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CONSAPEVOLEZZA E  CONTATTO NELLA TERAPIA DELLA GESTALT INTEGRATA

Una riflessione sulla teoria

 Valentina Sciubba

 

La psicoterapia della Gestalt riconosce come caposcuola Frederick Perls, uno psichiatra che abbandonò la psicoanalisi freudiana per elaborare a partire dagli  anni ’40  un approccio autonomo. Egli sviluppò teorie originali, ma soprattutto cambiò notevolmente il modo di condurre la psicoterapia.   Con Perls il setting un po’ asettico e distaccato della psicoanalisi classica lascia il posto a un luogo dove sotto la guida del terapeuta, si liberano nei pazienti emozioni profonde e il terapeuta stesso è  molto più attivo e coinvolto. Alcuni concetti  di  Perls sono stati successivamente sviluppati da Erving e Miriam Polster che nel loro libro “Terapia della Gestalt integrata” (1973) chiariscono degli aspetti che sono centrali nel processo terapeutico quali l’acquisizione di consapevolezza da parte del paziente e l’esperienza del “contatto”. La funzione di contatto è quella che permette ad  ogni organismo di scambiare informazioni ed energia con l’ambiente che lo circonda al fine di soddisfare i propri bisogni di sopravvivenza e crescita. Essa prevede pertanto l’assimilazione di alcuni elementi  e il rifiuto  di altri non assimilabili e comporta  di conseguenza un’attivazione e un cambiamento nel sistema e nei sottosistemi individuo/ambiente interessati. Secondo i Polster infatti, “solo nel contatto può aversi stimolazione reale” (pag.96 op.cit). Il contatto soddisfa anche il bisogno paradossale degli individui di unione/separazione in quanto ciascuno di noi è un essere separato che ricerca l’unione con ciò che è altro da sé, pur  esigendo continuamente l’indipendenza. Essendo un fattore di cambiamento, il contatto è un  momento determinante nella psicoterapia. I momenti di contatto per essere significativi devono ovviamente riguardare i più reali e attuali bisogni del paziente ed è qui che diventa importante il processo di acquisizione della consapevolezza. Il terapeuta stimola  l’individuo a diventare sempre più consapevole dei suoi reali bisogni  e delle resistenze che si oppongono ad essi. Negli episodi di contatto che si verificano in terapia, il bisogno del paziente viene esplicitato, chiarito, messo in relazione con le resistenze e finalmente anche in un certo modo “superato” attraverso un’esperienza  “culminante” che è come il nucleo del contatto. Questa esperienza, che può avvenire tramite una fantasia, un’interazione, un comportamento del paziente ed è permessa da condizioni diverse dalle usuali, gli permette una nuova visione della realtà più articolata e flessibile e favorisce in tal modo lo sblocco di situazioni psicologiche problematiche anche di vecchia data. E’ evidente il carattere di novità, rispetto alla vita quotidiana, delle esperienze di contatto sperimentate in terapia. Secondo i Polster nelle situazioni terapeutiche i bisogni premono contro forti resistenze ed è pertanto opportuna una loro chiarificazione perché possano essere soddisfatti e completati; in altre parole per arrivare a cambiare il proprio comportamento l’individuo deve prima arrivare a comprendere le sensazioni e i sentimenti che vi sono associati, deve acquisire consapevolezza.Osservo tuttavia che nella vita di ogni giorno possono trovare soddisfazione con un basso grado di consapevolezza anche bisogni fondamentali per la salute psichica: basti pensare al caso abbastanza comune dello stesso soggetto che si trova sufficientemente a suo agio in un ambiente sociale e completamente a disagio, fino alla psicosi in un altro senza avvertirne, se non confusamente, i possibili motivi.  Perché nel setting terapeutico una profonda consapevolezza dovrebbe essere il presupposto e la strada maestra per il cambiamento? E’ proprio così necessario promuovere la consapevolezza per progredire in terapia? Le domande sembrano quasi blasfeme perché d’altra parte evocano anche il pericolo che il terapeuta possa disporre di un potere manipolativo eticamente non accettabile. Per chiarire i termini della questione vorrei elencare quelli che mi sembrano i vantaggi e gli svantaggi dell’acquisizione di consapevolezza.I vantaggi della consapevolezza sono molti ed evidenti, ricorderò quelli che mi sembrano i principali: 1) essa costituisce una guida sicura per il terapeuta che può regolare i suoi interventi in base a ciò che viene presentato e riconosciuto dal paziente stesso e non in base ai propri preconcetti 2)  è un processo attivo poichè è il paziente che sente, ricorda, ricollega e si esprime senza subire un’interpretazione dall’esterno che potrebbe non essere appropriata e comunque suscitare delle resistenze 3) essa orienta l’individuo a porre in atto le azioni più appropriate per il soddisfacimento dei propri bisogni. Tuttavia la consapevolezza presenta anche dei rischi alcuni dei quali riconosciuti dagli stessi Polster che individuano tre fattori che possono essere  motivo di interferenza o di attrazione negli episodi di contatto e che pertanto abbisognano di attenta gestione da parte del terapeuta. Essi sono l’odio, l’amore e la pazzia. Prendere coscienza di forti sentimenti di odio o di amore infatti, può comportare negli individui degli squilibri pericolosi; analogo discorso vale per quelle aree che l’io fortemente reprime per salvaguardare il proprio equilibrio.In secondo luogo la consapevolezza è per lo più dolorosa ed è comprensibile che lo sia se  l’organismo spende spesso una notevole quota di energie per impedirla tramite l’azione della resistenza. Ora, metaforicamente parlando, nessun medico coscienzioso eviterebbe un dolore temporaneo al paziente se sa che è il prezzo da pagare per ottenere un miglioramento dello stato di salute, ma lo stesso medico probabilmente deciderà di somministrare un’anestesia, secondo un calcolo costi/benefici, se  prevede che essa porterà a un risultato uguale o superiore. Ciò che voglio dire è che probabilmente in psicoterapia un procedimento doloroso non è sempre necessario per ottenere la guarigione; il cambiamento può essere ottenuto anche con un  basso grado di consapevolezza che eventualmente può essere rimandata al termine del trattamento o addirittura mai  veramente sollecitata. Nel processo di acquisizione della consapevolezza propugnato dalla teoria della Gestalt è insito inoltre a mio avviso un altro svantaggio per quanto paradossale: che il paziente giri intorno al vero problema senza mai arrivarci. Si deve considerare che il paziente “non vorrebbe essere consapevole” (pag. 202 op. cit.)  e che una resistenza messa in atto a tal fine può anche essere quella di imboccare nel corso delle sedute percorsi tortuosi che  girano intorno al vero problema senza mai coglierlo. Il risultato è un progresso molto lento in terapia  per cui il paziente non arriva mai o  arriva dopo molto tempo a sperimentare risolutori momenti di “contatto”. L’aumento di consapevolezza appare più simile a un cambiamento di stato dell’energia piuttosto che a un’acquisizione di nuovi elementi: ciò che è celato si rende manifesto, ma l’equilibrio delle forze in gioco non cambia. Persino nel caso in cui la consapevolezza porta a una riorganizzazione delle conoscenze, come quando si arriva a concepire la soluzione di un problema, il cambiamento sostanziale si avrà soltanto con l’attuazione della soluzione ideata, cioè con il coinvolgimento dell’ambiente, con il “contatto”. Nel caso dei bisogni sociali e relazionali l’individuo ha bisogno del contatto con l’altro o gli altri e  nelle situazioni disturbate il terapeuta o il gruppo terapeutico appaiono come i più idonei a ristabilire con il paziente contatti adeguati che siano fonte di reciproco benessere. Teoricamente mi sembra sostenibile che il sostegno “ad hoc” fornito dal terapeuta sulla base di un’adeguata percezione dei bisogni del paziente può supplire alla scarsa consapevolezza di quest’ultimo. In modo simile una madre mette a letto il proprio bambino diventato piagnucoloso per il proprio bisogno negato di sonno oppure un medico somministra il giusto rimedio a un malato magari in stato di incoscienza. Ovviamente in tal caso deve essere elevata nel terapeuta l’attenzione agli effetti degli interventi da lui operati che possono fornire preziose indicazioni sugli eventuali correttivi da ricercare. Ritengo perciò che ai fini del cambiamento il ruolo rivestito dal terapeuta o dal gruppo negli episodi di contatto sia assolutamente essenziale e in primo piano rispetto alla consapevolezza del paziente. Del resto un numero crescente di studi dimostra che è la relazione tra  terapeuta e cliente a determinare,  più di ogni altro fattore, la riuscita della terapia.L’importanza del talento del terapeuta nel fare e promuovere il “contatto” è sottolineata dai Polster, tuttavia nella narrazione delle sedute è spesso messa in ombra e quasi misconosciuta a favore del processo di consapevolezza o di altri fattori. Per chiarire meglio ciò che intendo sostenere e cioè che ciò che veramente promuove il cambiamento è l’opportuna azione del terapeuta, nei modi e nei contenuti,  nel fare e sollecitare il contatto, piuttosto che la consapevolezza, darò una rilettura di uno degli episodi di “contatto” in terapia riportati nell’opera citata di E. e M. Polster.Nelle pagg. 205-206 si narra di un paziente che, con l’ausilio del terapeuta, passa attraversi vari gradi di consapevolezza: da una sensazione di rigidità alla mascella arriva attraverso ricordi infantili a sentimenti di imbarazzo e ostinazione, poi ancora a sensazioni di tensione in gola fino a ricordare di aver balbettato da bambino e a richiamare alla memoria sensazioni avvertite nell’infanzia di incongruenza e confusione per essere stato frainteso dalla madre o per averla fraintesa. In questa sequenza c’è un momento in cui il paziente sembra particolarmente colpito dall’intervento del terapeuta. Riporto le parole dell’autore: “Quando gli chiesi se avesse mai balbettato, sembrò colpito, si rese conto dei suoi problemi di coordinazione e quindi ricordò ciò che aveva poi dimenticato: che in effetti aveva  balbettato fino all’età di sei o sette anni”. L’autore ci dice anche che il paziente dopo aver ripreso le vecchie sensazioni di confusione derivate dall’essere stato frainteso dalla madre e dall’averla fraintesa, riuscì a parlare in modo più aperto e a rilasciare la mascella; lascia così intendere l’importanza del processo di consapevolezza grazie al quale il paziente si è avvicinato sempre più ai suoi blocchi interiori. I Polster non sottostimano l’azione del terapeuta, ma essa appare soprattutto  finalizzata, e quindi quasi subordinata per importanza, al processo di acquisizione di consapevolezza.E’ possibile tuttavia e secondo me più plausibile un’altra lettura relativa a ciò che ha determinato il miglioramento nel parlare e nella tensione muscolare del paziente. Domandandogli se avesse mai balbettato il terapeuta ha intuito e “capito” qualcosa della persona, qualcosa che non era neppure chiaramente e facilmente accessibile. In pratica ha compiuto un’azione diametralmente opposta al fraintendere, “contattando” il cliente e provocando in lui  un’esperienza emozionale correttiva rispetto a quelle della sua infanzia. Il terapeuta ha così reso possibile una modalità di relazione riparatrice ed è questa e non l’acquisita consapevolezza del problema ad aver determinato il cambiamento.Resta il problema della psicodiagnosi, dove con questo termine non intendo una classificazione nosografica, ma un’analisi che comprende sia i sentimenti che i processi cognitivi anche inconsci del paziente, rilevanti per la terapia. Per “scavalcare” in certa misura il gradino costituito dalla consapevolezza del paziente, il terapeuta deve essere sufficientemente certo, sulla base di criteri oggettivi e quindi scientificamente comunicabili, di una diagnosi di tal genere, il che mi sembra difficile da realizzare con gli attuali strumenti che egli ha a disposizione. Forse in futuro computer che sappiano riconoscere le emozioni ( è già stato messo a punto qualcosa del genere) potranno aiutare il procedimento diagnostico.

 

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