoy, Fuchou, Nigpo e Shangai. L'antecedente storico del Trattato di Nanchino era stato la Guerra dell'Oppio. I presupposti che avevano fatto insorgere questo conflitto sono da ricercare nel brusco impatto tra due mondi, fra due differenti sistemi culturali e politici. Da una parte l'isolazionismo culturale, politico ed economico dell'Impero cinese; dall'altra  la cultura e la politica economica liberista e coloniale del Regno Unito. "Il governo imperiale cinese non aveva una concezione dei rapporti internazionali corrispondente all'idea occidentale di relazioni diplomatiche permanenti nell'ambito di un sistema di stati sovrani eguali. Secondo la filosofia confuciana, la Cina era l'unica fonte della vera civiltà e il suo imperatore era l'unico legittimo rappresentante della divinità in terra: essendo teoricamente sovrano di tutto il mondo, i rapporti degli altri monarchi con lui potevano essere soltanto quelli tra vassalli e sovrano. Questa condizione di vassallaggio si esprimeva nel pagamento di un tributo e nel rispetto di un cerimoniale che implicava il riconoscimento della supremazia dell'imperatore cinese. Il tributo non era quantitativamente oneroso, ma la corte cinese vi attribuiva importanza non tanto per il suo valore economico quanto per il prestigio che esso conferiva alla dinastia regnante. Il tributario era compensato con la concessione di privilegi commerciali in Cina senza intervento diretto del governo cinese nella politica interna del tributario stesso" (1). Incaricata di gestire i rapporti commerciali era il Co hong, un'associazione di mercanti, poiché il governo cinese consentiva ai commercianti esteri di operare a Canton senza che fossero stabiliti rapporti diplomatici ufficiali con gli stati di cui i commercianti erano sudditi.  A tali regole di vassallaggio aderivano  territori come la Corea, il Siam o la Birmania. Pertanto, a differenza di quanto era accaduto in paesi come l'India già colonia inglese, per molti secoli la Cina era rimasta "inaccessibile ai viaggiatori e ai commercianti dei paesi occidentali e, praticamente, impenetrabile alla loro influenza culturale" (2). Solo i portoghesi, nel 1557, per primi erano riusciti ad ottenere un punto di appoggio sulle costa cinese a Macao  attenendosi alle regole  e al cerimoniale di vassallaggio. A ciò si adeguò inizialmente anche la Gran Bretagna, riuscendo nel 1757 a controllare la maggiore percentuale degli scambi per il tramite del monopolio svolto dalla Compagnia delle Indie Orientali. Ma ben presto la difficoltà che la Compagnia ebbe di trovare merci vendibili in Cina per mezzo delle quali potere pagare il thè e altri prodotti ivi acquistati determinò il deficit economico. Quindi, al fine di ridurre il deficit, i commercianti britannici iniziarono ad esportarvi l'oppio proveniente dall'India. Gli inglesi, per il tramite della Compagnia, fornivano l'oppio dell'India ai commercianti francesi, olandesi, americani, nonché inglesi che lo esportavano in Cina. L'oppio fumato immediatamente si diffuse  tra i funzionari cinesi e fra gli strati della popolazione, ed insieme con esso anche la corruzione che fu determinata dal commercio clandestino sopraggiunto dopo le prime proibizioni e restrizioni governative cinesi. In particolare i funzionari di Canton si arricchirono dal commercio clandestino non facendo aumentare gli introiti doganali e invertendo la bilancia commerciale ai danni dell'Impero cinese. Quest'ultimo reagì disperatamente chiudendo i porti commerciali ai traffici inglesi e facendosi consegnare l'oppio. Nel frattempo, nel 1834, il parlamento britannico abrogava il monopolio della Compagnia delle Indie Orientali instaurando un regime di libera concorrenza e nominando un rappresentante ufficiale del governo come soprintendente del commercio in Cina.

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(1)     Storia del mondo moderno, Cambrige University Press, Vol. X, Garzanti, Milano 1970, pp.877- 878.

(2)     Ibidem, p.876.

 

 Quest'affronto e sfida alle regole e alle tradizioni cinesi portò, a partire dal 1839, a numerose azioni militari: la Guerra dell'Oppio. I cinesi che la combatterono erano perdenti fin dall'inizio non solo perché i nemici inglesi erano imbattibili militarmente, ma perché proprio i loro connazionali già erano assuefatti al fumo dell'oppio. Questo drammatico caso storico mette in evidenza come spesso la penetrazione di una droga e la lotta contro di essa spesso s'identificano con la 'crisi' di tutta una tradizione culturale e con il dilagare dell'efficientismo commerciale degli europei. Nel 1842 il Trattato di Nanchino oltre alla cessione dell'isola di Hong Kong comporterà anche la "nomina di consoli britannici autorizzati ad avere rapporti con funzionari cinesi dello stesso grado, su basi di uguaglianza".

 

2  I cambiamenti della cultura

 

Questa premessa vuol essere una esemplificazione  di quanto è già stato rilevato dalle ricerche storiche e di antropologia culturale, e cioè che una modalità di consumo di droghe è sempre esistita e che in genere si accentua nei momenti di "crisi" attraversati da una determinata società. Spesso la crisi è coincisa con la penetrazione dei modelli culturali occidentali che hanno spezzato quell'equilibrio culturale faticosamente costruito dalle popolazioni autoctone. Ed inevitabilmente ogni innovazione o cambiamento socioculturale - secondo la psico-antropologa  Erika Bourguignon - "implica processi psicologici di ogni specie, sia come cause sia come effetti. Le innovazioni introdotte in una società richiedono l'apprendimento di modalità nuove e non di rado l'abbandono (o la trasformazione) di quelle vecchie"(3). Le innovazioni consistono, infatti, nella trasformazione dell'utilizzo di oggetti, di pratiche o di idee preesistenti. Pertanto le trasformazioni della cultura e della società possono imprimere cambiamenti importanti e spesso drammatici degli atteggiamenti e dei comportamenti degli individui, del loro senso di appartenenza e della loro identità. Queste trasformazioni culturali hanno implicazioni psico-antropologiche. E proprio la psico-antropologia è quella  specialità che si occupa dei rapporti e delle interazioni tra cultura e personalità. "L'emergere dell'apparato psichico è possibile solo grazie alla presenza del contenitore culturale che non solo dà una forma alle manifestazioni dello psichico ma le rende possibili e riconoscibili come tali, ovvero come proprietà peculiari ed esclusive di ogni soggetto umano. La cultura non è dunque una sorta di 'capriccio' o un accessorio secondario dell'evoluzione umana. Essa non è un abito, né un colore, ma rappresenta il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano. Non vi può essere infatti alcun funzionamento psichico senza struttura culturale, così come non vi può essere fenomeno culturale che non sia alimentato e in una certa misura determinato dallo psichico" (4)

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(3)     E. Bourguignon, Antropologia Psicologica, Laterza, Bari 1983, p.385.

(4)     S. Inglese, Introduzione a T. Nathan, Principi di etnopsicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p.15.

 

 

Pertanto si può affermare che per molte società tradizionali il processo di occidentalizzazione o di modernizzazione ha impresso una forzata ricerca adattiva al fine di trovare modalità di venire a patti con le nuove idee, o integrandole nella loro visione del mondo, cercando di mantenere la propria continuità psico-culturale o addirittura rielaborando questa loro visione del mondo  attraverso nuove strategie di adattamento che permettessero la conciliazione con le nuove idee. Un altro esempio della conseguenza del drammatico impatto che il contatto con le società occidentali ha avuto sui popoli tradizionali è l'insorgere di culti di crisi o di movimenti di rivitalizzazione come la Ghost Dance Religion (La  Religione della Danza dei Fantasmi). "La Danza dei Fantasmi rappresenta una reazione degli Indiani delle Pianure, e di regioni ancora più a occidente, alla distruzione del loro modo di vivere conseguente all'insediamento dei Bianchi in quella regione. La religione della Danza dei Fantasmi, propagata nel 1890 dal profeta Wovoka, sosteneva che gli Indiani morti sarebbero tornati e avrebbero restaurato l'antico modo di vivere, mentre i Bianchi e la loro cultura sarebbero stati distrutti. Per porre fine allo stato di cose attuale, gli Indiani dovevano intraprendere vari rituali, soprattutto danze rituali. Durante queste danze, le persone entravano in uno stato di trance durante il quale vivevano l'esperienza di parlare con i parenti defunti. A mano a mano che questa religione si andò diffondendo tra le tribù più distanti, nuovi aspetti ed elaborazioni si aggiunsero allo schema fondamentale. Anche dopo la sconfitta dei Sioux a Wounded Knee, la Danza dei Fantasmi sopravvisse in forma modificata in vari gruppi di indiani e dette origine a una serie di movimenti successivi" (5). Questa forma di resistenza dei pellerossa alla sempre più intensa penetrazione dei bianchi segnala la contrapposizione tra il mondo euro-americano desacralizzato ed il mondo indiano centrato sulla iniziazione. Analizzando invece le trasformazioni psico-antropologiche avvenute nell'ambito della nostra società attuale, lo psicanalista giapponese Keigo Okonogi riprende la definizione di 'moratoria psicosociale', indicante il periodo della giovinezza, utilizzata dallo psicanalista americano Erik Erikson per la sua teoria sull'identità. Come ben si sa 'moratoria' è un termine preso a prestito, e, comunemente, sta ad indicare un'autorizzazione legale a pagare i debiti in ritardo. E pertanto nella psicologia dello sviluppo intende significare  che " la società concede ai giovani in fase di formazione e di studio un periodo di grazia: consente cioè di rimandare l'assolvimento dei doveri e dei debiti…una volta la moratoria aveva termine quando il giovane arrivava ad una certa età. Diventare adulto, nello sviluppo di un individuo, significava interrompere il gioco, il temporaneo periodo di prova, ed acquistare una precisa identità sociale…In pratica il concetto di moratoria psicosociale è complementare a quello di 'definizione di sé', 'scelta di sé' o 'identità'…Invece, oggi, la posizione dei giovani nella società

 

 

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(5) E. Bourguignon, cit., p.412.

 

 

è diversa. E questo ha fatto cambiare anche la psicologia moratoria tradizionale e ne ha trasformato i contenuti. Due ne sono i segnali. Uno è la comparsa di una nuova cultura dei giovani, che afferma il diritto all'esistenza della giovinezza, l'altro è il fatto che il periodo della giovinezza si è allungato" (6). "In una società che cambia rapidamente, i giovani reagiscono subito alle novità e le fanno proprie, che si tratti di scienza, tecnologia, arte, moda. Dato che oggi la caratteristica tipica della moratoria non è più quella di ereditare le 'cose vecchie' dalla generazione precedente, ma di scoprire e inventare 'cose nuove', la vecchia generazione ha relativamente  perso la propria autorità, mentre la sensazione di immaturità che avevano i giovani (il loro senso di inferiorità) si è trasformato in senso di onnipotenza" (7). Quindi, secondo K. Okonogi, se nel  passato i giovani tendevano ad assimilare e ad adeguarsi ai valori, agli ideali e agli schemi di comportamento del sistema culturale, oggi essi criticano la società così com'è e ne prendono le distanze. Di conseguenza ciò ha determinato il paradosso della 'dissociazione' dei giovani i quali pur rifiutando il sistema (e la preesistente  o predefinita identità psicosociale) di fatto si trovano nello stato moratorio, dipendendo pienamente dal sistema. "Pur essendo dipendenti, non sentono un vero e proprio desiderio di autonomia, perché si credono onnipotenti. E, pur vivendo in una situazione per cui dipendono dalla buona volontà e dalla generosità degli altri, non hanno mentalità da dipendenti. Di conseguenza c'è in loro una forte dissociazione tra l'essere inferiori nella pratica, visto che dipendono dai genitori e dagli adulti in genere, e il sentirsi sicuri in teoria" (8). La loro voglia di indipendenza si trasforma in un atteggiamento apatico e la ricerca di una identità scivola verso la depressione e i comportamenti anomici. "L'inclinazione psicologica appena descritta, a contatto di fenomeni sociali quali l'estendersi della classe media, la trasformazione dei valori, l'assenza di ideologie o prospettive storiche, ha fatto gradualmente perdere alla gioventù moratoria i suoi desideri tradizionali: coltivare un'ambizione, discutere di politica, aspirare a un ideale e essere indipendenti. Oggi prevale tra i giovani l'apatia caratterizzata da mancanza di vitalità, di interessi, di responsabilità ed essi non riescono a trovare significato in nulla, né ad avere valori stabili. Si impegnano soltanto casualmente in cose di breve durata. Sono capricciosi e stravaganti; non hanno aspirazioni né ambizioni, né ideali, né tanto meno la voglia di diventare indipendenti. Però, nonostante tutti questi cambiamenti, rimane il fatto che i giovani si trovano ancora nello schema della psicologia moratoria e nello stato moratorio. Non hanno ancora conquistato un ruolo" (9).

 

 

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(6)     K. Okonogi, Il mito di Ajasé e la famiglia giapponese, Spirali, Milano 1986, p. 10.

(7)     Ibidem, p. 14.

(8)     Ibidem, pp. 15 - 16.

(9)     Ibidem, p. 16.

 

 

K. Okonogi ipotizza quindi che tale condizione giovanile paradossale ha origine nella struttura stessa del sistema e ne individua alcune importanti caratteristiche:

1.      Carattere di provvisorietà: sono i rapidi cambiamenti sociali che hanno svuotato dei contenuti fissi e precisi i ruoli e le professioni  e che non sono più in grado di dare alle persone un'identità definita;

2.      Divisione delle responsabilità: questa provvisorietà di vita coincide con gli interessi del sistema di evitare che qualcuno abbia del potere personale;

3.      Essere sempre 'su richiesta': il sistema ha un preciso corso di promozioni basato sul merito o sull'anzianità, ma tale per cui la gente non può mai trovare la sua identità  nel presente, vissuto come provvisorio, ma proietta la sua identità in qualcosa che sta nel futuro restando sempre in attesa della vera identità;

4.      Una struttura che controlla e protegge: se le persone accettano tutto questo, il sistema si prende cura di loro e le protegge. In pratica, se un individuo osserva certe regole, "se si trattiene dal mettersi troppo in evidenza, se evita di assumersi gravi responsabilità, fa una vita tranquilla. Il modo migliore di adattarsi alla società è quello di rimanerne 'ospiti. Tutto questo dimostra che è la struttura stessa del sistema a costringere i suoi membri ad adottare una psicologia simile a quella moratoria" (10).

K. Okonogi conclude la sua analisi affermando che l'atteggiamento di fuga dalle responsabilità è presente in molti aspetti interni al sistema e la mutata psicologia moratoria tradizionale è indotta dal sistema divenendo un "carattere sociale".

 

3  C'era una volta l'iniziazione

 

Un'altra importante trasformazione psico-antropologica avvenuta nella società occidentale moderna è il fenomeno  della scomparsa della iniziazione. Mircea Eliade sostiene che una delle grandi differenze tra il mondo tradizionale e il mondo moderno ed industrializzato sta proprio nella scomparsa della iniziazione. Tale scomparsa è un fenomeno relativamente recente, portato avanti per la prima volta proprio dalla società occidentale moderna.  L'iniziazione ha svolto un ruolo istituzionale presso tutti i popoli primitivi o nella nostra antichità classica e lo svolge ancora in certe società. Il giovane, attraverso i riti di entrata o di passaggio, era promosso a una classe di età o di raggruppamento sociale valutato come superiore. L'iniziazione, attraverso il passaggio rituale in due fasi di morte simbolica e rinascita, metteva fine all'uomo naturale e  introduceva l'iniziato alla cultura della propria società di appartenenza. "La società in cui l'iniziazione aveva un ruolo istituzionale era anche una società in cui la morte aveva un posto ufficiale"(11). La morte indicava un'esperienza di trasformazione psico-antropologica. Infatti l'iniziato, rinascendo, 'iniziava'  (in un nuovo stato nascente) a vivere pur sempre nel mondo.

 

 

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(10)  K. Okonogi, Il mito di Ajasé e la famiglia giapponese, cit., p. 24.

(11)  M. Eliade, Initiations, rites, societés secrètes, Gallimard, Paris 1959, p. 12.

 

 Oggi al contrario, se si eccettuano le chiese, le istituzioni sono orientate sempre di più all'ottenimento di risultati pragmatici, lasciando al singolo individuo il problema del suo sviluppo interiore. Tuttavia, proprio nella nostra cultura occidentale, l'esigenza di iniziazione ritorna come rimosso culturale, non ufficiale, attraverso la nascita di numerose sette segrete che esercitano rituali altrettanto segreti. Il bisogno di iniziazione, un tempo soddisfatto ma negato dalla cultura ufficiale, si ripropone in termini occulti e inconsapevoli. Le società tradizionali  durante il rito della morte simbolica  facevano, ed in parte ancora fanno, ricorso alla induzione di stati di alterazione della coscienza, spesso attraverso  l'uso di droghe. Tuttavia questi stati di alterazione della coscienza sono sempre stati strutturati dalla cultura (rientrano in uno schema culturale ed il soggetto è consapevole di ciò che l'aspetta) ed hanno una persistente aspettativa di rigenerazione. Sono preceduti da purificazioni, addestramenti, rinunce, delimitati da rituali  che ne assicurano continuamente l'appartenenza a un contesto. Esistono alcune droghe estratte da piante come il Peyotl, la Banisteria Caapi, la Coca che tradizionalmente sono state usate da alcune tribù del Messico e del Sud America per scopi rituali, in particolare nei riti di iniziazione. Ad esempio la Banisteria Caapi, che viene chiamata anche Yage e che è una specie di vite, è un narcotico allucinatorio che produce un profondo turbamento dei sensi. Questa vite è usata dai giovani iniziandi della tribù degli Jivaro, che abitano nella zona compresa tra il nord del Perù e l'Ecuador meridionale, per mettersi in contatto con gli spiriti dei loro antenati ed essere dettagliatamente istruiti riguardo alla loro vita futura. Lo Yage produce in questi iniziandi uno stato di anestesia cosciente perché devono subire prove dolorose come l'essere frustati con viticci arrotolati o venire esposti ai morsi delle formiche. Inoltre ancora lo Yage viene usato come guarisci-tutto nel trattamento di varie malattie. E. Bourguignon riporta un interessante resoconto di una ricerca sperimentale effettuata con due gruppi di soggetti appartenenti a due distinte culture: "Nel 1959 A.F.C. Wallace ha fatto un confronto particolareggiato tra le reazioni degli Indiani dell'America del nord che prendono il peyote nell'ambito dei loro rituali religiosi, e i soggetti bianchi che lo prendono nell'ambito di un esperimento clinico. Sia il comportamento che le esperienze soggettive dei due gruppi presentavano differenze sorprendenti. Gli Indiani partecipavano a un rituale religioso e sperimentavano sentimenti di riverenza e spesso anche di sollievo da qualche malattia fisica. I Bianchi si trovavano in un assetto sperimentale senza alcuna preparazione culturale che impartisse un particolare significato alla cosa. Sperimentarono forti sbalzi di umore, che andavano da una depressione agitata all'euforia. I Bianchi mostravano inoltre un crollo delle inibizioni sociali e adottavano comportamenti che la società disapprova, laddove gli Indiani conservavano il dovuto decoro. I cambiamenti della percezione del sé e degli altri spaventavano i Bianchi, mentre per gli Indiani coincidevano con le loro aspettative religiose. Analogamente, gli Indiani avevano visioni che corrispondevano alle loro credenze e che seguivano uno schema culturale, laddove le 'visioni' o allucinazioni dei Bianchi, che si formavano senza alcun modello culturale, variavano da un individuo all'altro. Inoltre, mentre negli Indiani l'esperienza con il peyote provocava cambiamenti sia nel comportamento che nell'equilibrio psichico, i Bianchi, stando a quello che la  ricerca riuscì a stabilire, non sperimentarono né cambiamenti di lunga durata né benefici terapeutici" (12). Le conclusioni date da Wallace alla sua ricerca furono che la droga non ha un suo proprio 'contenuto' ma si limita a modificare per un certo tempo la coscienza umana e che i differenti risultati ottenuti sono da mettere in relazione con le differenze culturali dei due gruppi e cioè con la  formazione mentale con la quale hanno affrontato l'esperienza, il contesto del gruppo e il significato simbolico dell'evento. L'esperienza degli stati di alterazione della coscienza incide sull'ulteriore sviluppo dell'individuo, sulla posizione nella società e sulla sua visione del mondo ispirata all'esperienza di eventi straordinari legati al sé e agli spiriti.  Secondo Wallace l'essenza del rituale è la comunicazione tra gli esseri umani e gli spiriti degli antenati, e  in particolare  parla di una riorganizzazione rituale dell'esperienza, "una sorta di apprendimento attraverso il quale il mondo risulta semplificato agli occhi dell'individuo: il mondo complesso  dell'esperienza si trasforma in un mondo ordinato di simboli. Contemporaneamente accade una trasformazione dell'individuo, il quale acquisisce nuove strutture cognitive e una nuova identità trasformata" (13).

 

4  La droga ieri e oggi: due esperienze a confronto

 

L'esperienza di Antonin Artaud con la droga, specificatamente col Peyotl, che è un cactus i cui germogli contengono mescalina, si può collocare all'interno di quest'uso rituale delle sostanze allucinogene, esperienza compiuta presso la tribù dei Tarahumara del Messico nel 1936. Presso questa tribù egli era andato non da curioso ma per ritrovare  una 'Verità' che sfugge al mondo  europeo e che la razza Tarahumara ha conservato. Questa verità è racchiusa nel Rito del Peyotl (che i Tarahumara chiamano Ciguri) che sta alla sommità della religione Tarahumara e che consiste in una danza del Peyotl per l'appunto. Ecco la descrizione che Artaud fa di questa tribù: "Con i Tarahumara si entra in un mondo terribilmente anacronistico e che è una sfida a questi tempi. Ma oserei dire che è tanto peggio per questi tempi e non per i Tarahumara. Ed è così che per usare un termine oggi totalmente in disuso i Tarahumara si dicono, si sentono, si credono una Razza-Principio e lo provano in tutti i modi…In questa razza vi è una incontestabile iniziazione: colui che è vicino alle forze della natura partecipa dei suoi segreti…E' falso dire che i Tarahumara non hanno civiltà, quando si riduce la civiltà a pure facilitazioni fisiche, a comodità materiali che la razza Tarahumara ha da sempre disprezzato" (14). C'è da dire che Artaud, scrittore e uomo di teatro francese appartenuto al movimento surrealista, abbandona nel '36 il suo impegno teatrale e va alla ricerca dei Tarahumara perché attraverso l'iniziazione al rito del Peyotl vuol guarire da un suo profondo malessere che gli si manifesta come cataclisma corporeo ogniqualvolta si sente vicinissimo a una fase capitale della propria esistenza. Così nel suo libro "Viaggio al paese dei Tarahumara" egli descrive questa volontà di guarigione: "Ormai bisognava che quel qualcosa di sepolto dietro quella pesante triturazione (del proprio corpo) e che uguaglia l'alba alla notte, quel qualcosa venisse tirato fuori, e servisse, servisse

 

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(12) E. Bourguignon, Antropologia psicologica, cit. pp.306 - 307.

(13)  Ibidem, p.310.

(14)  A. Artaud, Viaggio al paese  dei Tarahumara, in A. Artaud, Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 1981, p. 91.

 

 

appunto con la mia crocifissione. E sapevo che il mio destino fisico era irrimediabilmente legato a quello. Ero pronto a tutte le bruciature, e aspettavo la primizia della bruciatura, in previsione d'una combustione presto generalizzata" (15). Dai Tarahumara egli sa che troverà la danza di guarigione con il Peyotl. Ma presso di loro, perché sia agente di guarigione, il Peyotl occorre saperlo prendere nella giusta dose senza abusarne perché ogni abuso provoca un'ebbrezza disordinata, ma soprattutto si disubbidisce a Ciguri stesso che è "il dio della prescienza del giusto, dell'equilibrio e del controllo di sé. Chi ha bevuto il metro e la misura vera di Ciguri è un 'Uomo' e non un 'Fantasma indeterminato', sa come sono fatte le cose e non può più perdere la ragione perché dio è nei suoi nervi, e da qui li dirige" (16). Il mistero dell'azione terapeutica del Peyotl è legato alla proporzione che si prende. Dice Artaud che: "Superare il necessario è saccheggiare l'azione" (17). Il rito di Ciguri è un rito di creazione. Le radici ermafrodite del Peyotl raffigurano l'immagine d'un sesso di uomo e di donna uniti. Esse rappresentano i Principi Maschio e Femmina della Natura. Dunque Artaud parteciperà al Rito di Ciguri che è appunto la Danza del Peyotl e avrà una 'visione' alla quale giunge dopo essere passato attraverso un laceramento e un'angoscia forti, dopodiché si sentirà come riversato dall'altra parte delle cose tanto da non capire più il mondo che ha appena lasciato. Ed egli vive questo riversamento  come una forza che consente di essere 'restituiti' a quel che esiste dall'altra parte. Artaud descrive ciò come un momento in cui non si sentono più i limiti del corpo, ma ci si sente molto più felici di appartenere all'illimitato che non a se stessi perché ciò che si è, è provenuto dalla 'testa dell'illimitato'. Artaud conclude quest'esperienza iniziatica affermando che il Peyotl riconduce l'Io alle sue vere sorgenti e, dopo essere usciti da un tale stato di visione, non si può più confondere la menzogna con la verità. Da quanto finora detto, si può affermare che l'uso tradizionale di queste sostanze segnala un passaggio all'interno dei riti di iniziazione e dei riti di guarigione. Questo passaggio è segnato dalla morte simbolica del soggetto, dalla 'visione' consentita dalla droga portatrice di un altro mondo, dalla costruzione della nuova personalità del soggetto. L'uso di droghe compiuto da  Antonin Artaud, e descritto nei suoi libri, rappresenta ancora una modalità che storicamente si inserisce nel contesto culturale della iniziazione rituale. Al contrario l'utilizzo di droghe fatta e descritta da William Burroughs rappresenta, a partire dal secondo dopoguerra negli Stati Uniti, la nascita della forma attuale del consumo di droga. Nella forma attuale la 'visione', se ancora ricercata, perde la sua importanza, la sua sacralità ed il suo significato collettivo di funzione innovatrice. Anch'egli, nei suoi libri, descrive le implicazioni soggettive relative all'uso delle sostanze stupefacenti.

 

 

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(15)  A. Artaud, Viaggio al paese dei Tarahumara, cit., p. 86.

(16)  A. Artaud, Il rito del peyotl presso i Tarahumara, in A. Artaud, Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 1981, pp. 138 - 139.

(17)  Ibidem, p. 139.

 

 

 

Questo scrittore drogato, o meglio prima drogato e poi scrittore, appartiene a quella che è stata definita 'beat generation' (generazione bruciata), che è stata da una parte una tendenza, uno stile di vita dei giovani americani del secondo dopoguerra e, da un'altra parte un fenomeno letterario e di poesia. I critici letterari Fernanda Pivano (18), Vito Amoruso (19), Gérard Georges Lemaire (20), che di questo fenomeno generazionale si sono occupati, sono tutti concordi nel trovare una intima relazione tra i comportamenti dei giovani americani e gli scrittori e i poeti della beat generation. Parlare di questi scrittori equivale a parlare di un modo di vita e di costume della gioventù bruciata americana. Questo fenomeno beat è costituito da un vertiginoso equilibrio tra i giovani ribelli del dopoguerra, mistici, vagabondi, apolitici, emarginati e l'avventura letteraria, la trascrizione letteraria della loro anarchia disorientata e della tumultuosa e generica affermazione di una nuova moda (fino a dei limiti folkloristici).Secondo la Pivano il dramma di questi giovani è un dramma morale, definendo questi giovani come degli 'incompresi' che si sono trovati a vivere in una società alla quale non credevano e che hanno ritenuto incapace di rispondere alle loro domande. Spesso la sfuggivano e vivevano in piccole bande più o meno segrete secondo un codice primordiale basato sulla inviolabilità dell'amicizia e delle confidenze. A volte passavano a stadi di violenza e di teppismo, di cui qualche vecchio film di M. Brando in motocicletta o J. Dean ne era il prototipo. Questi due personaggi rappresentavano il prototipo e non l'ideale perché erano l'esatto ritratto di quello che questi adolescenti erano e non  di quello che volevano diventare. La caratteristica di queste bande era quella di non volere compiere gesti di rivolta verso la società, ma di estraniarsene. Erano bande anticollettivistiche. I genitori li consideravano degli amorali, irresponsabili, viziosi, criminali, capaci di fare tutto quello che un genitore darebbe la propria vita pur di non vedere fare al proprio figlio. A questa dilagante massa di ragazzi reticenti e scontrosi, tristi e freddi, appartenevano appunto gli scrittori della beat generation. Risulta utile fare, a questo punto, delle necessarie distinzioni fra alcune generazioni letterarie. Innanzi tutto bisogna distinguere tre generazioni letterarie negli Stati Uniti:

1)     La 'Lost generation' o generazione perduta

2)     La Generazione ribelle

3)     La 'Beat generation' o generazione bruciata

 

La 'Lost generation' è quella generazione di artisti americani che nel primo dopoguerra si rivoltò contro il conformismo borghese. Ad essa appartengono scrittori come E. Hemingway, F.S. Fitzgerald, W. Faulkner e altri. Questi scrittori erano scrittori di denuncia e di violenza. Svelavano, ad esempio, alle madri inorridite che spesso le cosiddette fanciulle al momento del matrimonio avevano esperienze sessuali più cospicue di quelle materne. Secondo la Pivano questi artisti hanno combattuto una battaglia estetica per affermare un nuovo stile.

 

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(18)  F. Pivano, Prefazione a W. Burroughs, Il pasto nudo, Sugarco, Milano 1980.

(19)  V. Amoruso, La letteratura beat americana, Laterza, Bari 1969.

(20)  G. G. Lemaire, William Burroughs: una biografia. La mappa di una scrittura, Sugarco, Milano 1983.

 

 

 

La 'Generazione ribelle' invece, nel ventennio seguito alla crisi economica americana del '29, ha combattuto una battaglia sociale, ad esempio contro il razzismo. Vi appartengono scrittori come R. Wright, I. Show e altri. Al contrario, i giovani scrittori della beat generation, della gioventù bruciata, non avevano nessuna battaglia estetica da combattere poiché la battaglia dell'arte moderna aveva ormai vinto su tutti i fronti. Il dramma della beat generation non è estetico , ma è un dramma morale. Questi giovani sono perlopiù disperati e inquieti, respingono i sistemi morali e sociali precostituiti e vogliono scoprirne da sé degli altri nuovi. Questi giovani irrequieti bevono molto, fumano molto, hanno girato l'America in  autostop, si sono esaltati ascoltando o improvvisando jazz. Si potrebbe fare un parallelo  con i giovani francesi nati dal nulla creato da Sartre, ma essi si muovono nel nulla, in una nausea che non è neanche più disperazione. Gli scrittori beat questo nulla che hanno scoperto da sé si sforzano di vincerlo come possono. Pur restando i portavoce dei delinquenti minorili e dei drogati è un fatto che una delle loro caratteristiche è il misticismo o le pratiche pseudo-religiose. E il misticismo crea la grande differenza con la 'Lost generation', è una caratteristica di scrittori come J. Kerouac o A. Ginsberg che rivelano gli aspetti più segreti della misteriosa vita degli adolescenti sempre più lontani e sempre più sconosciuti ai genitori. La loro fuga nell'individualismo, secondo un altro critico, Vito Amoruso, non descrive una parabola esistenziale perché non implica una ricerca conoscitiva che ristabilisca il posto dell'individuo nella società, ma rimuove la società e nullifica l'individuo. Compiono l'elisione mistica della storia, di ogni storia, anche di quella più strettamente individuale. I mezzi di cui si servono cercano sempre di svincolare il soggetto dalle leggi morali e intellettuali: la droga, il jazz, la velocità folle, o la totale inazione, l'anarchia o il buddismo Zen. Secondo la Pivano, questi giovani esercitano una violenza su se stessi "per svincolarsi da un impianto morale che a loro è estraneo...cercano di distruggere in se stessi quanto rimane di immesso dagli 'altri' " (21). La droga e l'alcool, la promiscuità sessuale o il rock and roll viscerale sono mezzi per riscoprire una identità smarrita. E' utile citare la definizione di beat che ne ha dato J. Kerouac in un'intervista: "Entrai un pomeriggio (nel 1954) nella chiesa della mia fanciullezza, S. Giovanna D'Arco a Lowell nel Massachusetts, e improvvisamente con le lacrime agli occhi ebbi la visione di quello che dovevo realmente intendere per 'beat' allorché percepivo nel silenzio santo della chiesa (ero solo lì dentro, erano le 5 del pomeriggio, i cani abbaiavano fuori, i ragazzi gridavano, le foglie cadevano, le candele sfarfallavano per me), la visione della parola Beat che doveva significare beatifico" (22). William Burroughs è uno di questi scrittori beat. Anche se non è affatto mistico, però ha introdotto gli altri suoi amici scrittori all'uso delle droghe. Era nato il 5 febbraio 1914 a St. Louis, nel Missouri, ed è recentemente scomparso il 2 agosto 1997.  Nel '42 , all'età di 28 anni, andò ad abitare a New York e qui cominciò a fare uso di morfina.

 

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(21)  F. Pivano, Prefazione, cit., p.5.

(22)  V. Amoruso, La letteratura beat americana, cit., p.4.

 

 

Visse insieme a Kerouac fino al luglio del '45. Dal 1942 al 1957 farà uso di svariate droghe, per complessivi 15  anni. Durante questi anni farà anche ripetuti tentativi di disintossicazione, ma vi riuscirà solo nel '57 con una cura di apomorfina a Londra. Dopodiché si dedicherà alla scrittura. Ma ancor prima di interrompere l'abuso di droghe aveva già pubblicato il suo primo libro autobiografico 'Junkie'  (tradotto in italiano con il titolo 'La scimmia sulla schiena') cui sottotitolo è 'Confessioni di un drogato non pentito'. In questo suo libro parla sia della sua infanzia, ma soprattutto di come ha incominciato a prendere droga e a diventare morfinomane. Tramite il lavoro di ricettazione, un suo amico ladro una volta gli aveva procurato, insieme a un mitra da vendere, anche una scatola piena di fiale di morfina. Burroughs all'inizio vendette alcune di queste fiale, ma successivamente cominciò a provarle anche lui. A quell'epoca chi consumava droga erano i musicisti jazz che usavano prevalentemente la marijuana. Ma stavano cominciando a prendere piede gli stupefacenti pesanti: l'eroina, la morfina, ecc. Questi stupefacenti fino ad allora erano stati usati solo dagli anarchici o dai discendenti del dadaismo e della 'Lost generation'. Ma per queste ultime generazioni la vera grande droga era stata l'alcool. Pertanto se questi gruppi rappresentavano un certo stile di vita, Burroughs è stato senz'altro colui che ha rappresentato la sostituzione  della droga all'alcool consolatore e polemizzatore del primo dopoguerra. C'è una domanda che si ripresenta spesso in questo libro: "Perché si diviene tossicomani?" oppure "Perché si sente il bisogno dei narcotici?" (23). Queste domande vengono poste da qualcuno, da un ipotetico interlocutore o da un medico. Innanzitutto Burroughs dice che l'uomo che pone questa domanda al tossicodipendente non capisce nulla in fatto di droga. A queste domande egli risponde che  "si scivola  nel vizio degli stupefacenti perché non si hanno forti moventi in alcun'altra direzione. La droga trionfa per difetto. Io la sperimentai  a titolo di curiosità…Non si decide di diventare tossicomani. Un mattino ci si desta in preda al 'malessere' e lo si è" (24). "Di solito l'individuo non intende divenire dedito al vizio. Non ci si sveglia un mattino decidendo di darsi alla droga. Occorrono almeno tre mesi di punture praticate due volte al giorno per scivolare nel vizio degli stupefacenti. Non si sa realmente che cosa sia la smania della droga fino a quando le assuefazioni non siano divenute numerose. Mi occorsero quasi sei mesi per divenire affetto dalla mia prima tossicomania" (25). "La droga è un'equazione cellulare che insegna al tossicomane verità di validità generale. Io ho imparato molto ricorrendo alla droga: ho veduto la vita misurata in pompette contagocce di morfina in soluzione. Ho provato la straziante privazione che è il desiderio della droga e la gioia del sollievo quando le cellule assetate di droga la bevono dall'ago. Forse ogni piacere è sollievo. Ho appreso lo stoicismo cellulare che la droga insegna al tossicomane. Ho veduto una cella di prigione piena di tossicomani in preda alle sofferenze per la privazione della droga, silenziosi e immobili ciascuno nella sua individuale infelicità.

 

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(23)  W. Burroughs, La scimmia sulla schiena, Rizzoli, Milano 1976, p.32.

(24)  Ibidem, p. 33.

(25)  Ibidem, p. 32

 

 

 

 Sapevo che, fondamentalmente nessuno è in grado di aiutare il prossimo suo: non esiste chiave, non esiste segreto in possesso di qualcuno e che possono essere ceduti. Ho imparato l'equazione della droga. La droga non è, come l'alcool o come la marijuana, un mezzo per intensificare il godimento della vita. La droga non è euforia. E' un modo di vivere" (26). Da questi brani traspare innanzitutto che Burroughs dà un'importanza decisiva alla questione metabolica e chimica cellulare della tossicodipendenza. E' una spiegazione costante che egli dà sia in 'Junkie' ma che ripropone anche in altri libri successivi. Si stabilisce nell'organismo del tossicomane quella che egli chiama l'Algebra del bisogno, una equazione cellulare. L'importanza della droga per il tossicomane sta nel fatto che  essa dà assuefazione. Nessuno sa che cosa sia la droga finché non prova il 'malessere' ed inoltre la dipendenza è assoluta anche tra il tossicomane e colui che gli fornisce la droga, come il palombaro dipende dal tubo che gli fornisce l'aria. Questa situazione, secondo Burroughs, non esisteva prima che egli cominciasse a usare la droga e prima della conseguente assuefazione. L'organismo del tossicodipendente funziona grazie alla droga. Il malessere da mancanza di droga, di cui egli parla  e che distingue dall'euforia, equivale alla nascita del bisogno. E il bisogno diviene la 'brama'. "Il tossicomane senza la droga è impotente come un pesce fuor d'acqua, fuori del suo mezzo, 'boccheggiante' dice chi ha il vizio degli stupefacenti" (27). Per chiarire meglio questo paragone egli fa un altro esempio. La morfina è, come la tenia , un agente parassita che penetra e si stabilisce nell'organismo. Questo agente chimico parassita, la morfina, vive nel medium della morfina e grazie a esso, e gli occorre il medium della morfina per esistere. Poi dice: "E l'agente invasore può potenziare tale necessità nel suo ospite mediante uno sbarramento di sintomi  invalidanti allorché la morfina grazie alla quale esso agente vive viene sottratta. Questi sintomi sono i fenomeni di astinenza noti a tutti gli intossicati: sbadigli e boccheggiamenti, occhi lacrimosi e brucianti, diarrea, insonnia, debolezza, lieve febbre, crampi alle gambe e allo stomaco, talora la morte per collasso cardiocircolatorio e choc. E soprattutto la 'brama' dell'intossicato nei periodi di astinenza, una brama assoluta, irresistibile, di droga. Una necessità che equivale al soggiogamento totale. Il tossicomane è letteralmente un 'maniaco della droga', e la 'mania' è precisamente uno stato di assoluta necessità, che conosce, e può conoscere soltanto, il proprio bisogno" (28). Si può affermare pertanto che lo svariato abuso di droghe introdotto e sperimentato in prima persona da Burroughs segnala la attuale e diversa modalità di consumo ansioso, impaziente, distruttivo di sostanze stupefacenti. Si tratta, oggi, di un consumo che ha luogo nella fretta, nell'avidità, nell'ansia, senza alcuna integrazione nell'ambito del contesto culturale di appartenenza. Ciò che con il tempo viene a connotarsi di tinte sempre più negative è il rapporto che c'è tra il soggetto e la sostanza.

 

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(26)  W. Burroughs, La scimmia sulla schiena, cit. p. 34.

(27)  Ibidem, p. 231.

(28)  Ibidem, p. 232 - 233.

 

 

 

Se nell'uso rituale l'uso di droghe segnava il passaggio all'interno dei riti di pubertà o di iniziazione, con la morte simbolica del soggetto e la costruzione 'ex novo' della nuova personalità dell'iniziato (e la 'visione' consentita dalla droga era portatrice di un Altro mondo) l'uso recente sembra un'esperienza adolescenziale di iniziazione, di rinnovamento vitale, fallita e divenuta patologica: una esigenza che, morta la mitologia, persegue il risultato innovativo, l'euforia maniacale, rovesciando le due tappe del modello iniziatico: rinascita come fase immediata ed esperienza di morte come fase conclusiva.

 

5  Una iniziazione al contrario

 

Sono interessanti le affermazioni dello psicanalista junghiano Luigi Zoja, secondo il quale analizzare il bisogno di iniziazione nella società attuale è "particolarmente interessante per la comprensione della tossicodipendenza" (29). Egli distingue tre elementi costitutivi della tossicodipendenza:

1)     una assuefazione organica;

2)     una abitudine psicologica, che tende ad assumere la forma di condizionamento (soprattutto di gruppo);

3)     un motivo para-religioso, responsabile della formazione spontanea di rituali, della tendenza all'esoterismo, al fanatismo e alla ideologizzazione del ricorso alla sostanza stupefacente.

In particolare Zoja approfondisce l'analisi del terzo elemento. La  tossicodipendenza odierna sarebbe la corruzione finale dell'uso di sostanze verso le quali le popolazioni tradizionali si erano rivolte con aspettative in origine iniziatiche, archetipiche, magiche, rituali. In effetti tali sostanze hanno portato con sé speranze antiche che includevano sia il risanamento e la liberazione, sia l'ottenimento di esperienze psicologiche nuove e più complesse. La prima tappa di ogni iniziazione  è costituita dalla morte simbolica del soggetto, dall'annullamento della personalità fino ad allora esistente. La seconda tappa iniziatica, infatti, la costruzione della nuova personalità, non è una semplice aggiunta alla personalità di prima, ma è il sorgere di una identità e di un ruolo nuovi. L'iniziazione fa nascere l'uomo secondo un modello mitico, gli conferisce  un nuovo potere, una sorta di sicurezza e di intoccabilità. All'interno di ciò la 'visione' ottenuta con la droga ha la funzione di far accedere a una saggezza che non poteva essere descritta o rivelata perché andava al di là delle parole che si usano per comunicare. Zoja suppone che anche negli adolescenti della cultura occidentale esista un generale bisogno latente di eventi iniziatici, ma più che di iniziazioni puberali generalizzate in occidente si vedono nascere surrogati di sette segrete, di gruppi culto-esoterici. Ma la differenza sostanziale fra l'iniziazione primitiva ed il settarismo attuale sta nel rapporto con la droga. Mentre nelle società primitive si ha a che fare con l'elemento rigeneratore e individuante della 'visione', al contrario il tipico abuso attuale del tossicomane  avviene nell'ambito del modello consumista occidentale.

 

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(29) L. Zoja, Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza, Raffaello Cortina, Milano 1985, p. 7.

 

 

 " La nuova visione che la droga può favorire non trova, in generale, integrazione nella cultura circostante. Ma contemporaneamente non ha modo di inserirsi neppure nella personalità del singolo e tende a svanire con la scomparsa del semplice effetto chimico. Si ha dunque il bisogno di nuove assunzioni e il rischio che questa necessità si presenti a cadenze sempre più ravvicinate. Il consumo non procede a un passo volontariamente stabilito. Inizialmente (il tossicomane) tenta forse di farlo, ma è difficile marciare da soli, senza ritmo, cadenze e accompagnamenti esterni. Presto più che marciare, rotola per inerzia…Il consumo precipita verso il fondo, crescendo costantemente di velocità e di mole" (30). Dunque gli impulsi distruttivi, la ricerca della morte, nel tossicomane potrebbero essere ancora interni ad una ricerca di rinascita collettiva ma che, in mancanza di sbocchi concreti e di una mitologia paradigmatica per la costruzione di una nuova personalità, è costretta a manifestare solo la fase preparatoria, quella distruttiva. La ricerca di un'esperienza trascendente, sempre sfiorata, non è mai raggiunta e impone un inseguimento sempre più frenetico e maniacale. L'esigenza di iniziazione, di rinnovamento vitale, fallisce e non riconoscendo più il rituale, la rinuncia preparatoria, persegue immediatamente il risultato innovativo: l'euforia maniacale. In tal modo viene rovesciato il modello iniziatico: rinascita come fase immediata; esperienza di morte come fase conclusiva. Si ha così il rischio che la necessità di nuove assunzioni si presenti ad intervalli sempre più ravvicinati, decadendo così nella spirale della dipendenza. Così Zoja definisce quest'iniziazione negativa: "Un'iniziazione distruttiva e inconscia che tende, come unico rinnovamento, alla perdita della condizione o della personalità fino allora sussistenti; che non ne inaugura di nuove e nella pura perdita trova la sua realizzazione e il suo completamento" (31). L'errore del tossicodipendente sta nella fretta "ricalcata sugli schemi consumistici, che gli fa rovesciare questo modello: il quale principia con il rinnovamento e termina con l'esperienza di morte" (32). Quindi il tradizionale modello culturale iniziatico decade nel modello consumistico. Ed il 'sacrificio'  del tossicodipendente diventa un sacrificio deritualizzato e improduttivo. Il soggetto, che lottava par la conquista della identità e dell'affermazione di un ruolo nella società, assume una identità in negativo e - tramite la fuga, la rinuncia, l'indisponibilità - si dissocia dalle leggi sociali e morali, vissute come arbitrarie e prive di senso. Nel nostro attuale contesto sociale la tossicomania è un fenomeno giovanile. E proprio i giovani, gli adolescenti, vivono uno dei problemi cruciali che li caratterizza: la ricerca dell'identità e della identificazione soddisfacente con i modelli culturali. Da quanto ho esposto in questa indagine psico-antropologica si può dunque affermare che, da una parte, la sopraffazione di tipo coloniale ha determinato l'incontro/scontro tra due diverse culture, con la conseguente penetrazione di nuovi modelli culturali che hanno prodotto notevoli

 

 

 

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(30) L. Zoja, nascere non basta, cit., p. 126.

(31) Ibidem, p. 37.

(32) Ibidem, p. 97.

 

 

mutamenti  sociali e psicologici, creando ampi squarci nella tela culturale tradizionale, intesa come rete di senso. Altresì all'interno della nostra società moderna, fondata sull'economia del consumo, si sono attuate profonde trasformazioni psico-antropologiche che hanno prodotto numerosi fenomeni paradossali. Un acuto testimone della trasformazione antropologica avvenuta nella specifica società italiana è stato Pier Paolo Pasolini che - tra gli anni '60 e '70 - ha intravisto nel cosiddetto 'sviluppo' radicale quello che lui stesso  ha definito: "un fenomeno di 'mutazione' antropologica" (33). In un altro articolo, del luglio '75, intitolato "La droga: una vera tragedia italiana" osserva: "Per quanto riguarda la mia personale, e assai scarsa esperienza, ciò che mi par di sapere intorno al fenomeno della droga, è il seguente dato di fatto: la droga è sempre un surrogato. E precisamente un surrogato della cultura. Detta così la cosa è certo troppo lineare, semplice e anche generica. Ma le complicazioni realizzanti vengono quando si esaminano le cose da vicino. A un livello medio - riguardante 'tanti' - la droga viene a riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura….Dunque noi oggi viviamo in un periodo storico in cui lo 'spazio' (o 'vuoto') per la droga è enormemente aumentato. E perché? Perché la cultura in senso antropologico, 'totale', il Italia è andata distrutta. Quindi i suoi valori e i suoi modelli tradizionali (uso qui questa parola nel senso migliore) o non contano più  o cominciano a non contare più" (34). E ancora più avanti aggiunge: "Si tratta, insisto, della perdita dei valori di una intera cultura: valori che però non sono stati sostituiti da quelli di una nuova cultura (a meno che non ci si debba 'adattare', come del resto sarebbe tragicamente corretto, a considerare una 'cultura' il consumismo" (35). Nell'attuale contesto sociale gli adolescenti, quindi, hanno percepito e vissuto la rottura della rete di senso, in quanto proprio la stessa realtà sociale produce paradossi. L'ideale ricerca della propria autonomia e della propria libertà si scontra con la profonda dipendenza dal sistema culturale di appartenenza, con le sue moderne regole, con la sua nuova organizzazione. La ricerca di identità si trasforma in comportamenti caratterizzati da irresponsabile appartenenza sociale, disimpegno morale, disincanto affettivo: un epilogo dalle conseguenze imprevedibili e, a volte, irreparabili.

 

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(33) P.P.Pasolini, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, p. 49.

(34) P.P.Pasolini, La droga: una vera tragedia italiana, in Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 86-89.

(35) Ibidem, p. 90.

 

 

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