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LA RETICA

  CESARE  DE SILVESTRI

Perché, vedete, qualsiasi psicoterapeuta di qualsivoglia scuola si può trovare spesso alle prese con problemi clinici che riguardano appunto valori e codici morali dell'individuo che ha di fronte. D'altra parte, come ho già scritto e detto più volte, insieme ad altri più autorevoli di me, qualsiasi forma di psicoterapia e necessariamente espressione di una cultura, di una filosofia, e talvolta purtroppo persino di un'ideologia. Non tutte le psicoterapie, però - anzi, soltanto poche - ne hanno una qualche consapevolezza, e soltanto pochissime cercano di difendersene. Pertanto la maggior parte di esse si rendono più o meno ingenue o più o meno ipocrite agenzie di propaganda dei valori suggeriti dalla società, dalla cultura dominante o, peggio ancora, dal regime in cui operano. Noi riteniamo invece di aver piena consapevolezza di questo stato di cose, e oltre ad ispirare la nostra multiforme prassi di interventi ad una ben definita teoria psicologica, la facciamo discendere da alcuni assunti e postulati di natura squisitamente filosofica che vengono palesemente e chiaramente espressi e che sono spesso in contrasto con quelli dominanti nella nostra società. La nostra filosofia, pur non avendo la pretesa di elevarsi a sistema universale e omnicomprensivo - pretesa che ormai da circa un secolo nessuno filosofo si azzarda più ad avanzare seriamente - dichiara apertamente non solo le sue premesse gnoseo - epistemologiche che la fanno approdare ad una metodologia scientifica logico - empirica, ma sostiene anche una sua ispirazione umanistica, dotata di altre precise premesse di natura etica che la fanno approdare a posizione capaci di orientare atteggiamenti e comportamenti nel senso di una morale pratica e funzionale. E quindi essa parte e si occupa dei valori etici e morali che informano i criteri normative della condotta umana. Mentre infatti la maggior parte delle psicoterapie cognitive si limitano ad intervenire su errori cognitivi e pensieri illogici, irrealistici e antiempirici del tipo pensiero tutto-o-niente, non sequitur, ipergeneralizzazione, perfezionismo, eccetera, che sono indubbiamente un importante aspetto dei disturbi psicologici, noi sosteniamo che il nucleo centrale di tali disturbi è piuttosto la tendenza degli esseri umani a giudicare in modo assolutistico e dogmatico gli eventi della loro vita. Tale modalità assolutistica di pensiero si riflette ovviamente anche in quella che si può chiamare la metaetica dell'individuo, e pertanto nel linguaggio usato per definire le proprie regole morale. E queste vengono infatti formulate in termini di astratti e indimostrabili "doveri" che noi consideriamo "irrazionali", o meglio disfunzionali, in quanto molto spesso ostacolano o impediscono il perseguimento degli scopi fondamentali di sopravvivenza e benessere dell'individuo e possono risultare deleteri alla società nel suo insieme. Da questa impostazione "doveristica" dell'individuo discende poi una serie di sue elaborazione cognitive altrettanto irrazionali o disfunzionali, le più importanti delle quali sono la terribilizzazione degli eventi, la definizione di insopportabilità degli stessi, e la condanna globale di se stesso e/o degli altri. Noi non esitiamo quindi a sviluppare i nostri interventi sino ai massimi livelli gerarchici dell'organizzazione cognitiva dei pazienti, cioè laddove risiedono i principi della loro filosofia o ideologia del dovere.  E si comprende facilmente come allora ci troviamo spesso ad analizzare e discutere con i pazienti le regole morali che essi applicano a se stessi, agli altri e al mondo in generale. Regole che, come sostiene la nostra teoria, quando vengano imposte in modo dogmatico e assolutistico, sono capaci di provocare gravi disturbi emotivi e/o comportamentali all'individuo. Risulta pertanto evidente come la RET si interessi attivamente ad alcune importanti questioni della metaetica, dell'etica e della morale, ed abbia in proposito una precisa posizione che si potrebbe definire antidogmatica e relativistica nel senso accademico e non volgare del termine. In realtà ogni e qualsiasi forma di psicoterapia non può fare a meno di scontarsi con tali questioni perché non sono rari i pazienti che stanno male e fanno inutilmente stare male gli altri a causa di azione e comportamenti sbagliati, dannosi, scorretti e , se si vuole, "cattivi" o immorali. E siccome l'unica soluzione radicale dei concomitanti problemi emotivi sembra proprio la correzione o l'estinzione di questi comportamenti, uno psicoterapeuta che miri ad essere veramente efficace si trova costretto prima o poi a confrontarsi con le regole morali dei suoi pazienti e con la loro concezione di ciò che è bene e di ciò che è male.

L'intervento psicoterapeutico

Compito di uno psicoterapeuta RET a questo punto diviene non solo quello di aiutare il paziente a capire le origini dei suoi comportamenti sbagliati e controproducenti, ma anche di concordare insieme a lui un efficace programma di lavoro mirato alla loro definitiva estirpazione. Il primo passo dell'intervento sarà così quello di far rendere conto al paziente che i suoi comportamenti sbagliati, e che quindi in ultima analisi è lui il responsabile degli uni e degli altri. Ma se il paziente, trai vari processi cognitivi disfunzionali, intrattiene anche convinzioni di tipo doveristico - cioè un'ideologia etica dogmaticamente normativa e persecutoria del tipo "tu non devi mai sbagliare, e se sbagli significa che sei colpevole e non vali niente" - allora la presa di coscienza della sua responsabilità, invece di aiutarlo a conquistare la consapevolezza di poter quindi cambiare e migliorare ("se quanto faccio e come mi sento dipende da me, allora dipende da me anche comportarmi e sentirmi meglio"), rischia di farlo precipitare in una totale, disperata auto-condanna ("se non valgo niente, allora non c'è speranza di migliorare ed è inutile che ci provi ; anzi, è giusto che io continui a soffrire perché questa è la punizione che merito per la mia colpa")

Le regole morali

La peculiare posizione di Ellis e della RET - e, si parva licet, anche mia riguardo alle regole morali è quella di riconoscere il fatto che esistono comportamenti sbagliati e, se si vuole, immorali. Ciò che invece la RET non accetta è che possano esistere standard morali od etici da considerare assoluti, definitivi, o dettati da qualche supposta divinità. D'altra parte, però, se vogliamo vivere in una collettività più o meno civilizzata, è utile e talvolta necessario che esistano certi standard di condotta che aiutino a distinguere il bene dal male. La  RET sostiene che tali standard vanno fondati su quello che si può chiamare edonismo a lungo termine o socializzato, che si avvicina all'edonismo riflesso di tipo epicureo, ovvero a una specie di eudemonismo. Si tratta in definitiva di una umanistica impostazione di vita che consiglia di darsi da fare in primo luogo per la propria sopravvivenza, benessere, soddisfazione e piacere, tenendo ben presente che nella maggior parte dei casi i nostri più importanti scopi e interessi vengono serviti molto meglio rinunciando a gratificazione miopi ed immediate, e alla lunga spesso controproducenti, per ottenere invece ulteriori e maggiori vantaggi leggermente più differiti oppure ragionevolmente prevedibili nell'avvenire, ed offrendo considerazione, collaborazione e simpatia agli altri invece di provocarne l'ostilità. Poiché la RET rifugge da qualsiasi rigidità filosofica e ideologica, essa è naturalmente disposta a rispettare  qualsiasi altro standard di moralità che dimostri ragionevole coerenza interna, che sia approvato della maggioranza degli interessati e che non venga arbitrariamente imposto a chi ne dissente. Gli standard di condotta psicologicamente più "sani" sembrano tuttavia quelli formulati in termini di prudente calcolo edonico su concreti valori utilitaristici e non in termini di incondizionali imperativi con le loro inerenti conseguenze di colpa, condanna e punizione. Il ragionamento "morale" che insomma conviene aiutare il paziente a fare di fronte ad un qualsiasi errore è quello di 1) riconoscere che quell'azione è sbagliata perché, in prima o al massimo in seconda istanza risulta dannosa a se stesso o alla società in cui vive - e quindi in ultima analisi di nuovo a se stesso; 2) ammettere di esser responsabile di averla commessa ; e 3) decidere di riparare quanto è possibile riparare, e di lavorare sodo a non ripetere troppo spesso simili errori. In questo modo il paziente difficilmente proverà seri disagi emotivi, e sarà quindi più capace di darsi da fare per migliorare. La colpa e l'autocondanna globale per aver violato qualche imprescindibile dovere, il senso di subumana indegnità che ne consegue, la demonizzazione di se stesso, le previsioni di perdizione e punizione magari eterna, l'invidia per i puri o i redenti, l'odio per eventuali istigatori e complici, per il destino, le circostanze o l'universo tutto, talvolta per le stesse persone che cercano di dare una mano, sono invece all'origine della maggior parte dei più gravi disturbi psicologici, come ad esempio la depressione, l'ansia, l'autocommiserazione, la disperazione, l'angoscia, e l'ostilità verso se stesi e gli altri. E, ogni altra considerazione a parte, questi non sembrano certamente gli stati d'animo più adatti per impegnare energie e tempo nel difficile compito di cercare di comportarsi meglio.

Conclusioni

E' vero che talvolta il senso di colpa e le punizioni possono servire a correggere errori e torti, ma di solito sono estremamente inefficaci - come stanno a dimostrare alcune migliaia d'anni di severe e non di rado feroci condanne e persecuzioni sociali, religiose, giudiziarie e penali, che non sembrano però esser riuscite a diminuire di molto la quantità né la qualità dei misfatti perpetrati nel nostro mondo. Il che non significa che gli esseri umani, bambini e adulti, non debbano mai essere penalizzati per i loro errore, ma semplicemente che nessuno andrebbe giudicato e condannato globalmente per le sue cattive azioni, e che le eventuali punizioni andrebbero impartite in modo spassionato (come si fa in certi esperimenti di laboratorio) e non in modo colpevolizzante. Ellis scrive che un atteggiamento del genere potrebbe migliorare notevolmente la moralità umana, e che questi tipo di filosofia potrebbe forse offrire alla nostra civiltà l'occasione di trovare la strada verso un modello di vera e stabile salute mentale. Io mi permetto in tutta modestia di aggiungere che come psicoterapeuti possiamo intanto provare a discuterne con i nostri pazienti per aiutarli a stare bene.

 

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