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IN DIFESA DELLA LINGUA ITALIANA

 CESARE  DE SILVESTRI

One false spelling may fix a stigma upon a man for life Philip, Fourth Earl of Chesterfield (1694-1773) in una lettera al figlio 

Se da un lato insisto sull'opportunità -anzi, l'urgente ed estrema utilità e convenienza d'imparare l'inglese - dall'altro lato vorrei ribadire tutto il mio rispetto, affetto ed amore per quella che in fondo, nonostante le mie duplici origini, è spesso la mia prima lingua. Ora io vedo, e leggo, purtroppo anche nei libri e negli articoli che si piccano d'essere scientifici, e sento con le mie orecchie nei congressi e nelle discussioni professionali e accademiche, un crescente fiorire di termini ed espressioni che il più delle volte rappresentano soltanto volgari calchi italiani sulle parole originali inglesi, oppure scorrette traduzioni in italiano di parole inglesi con mostruose deformazioni del loro significato. Si tratta, secondo me, di uno dei tanti segni di un provincialismo e di un servilismo intellettuale che rinnegando le fonti stesse di una cultura e di una civiltà che pure sono state talvolta grandi e spesso rispettabili, rischia così di ridurle a mero ricordo storico, e di degradarle a fenomeno locale, indigeno, periferico. Si tratta del segno di una mancanza di spessore psicologico e persino umano che porta ad uccidere la propria lingua. Un vero e proprio suicidio linguistico, frutto della povertà d'intelligenza, di consapevolezza, di prospettiva e previsione del futuro. Un'indigenza d'auto-osservazione, un'incapacità d'autocritica pari soltanto all'ignoranza presuntuosa con cui si sproloquia su argomenti di riporto, marginali, tangenziali, periferici ai grandi problemi della scienza, della psichiatra e della psicologia, della cultura mondiale in genere o almeno di quella cosiddetta occidentale. Un'epidemia, una peste autoindotta mediante l'uso di cascami orecchiati dalla lettura inadeguata di testi stranieri o, peggio, dalle perfide e depistanti traduzioni, costellate di errori semantici, che gli spregiudicati esponenti dell'editoria italiana, simili a miserabili magliari interessati soltanto al rapido e disinvolto guadagno delle poche lire giornaliere, imboniscono sul loro povero mercato a danno degl'incauti o sprovveduti acquirenti. In un paese dove l'analfabetismo strutturale e per così dire endemico, sommato a quello di ritorno, raggiunge punte del 25% (vale a dire, una persona adulta su quattro ); dove il livello medio d'istruzione si arresta alle scuole elementari o poco più; dove la diffusione dei giornali è pari a quella dei paesi del terzo mondo; dove per la stragrande maggioranza della popolazione i libri sono oggetti misteriosi ed intoccabili; dove la più pervasiva fonte d'informazione e di "cultura" è rappresentata da programmi radiofonici e televisivi che pare poco definire spregevoli e comunque indegni di un paese che si proclama civile, non fa meraviglia che simili orrori linguistici trovino spazio, mercato e diffusione. Con la mia limitata cultura filologica ed i miei limitati mezzi intellettuali, vorrei tuttavia sottolineare il significato e l'importanza della lingua, non solo quale mezzo di comunicazione, di trasmissione dell'informazione. Mezzo che, se diviene ambiguo, incerto, oscuro, contraddittorio e inattendibile, rende difficoltoso e in ultima analisi impossibile qualsiasi colloquio, dialogo, ragionamento comune, e persino il discorso con sé stessi. Ma la lingua è importante anche e soprattutto quale segno distintivo e caratterizzante di cultura, di civiltà, di integrità ed identità collettivo e personale, di appartenenza a una collettività umana e d'individuale consapevolezza di tale appartenenza. Ora, a mio avviso, ma non soltanto mio, la lingua rappresenta contemporaneamente il passato, il presente e la potenziale proiezione futura di una cultura, di una civiltà, di ogni stirpe ancora viva. Testimonianza e memoria attuale che si sublima poi nella sua memoria storica, la più certa e meno falsificabile. Ricchezza operosa e creativa che viene poi tesaurizzata in gioielli letterari inestimabili, incorruttibili, non alienabili. Ed è anche speranza, garanzia e strumento di ogni progettualità a venire: l'eredità da trasmettere, non sterilmente intatta ma raffinata e perfezionata dall'uso, alle generazioni che si susseguono nel destino di un'etnia, di una nazione, di una cultura. Un'eredità che delle nuove generazione non va semplicemente e ritualmente conservata in vuote formule e regole, ma invece gestiva, coltivata, adattata, piegata e forgiata alle nuove necessità che le mutevoli condizioni materiali potranno suggerire. Un'eredità da ricevere e ritrasmettere come fiaccola di vita, come origine di vita, come la più profonda radice di vita, di vitalità, dello stesso esistere e perpetuarsi di un popolo. Togliere a una comunità, a un"etnia a un popolo o a un individuo la propria lingua, obbligarlo a parlare quella dei conquistatori, dominatori e colonizzatori, ha sempre significato ucciderlo nella sua identità di popolo o nella sua personale identità di membro di quel popolo. E' pur vero che come ogni vita, come ogni cosa viva, così una lingua cresce, evolve, progredisce e muta, nell'infinita varietà dei suoi adattamenti alla cultura e alla civiltà che incarna e rappresenta. Mai immobile nelle sue regole, mai sclerotizzata nella sue accademie, ma sempre vivace e creativa nei suoi dialetti, nelle sue innovazioni, nelle mode, nell'utile, fecondo e talvolta necessario, indispensabile scambio di prestiti e imitazioni con le altre lingue. Soltanto le civiltà scomparse finiscono mummificate e immobili nel monumentale sarcofago delle lingue morte. Disonorare, però, la propria lingua, corromperla e imbastardirla inutilmente, violentare il senso, il significato, la semantica delle sue parole, scardinarne la logica coerenza interna, non è per me soltanto un errore - grave quanto si vuole ma pur sempre correggibile. Non è soltanto un oltraggio alla sua purezza e dignità - fonte di qualsiasi altra dignità e purezza del pensare, del sentire e dell'agire - che può comunque sempre trovare il modo di riaffermarsi sin quando la lingua resta viva. E' piuttosto un cieco e folle attentato mortale alla sua intima natura di massima rappresentazione ed espressione di una cultura e di una civiltà, cioè alla sua stessa ragion d'essere. E contemporaneamente, per ineluttabile contrappasso e nemesi, diviene anche una specie d'imbecille e incosciente attentato suicida anche all'identità culturale, civile, e verrebbe da dire persino umana, di chi per ignoranza o altri più vili motivi si rende colpevole o complice di quest'ignobile e dissennata aggressione. E' insomma, secondo me, un altro fatale passo verso la morte di una lingua, di tutto ciò che una lingua rappresenta, del popolo che la parla e di ogni singolo membro di quel popolo. E viene da pensare che se il processo continua spensieratamente senza suscitare alcun riflesso di difesa e resistenza, allora significa che quella cultura, quel popolo e quei singoli non meritano evidentemente nulla di meglio. Patetiche esagerazioni retoriche? Forse soltanto lo sfogo di un vecchio filologo dilettante, di un amico e innamorato del logos, della parola, il quale rabbrividisce nel veder maltrattare, sfregiare e deturpare una cosa amata: il corpo, il volto, la bocca dolcissima di una tenera amante. E che tuttavia si augura che qualche lettore sia in grado di capire lo sfogo di questo superstite di un'epoca ormai sorpassata ma che, fra i tanti suoi atroci difetti, custodiva ancora qualche scintilla di orgoglio linguistico, culturale ed umano, ora sempre più difficile a trovarsi. Un'epoca dove la cortesia si chiamava "buona creanza", parlare si chiamava "ragionare" , e dove anche la parola, sia detta che scritta, pronunciata o promessa, affermata e data, aveva ben altra dignità, altro peso, altro spessore.

 

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