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Il libero arbitrio

Paola Locci

Una domanda che spesso mi pongo e che è un po’ sempre in sottofondo, come certe musichette fanno da sottofondo alle trasmissioni radio o televisive, è la seguente: Quando comincia la responsabilità di un individuo, considerando tutti i possibili impedimenti ad un sano ed equilibrato sviluppo della personalità? Se un individuo ha avuto seri problemi nell’infanzia e/o nell’adolescenza, e diventa adulto portandosi appresso delle problematiche non risolte, e sta male, e fa star male chi gli sta accanto, è responsabile di quanto deciderà di fare o non fare? Fino a che punto è responsabile? Da quale momento in poi diventa il protagonista delle proprie scelte? Cos’è che fa la differenza tra due persone simili, per età, esperienze, e problematiche? Perché una decide di fare qualcosa, capire, combattere, trovare una soluzione, eventualmente cercando un aiuto, e un'altra sembra che neppure si accorga dei propri problemi? In realtà, quasi tutti coloro che hanno dei problemi potrebbero avere delle valide spiegazioni per essere come sono: i genitori, il tipo di cultura, l’epoca storica, le circostanze più o meno avverse verificatesi, ecc. E naturalmente quelli prima di loro hanno le loro giustificazioni, dello stesso genere: genitori, cultura, epoca, contesto… Ma allora perché qualcuno decide che è il momento di spezzare questa catena? E’ meritevole chi si sforza di cambiare le cose, oppure è solo fortunato? E chi non si sforza di farlo, ne è responsabile oppure proprio non gli è possibile? Prendiamo un individuo violento. Quasi sempre ha avuto un genitore violento; ha appreso come unica (o quasi) modalità di relazione con gli altri, la violenza. Quindi litiga coi vicini e coi colleghi, aggredisce la moglie, picchia i figli. Come è possibile che non si renda conto che esistono altri modi di relazionarsi? Non conosce altre persone? Non vede come si comportano gli altri in situazioni simili? Come mai non scatta il confronto? Come dobbiamo considerare la capacità di autocritica, come un fatto casuale, come un dono del cielo? Vorrei qui ragionare su una delle tante ipotesi possibili, che appunto non è più di un’ipotesi, perché comunque da essa scaturiscono altre domande. A parità di fattori come l’intelligenza, le opportunità, le possibilità anche pratiche di informazione, conoscenza, ecc. e quelle che si chiamano occasioni, l’elemento dirimente potrebbe essere l’umiltà. Se si riesce ad ammettere che si può aver bisogno di qualcuno, o che qualcun altro potrebbe aiutarci, o che possiamo sbagliare laddove un altro può aver ragione, quasi sempre è possibile fare qualcosa. Per cominciare, è possibile imparare a vedere di sé e della propria situazione aspetti che è molto difficile vedere dal di dentro, ma che dall’esterno possono apparire chiarissimi. E’ cioè possibile acquisire la consapevolezza di ciò che non va, a cui segue inevitabilmente la voglia di reagire. Voglio dire, ognuno di noi ha qualche persona di cui si fida, a cui vuol bene, che stima e in cui ha fiducia: ora, se questa persona, (o magari più di una persona), ci fa notare qualcosa che ci sembra strana, estranea, che ci sembra non ci appartenga, il primo impulso è quello di negare, di respingere. Ma è anche possibile che in un secondo tempo ci ripensiamo, ci riflettiamo, e cominciamo a chiederci: “e se avesse ragione?”. E’ possibile che da quel momento cominciamo ad osservarci un po’ meglio da un punto di vista diverso. E’ anche possibile che accettiamo di discuterne con quella stessa persona. Tutto questo è molto costruttivo, salutare, e può rivelarsi a volte molto utile. Se invece si è convinti di sapere tutto di sé stessi, se si pensa che nessuno sia in grado di capirci e soprattutto di aiutarci, se si è convinti di avere sempre ragione e di non sbagliare mai, va da sé che è impossibile qualsiasi tipo di autocritica e men che meno di cambiamento. Ma, ammesso che l’umiltà sia davvero un elemento importante – anche se non l’unico – scatta di nuovo la domanda: chi non è capace di essere umile, ne è responsabile? E’ chiaro che un paranoico, per definizione, non riesce a fidarsi di nessuno. Ma, escludendo questa particolare forma di patologia, si sa che ci sono persone che ammettono i propri problemi, e persone che non li ammettono, tra gli ansiosi, tra i depressi, tra gli ossessivo-fobici, ecc. Una volta si usava, per distinguere le nevrosi dalle psicosi, proprio il criterio della consapevolezza, ma, senza entrare nel campo delle patologie gravi, è evidente che il grado di consapevolezza è spesso indirettamente proporzionale all’importanza dei problemi. Considerazioni di questo tipo possono sembrare speculazioni puramente accademiche, ma possono avere – anzi hanno – delle conseguenze anche sul piano pratico. Per esempio, in campo legale, è nota la difficoltà di stabilire se un certo omicida fosse o no in grado di "intendere e volere" al momento del delitto. In un certo senso la Legge è costretta a semplificare: dal momento che non si può entrare nella mente altrui, ci si deve necessariamente basare su elementi molto concreti. Quindi, se si riesce a dimostrare che un individuo sa che uccidere è male e ciò nonostante uccide ugualmente, per la Legge è colpevole. Ma la Psicologia vorrebbe, PresuntuosaMente, andare al di là di questo e capire un po' di più. Il cammino sarà lungo.

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