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      LA
      COMUNITA' PSICOTERAPEUTICA RESIDENZIALE E IL SUO CAMPO MENTALE 
      
       
       
      di LUIGI D’ELIA 
       
        
       
      INTRODUZIONE 
      Le esperienze delle Comunità Terapeutiche per il disagio psichico nascono
      e si sviluppano nell’alveo della complessa trasformazione scientifica e
      storico-culturale che dal dopoguerra ad oggi ha caratterizzato
      l’intervento sulla gravità e le emergenze psichiatriche in genere. Fu
      l’ultima guerra, negli anni ‘40, con i suoi disastri e i suoi
      contraccolpi psicologici, a far comprendere a pionieri quali Bion, Foulkes
      e Main in Inghilterra, Sivadon, Tosquelles e Oury in Francia, non solo
      dell’opportunità economico-strategica, ma soprattutto dell’opportunità
      clinica dell’intervento gruppale e della trasformazione di reparti
      ospedalieri in comunità terapeutiche. Non sembra affatto una casualità
      l’associazione storica guerra-gruppo-comunità terapeutica: il
      conflitto, la crisi collettiva delle coscienze, la possibilità di un
      olocausto totale, le ideologie che come fantasmi primordiali prendono vita
      e trascinano le folle, la minaccia alla democrazia; tutto ciò pare abbia
      attivato esattamente le tendenze opposte della cooperazione, della
      circolazione fruttuosa delle idee e degli affetti, di leadership non
      oppressive, che facilitano la crescita e l’individuazione delle risorse
      individuali al servizio del gruppo e viceversa (quasi come se fosse stata
      necessaria una guerra per ricordarci il potenziale distruttivo delle folle
      e le effettive potenzialità dei gruppi umani). Un mito di fondazione,
      quello dei gruppi terapeutici e delle CT, che trae dal caos -
      dall’equazione folla=follia - la sua forza ordinatrice, in un ideale
      passaggio dal gruppo acefalo e distruttivo al gruppo terapeutico. In
      ambito filosofico-scientifico, la storia di questa trasformazione di
      orientamenti, di metodologie, ma anche di setting e di tecniche, è anche
      la storia, se vogliamo, di un ideale percorso della psicoterapia da
      un’humus epistemologico “tradizionale” cusalistico-lineare e
      deterministico, ad un’epistemologia della complessità per la quale sono
      valide nozioni come pluralismo evolutivo, circolarità, molteplicità,
      campo probabilistico (Aparo-Casonato-Vigorelli; Lo Verso); ma è anche la
      storia, nella clinica, della progressiva inclusione di elementi del
      contesto di appartenenza del paziente come ulteriori e successivi
      arricchimenti ai setting tradizionali. Con la psicosi e con la gravità in
      genere, è diventato oggi imprescindibile l’allargamento
      dell’orizzonte d’azione della psicoterapia e dei setting che essa
      allestisce. Occorre cioé andare sempre più incontro alla realtà
      psicopatologica della persona intesa non più solo come una faccenda
      individuale e strutturale, ma anche come un problema relativo alle reti
      relazionali più prossime all’individuo (famiglia, gruppi di
      riferimento) e, ancora, al contesto più allargato della socio-cultura di
      appartenenza della persona. Ed infatti, sembra sempre meno giustificabile
      l’approccio alla psicosi e ai disturbi gravi attraverso una
      “monocultura” dell’intervento, o attraverso l’utilizzo di
      strumenti terapeutici univoci e modellisticamente uniformi. Non solo
      dunque tendono ad integrarsi i differenti approcci e i vertici di
      osservazione anche inizialmente più lontani, ma si tende sempre più a
      superare le oramai obsolete dicotomie:
      riabilitativo/terapeutico,contenitivo/interpretativo, supportivo/espressivo,
      intrapsichico/interpersonale, individuale/gruppale, nella direzione di
      un’ottica integrata e globale. L’idea di setting contenuta in questo
      articolo (setting inteso come campo mentale) vuole essere un’idea
      essenzialmente antropologica. Il campo mentale è dunque qui inteso come
      una faccenda socio-culturale, cioè come un ambiente fisico-umano che con
      le sue caratteristiche e la sua storia è in grado o meno di contenere il
      disagio psichico e di “scioglierlo”. Esiste una sensibile differenza
      relativa al decorso delle patologie mentali nelle diverse culture a fronte
      di una sostanziale parità di prevalenza, a parità cioè di persone che
      mediamente si ammalano di psicosi in tutto il mondo. Ciò che cambia, a
      seconda della collocazione etno-geofrafica, è dunque la capacità di
      certe culture (parliamo di paesi del terzo mondo) di “sciogliere” la
      malattia mentale e di assorbirne i contraccolpi al suo interno;
      all’interno cioè di una trama di significati, codici e rappresentazioni
      socio-culturali che ne diluiscono gli effetti devastanti. Qui da noi, in
      occidente, credo che la situazione sia alquanto diversa: siamo costretti a
      tamponare il problema della malattia mentale utilizzando metodi,
      rappresentazioni e strategie frammentari che segnalano e attestano la
      fatica della nostra cultura ad inquadrare e tollerare la follia. E i
      risultati si vedono (nonostante i farmaci). La CT residenziale assume
      forse allora un’ulteriorità di senso alla luce di queste considerazioni
      che c’incoraggia a proseguire la ricerca provando però a guardare in
      altre direzioni. L’ambiente di CT diventa allora un laboratorio a tutto
      campo di ricerca sulla condizione umana e sul dolore e non più o non solo
      una “psicoterapia” alternativa. 
       
       
      INTERVENTO RESIDENZIALE E TIPOLOGIA DI UTENZA 
      Fatte queste doverose premesse, voglio introdurre il tema dello specifico
      di CT, partendo da un tentativo di definizione di contesto. Ma alle
      domande: che cosa è una Comunità Terapeutica, come e perchè
      “funziona”, non è certo facile rispondere: mancano infatti i criteri
      e i dati relativi ai processi di valutazione e validazione dei metodi,
      strategie, principi efficienti, che in modi talora diversissimi hanno
      caratterizzato questo tipo d’intervento. Possiamo però cominciare col
      dire che l’intervento comunitario è innanzitutto un intervento che
      utilizza la residenzialità prolungata (temporanea e di medio termine)
      dell’ospite a fini terapeutici; esso quindi si caratterizza in primo
      luogo per: 
       
      1- La continuità del rapporto paziente-CT: la presa in carico della
      persona e dei suoi bisogni fondato sulla relazione prolungata nel tempo e
      intensiva nel quotidiano, all’interno di una situazione gruppale
      permanente. 
       
      2- La discontinuità del rapporto paziente-famiglia: il temporaneo
      allontanamento (ma non assoluto) dalla famiglia, nei casi in cui questo
      sia reso necessario per il trattamento. 
       
      (Torricelli F.D., 1997) 
       
      Occorre subito precisare che tali modalità vanno a definire un campo
      d’azione delimitato, nonchè un’utenza ristretta: la CT non è certo
      la panacea o la risposta definitiva al problema della sofferenza mentale (Main),
      ma è una delle tante risposte possibili all’interno di una
      (immaginabile) rete articolata e differenziata di servizi alla persona,
      con obiettivi e metodi peculiari che ne delineano la specificità. Ed
      ancora, restringendo l’indagine all’interno delle possibili risposte
      di tipo “comunitario-residenziale”, possono coesistere diverse
      tipologie di strutture per differenti tipologie di utenza con differenti
      bisogni In realtà la gran parte delle CT lavorano su un’utenza di
      pazienti “cronici” o su un’utenza mista, e sembrerebbe che siano
      davvero rare le esperienze comunitarie che definiscano una precisa scelta
      di campo rispetto alla selezione degli ospiti. Questa insufficiente
      definizione non aiuta certo, a mio parere, né le CT a focalizzare il
      proprio specifico, né i pazienti ad orientarsi verso una CT anziché
      un’altra, per cui accade ancora troppo spesso che le domande
      terapeutiche si schiaccino drammaticamente sulle poche offerte a
      disposizione, spesso ricercate disperatamente, e a volte inadeguate. La
      nostra esperienza ci suggerisce criteri selettivi per i quali l’uso
      dell’intervento residenziale, temporaneo ed intensivo, sia soprattutto
      finalizzato in senso preventivo (di tipo secondario o terziario), ma anche
      terapeutico, per un’utenza in grado di usufruire realmente di
      un’offerta terapeutico-riabilitativa attivante e trasformativa. Della CT
      pare giovarsi, con ottimi risultati, soprattutto quella parte di pazienti
      psicotici giovani “con potenzialità evolutive” (Gazale-Stuflesser-Vigorelli),
      con i quali sia possibile costruire un’alleanza di lavoro e una
      continuità terapeutica sufficiente che sia propedeutica per un lavoro
      sempre più mirato di ricostruzione, ristorificazione e
      abilitazione-riabilitazione di capacità personali e sociali, e per i
      quali è consigliabile un distacco temporaneo dal contesto familiare, pur
      coinvolgendo la stessa famiglia nel progetto terapeutico con modalità
      differenti. Quest’ordine di precisazioni non va a definire con esattezza
      categorie nosologiche, quanto piuttosto una variegata fascia di utenza per
      la quale gli aspetti di cronicità, gravità, fattori familiari, fattori
      longitudinali, aspetti dell’esordio e del decorso, e aspetti della
      sintomatologia (Pao), consentano di svolgere un lavoro basato sulla
      relazione e sulla partecipazione quotidiana ad un contesto gruppale. Va
      fatta perciò un’analisi della compatibilità dell’intervento
      comunitario che varierà a seconda degli obiettivi e dei modelli
      terapeutici tipici di ogni tipologia comunitaria, ma soprattutto occorre
      valutare, attraverso meticolosi processi diagnostici, a quali bisogni
      evolutivi s’intende tentare di rispondere, quali progetti è possibile
      attivare e a quali rischi di neo-istituzionalizzazione si può andare
      incontro. 
       
      LA COMUNITA' “PSICOTERAPEUTICA” E I COSIDDETTI “FATTORI
      TERAPEUTICI” 
      Una terza definizione di contesto riguarda la “qualità terapeutica”
      della Comunità per la quale essa è “Terapeutica” per: 
       
      3- L’orientamento psicoterapeutico: ovverossia, l’équipe appartenente
      alla CT è portatrice di modelli terapeutici, impliciti ed espliciti, è
      in formazione permanente, concepisce se stessa ed opera come “parte
      terapeutica” del contesto, è in grado di allestire ambienti (fisici e
      psichici) idonei dei quali conosce e stabilisce le coordinate
      organizzative e affettive (setting) all’interno di una (relativa)
      cornice previsionale di percorso. 
       
      L’orientamento psicoterapeutico di una CT, aggiungiamo, è dato anche
      dalla sua particolare “natura istituzionale”, dalla capacità cioé
      dei suoi artefici di revisionare i propri presupposti storico-fondativi e
      modellistici all’interno di una continua dialettica
      conservazione/cambiamento: tale caratteristica ne fa un’istituzione
      “fluida” e flessibile, capace cioé di allestire situazioni curative
      “istituenti” piuttosto che “istituite”. 
      I principi sui quali si può fondare l’orientamento psicoterapeutico
      della CT possono essere i più disparati, e corrispondono in genere a
      quelli prevalenti nella cultura psicoterapeutica in ciascun momento
      storico. Occorre segnalare però, a questo punto, il rischio di
      giustapposizione di modelli teorico-pratici nati e sviluppati in contesti
      del tutto differenti, e mutuati ed applicati nella “clinica
      comunitaria”, in un contesto cioè che, per la sua complessa specificità,
      non può essere assimilato ad alcun altro. Questa operazione può talora
      condurre a vere e proprie “derive metodologiche” se non a drammatiche
      distorsioni mistificanti per le quali la CT diventa un contenitore vuoto
      dentro cui si agiscono rigidamente e si sommano gli interventi
      “terapeutici” senza alcuna nozione di campo. Si rende necessaria perciò
      una maggiore riflessione sulle caratteristiche del lavoro di CT, su cosa
      in particolare lo differenzia dagli altri setting terapeutici, su quali
      sono i dati salienti e i fattori di efficacia. 
      La CT dunque è una realtà del tutto a sé stante che richiede una
      profonda revisione teorico-tecnica e un radicale cambio di rotta rispetto
      ad altri contesti terapeutici, se non altro perché in CT la
      multidisciplinarietà e l’integrazione degli interventi s’impone come
      metodo. Forse allora occorrerebbe porre l’attenzione maggiormente sul
      “campo mentale” di una CT, sulla sua costituzione e fondazione. Questo
      cambiamento di focus c’indurrebbe a considerare la “terapeuticità”
      di una CT in massima parte nella sua storia, nell’aspecificità degli
      elementi fondativi, nel suo particolare “clima terapeutico” piuttosto
      che nella sua organizzazione o nel suo modello teorico di riferimento.
      Tale cambiamento di ottica corrisponde ad affermare, in un certo senso ed
      in maniera anche piuttosto esplicita, coordinate nuove o, se vogliamo, un
      differente “sistema di valori” rispetto a ciò che comunemente viene
      definito come “fattore terapeutico”. Siamo infatti convinti che in una
      CT ciò che in psicoterapia generalmente viene considerato
      “aspecifico” assuma quasi paradossalmente una sua cogente e spiccata
      “specificità” diventando assolutamente determinante nel destino di
      quella CT (e dei suoi ospiti); ci riferiamo ad esempio a fattori di
      complessa analizzabilità quali: 
       
      · la cultura istituzionale: miti fondativi, storie, antropologie,
      declinazioni organizzative; 
       
      · la formazione dell’équipe: non intesa qui soltanto come apparato di
      conoscenze tecniche o di titoli accademici (pur necessari), quanto
      piuttosto come capacità dell’équipe di essere coesa e di costituire un
      campo mentale autenticamente “terapeutico”, di avere un pensiero
      clinico abbastanza condiviso, di realizzare processi d’integrazione, di
      assumersi la responsabilità della presa in carico, di essere capace di
      processi osmotici (relazionali, affettivi e produttivi) con la comunità
      allargata e con la comunità scientifica; 
       
      · i processi relativi all’appartenenza: che riguardano sia gli ospiti
      che gli operatori e che definiscono i percorsi dell’identità: ci
      riferiamo alla multiappartenenza di ciascuno di noi attraverso la
      famiglia, le istituzioni, i ruoli lavorativi, i gruppi sociali ristretti e
      allargati. L’attraversamento dell’ospite nella CT e nel suo sistema
      spazio-temporale, simbolopoietico e valoriale diventa in questa ottica non
      un fattore incidentale e contingente, ma il punto centrale della terapia; 
       
      · la quotidianità interstiziale e il clima terapeutico della CT:
      l’universo inesplorato di fatti, interazioni, relazioni dei momenti non
      strutturati, che come afferma Roussillon, godono dello statuto di
      “extraterritorialità” rispetto ai momenti organizzativi codificati, e
      che noi ben sappiamo quanto incida sul percorso terapeutico di ogni
      ospite. Questo fattore è a corollario del precedente poiché se assumiamo
      l’appartenenza al campo mentale della CT come elemento trasformativo,
      l’osservazione e l’attenzione sul clima quotidiano della CT e i
      movimenti dell’ospite al suo interno nelle situazioni più informali,
      diventano i principali indicatori di efficienza del lavoro terapeutico
      della CT. 
       
      L’analisi del campo mentale di una CT richiederebbe dunque l’analisi
      approfondita di ciascuno di questi punti (e probabilmente di altri ancora)
      che qui vengono soltanto accennati, secondo metodi anche molto lontani
      dalla ricerca in psicoterapia e in psicologia, e forse più vicini alla
      ricerca antropologica. 
       
       
       
      LA QUOTIDIANITA' 
      La principale e più evidente differenza tra la situazione di CT ed ogni
      altra risiede nell’inclusione, all’interno del setting di CT, della
      vita quotidiana del paziente e della partecipazione ad essa da parte di
      un’équipe polivalente, tanto da fare affermare a qualcuno che il
      setting di CT non è altro che la sua quotidianità. La quotidianità in
      CT non può ridursi né nello spontaneismo, né nella “tecnica” o
      nella bontà organizzativa, bensì essa si fonda sul continuo ripensamento
      dei significati che attraversano i mille fatti e le mille interazioni in
      CT in ogni sua giornata, sulle infinite riflessioni che gli operatori e
      gli ospiti condividono, su ogni segmento della vita di CT, sulla capacità
      che l’intero gruppo di CT dimostra nell’essere flessibile, dinamico,
      evolutivo (in grado cioè di migliorare i propri standard di vita), ma
      anche nell’essere tollerante, contenitivo, riparativo, fiducioso. È
      possibile definire tutto questo come la matrice terapeutica della
      convivenza che è legata ai fattori aspecifici precedentemente citati. La
      CT, inoltre deve poter essere un ambiente domestico, vivibile, non
      medicalizzato, ma anche contenitivo e protettivo, con determinate regole
      di vita che vengono settimanalmente discusse da tutti nello spazio
      dell’assemblea. Il quotidiano di CT sfugge facilmente sia
      all’osservazione che all’attenzione “scientifica”: ciò che accade
      nei momenti non strutturati, nelle a volte lunghissime giornate, nei
      momenti di noia o viceversa di tensione, nei vasti meandri interstiziali
      che riserva un qualsiasi giorno in CT, con i suoi mille scambi e mille
      situazioni, è il pane quotidiano del lavoro di CT: solo l’attitudine
      transizionale dell’équipe, l’esercizio condiviso, allo scambio,
      all’alternanza continua tra illusione(speranza)-delusione-disillusione,
      nonchè la capacità di lettura e attribuzione di senso di ogni scambio,
      costituirà quell’humus naturale che ontogeneticamente precede la
      capacità simbolica. Esiste una psicopatologia dell’esperienza
      transizionale che è quella che essenzialmente ci presentano i nostri
      pazienti di CT e per la quale l’individuo mostra un radicale
      disinteresse per lo scambio, un’incapacità di preoccupazione, una
      mancanza o carenza di capacità ludica, un’incapacità di lavoro e di
      continuità nelle attività, a talora anche una piattezza e banalità di
      pensiero e argomentazione. Solo nel contatto quotidiano con la psicosi è
      possibile osservarla, pensarla e ripensarla, diversamente
      dall’ineluttabilità dell’impotenza verso cui continuamente ci
      sospinge. Ma perchè ciò sia possibile occorrono dei “sistemi di
      sicurezza”, degli accorgimenti tecnico-organizzativi che consentano agli
      operatori di entrare ed uscire continuamente dalle relazioni, dal clima
      psicotizzante della CT, per potersi conquistare quella “giusta
      distanza” che faccia salva la “funzione pensante” e rappresentativa
      presente nel campo mentale: dei “doppi livelli” o livelli multipli di
      riflessione, come le supervisioni, le riunioni di équipe, i confronti con
      altre esperienze ed altre realtà, etc. L’organizzazione del quotidiano
      di una CT allora non può che essere la rappresentazione sulla scena
      quotidiana di una mente sana, viva e creativa, una mente-ambiente che
      costituisca una gestalt sovraordinata, una rappresentazione
      “trascendente” capace di operare i processi trasformativi e di
      neo-significazione procedendo dalla “cronaca” dei fatti, delle azioni
      di tutti i giorni, fino alla “nuova storia” degli individui e del
      gruppo nel suo insieme. Se in una CT si attiva un pensiero condiviso ed un
      comune linguaggio nell’équipe, se cioè si promuove una “cultura di
      gruppo” che sia orientata da questa trans-scena che a sua volta
      rappresenta una mente sana, viva e creativa, il quotidiano confronto di
      ogni operatore con la sconfinata apatia o con la noia degli ospiti, o con
      il loro fatalismo o impotenza, o ancora, con la loro oppositività, il
      loro negativismo, la loro paura e violenza, la loro fragilità, ebbene,
      tale quotidiano confronto potrà essere alla pari e talvolta vincente, e
      l’operatore non si sentirà perciò mai solo: ogni sua attività,
      seppure la più umile e semplice, diventa un tassello di un mosaico, di
      paziente co-costruzione di un quadro più integrato e organico; e ciò che
      avviene al di fuori dell’ospite di CT, nell’ambiente umano e non umano
      che in quel momento lo contiene e lo nutre, ma anche nell’ambiente
      “microculturale” costituito dalla CT, potrà diventare il suo nuovo
      “cibo per la mente” di cui lui potrà appropriarsi (Searles, 1965). La
      “teoria della mente” d’ispirazione comunitaria si costruisce come
      tentativo di risposta al problema della psicosi osservata però
      dall’osservatorio privilegiato rappresentato dal quotidiano e dalla sua
      matrice terapeutica: l’ampliamento dello spettro osservativo ci pone,
      come osservatori, in condizioni analoghe a quelle dei contemporanei di
      Galileo allorché, ponendo l’occhio sul telescopio, continuavano ad
      osservare ciò che già supponevano di conoscere. È senz’altro
      possibile affermare che la principale e più evidente differenza tra la
      situazione della CT e ogni altra risieda proprio nello strumento
      osservativo che la residenzialità costituisce per i curanti: la
      quotidiana e compartecipata frequentazione della psicosi ci costringe a
      rapide ed impensate integrazioni, a brusche revisioni, proprio perché ciò
      che è sotto i nostri occhi è l’ “agito della mente”, presente
      nell’hic et nunc in tutte le sue possibili topografie e dimensioni. È
      per questo che, nella quotidiana prassi di una CT, l’équipe è
      costantemente sottoposta a sollecitazioni “psicotizzanti” che
      ripropongono al suo interno gli insanabili conflitti di cui sono portatori
      gli ospiti residenti: partendo da questo isomorfismo, ha inizio la
      terapia. 
       
       
      AREE MENTALI E LIVELLI FUNZIONALI: UNA GRIGLIA OSSERVATIVA 
      Nella nostra esplorazione del setting di CT, abbiamo riportato
      l’esigenza, per questo tipo d’intervento, di fare riferimento alla
      globalità e alla gruppalità della situazione comunitaria come requisito
      essenziale del funzionamento della CT. Questo non significa immaginare la
      CT come un blocco monolitico che, come una struttura rigida, si muove
      tutta insieme e senza mediazioni: la globalità e la gruppalità che
      attengono al setting sono ascrivibili alla rappresentazione mentale
      dell’équipe e dei pazienti di una delle dimensione sistemiche della CT,
      quella che riguarda la CT come macro-sistema, che ha a che fare con il
      concetto di totalità come espressione del Sé. Possiamo immaginare questa
      totalità macro-sistemica come una delle possibili metafore della mente
      umana. Non si presume qui certo di esaurire il concetto di mente umana
      iscrivendolo forzosamente all’interno di un contesto ristretto come
      quello di Comunità Terapeutica, ma s’intende invece descrivere la
      Comunità Terapeutica come una mente umana. Questo ci consente di
      visualizzare il passaggio che avviene in CT tra ogni “area mentale” e
      la sua “declinazione funzionale” all’interno della sua
      organizzazione. 
       
      Le aree mentali 
      Una CT che funziona come una mente sana, viva e creativa, è una CT che è
      innanzitutto in contatto con il senso del limite: il limite del sistema
      che non è in grado compiutamente d’indagare se stesso; il limite di una
      “storia”, unica e irripetibile (quella di ogni CT e del suo gruppo
      fondatore), che tende “fisiologicamente” a conservare la propria
      identità personale. Accanto a questi limiti “a monte”, ve ne sono
      innumerevoli altri relativi ai concetti stessi di “cura” e di
      “guarigione”, ma anche, più banalmente, i limiti personali degli
      individui e delle loro possibilità, i limiti economici che talvolta sono
      decisivi nelle (non) scelte terapeutiche delle CT, i limiti della
      socio-cultura di appartenenza in cui si muove ogni CT. Posti i vincoli, è
      possibile esplorare le possibilità. Se consideriamo la mente come la
      coesistenza di aspetti antinomici, dovremo sforzarci di pensarla
      contemporaneamente come unitaria e molteplice (ma anche conscia e
      inconscia, femminile e maschile, digitale e analogica). L’assetto
      comunitario si pone isomorficamente in corrispondenza dialogica con la
      co-presenza degli aspetti antinomici e pluralistici della mente,
      consentendo una dialettica trasformativa e feconda tra di essi e, nello
      specifico, tra gli aspetti della patologia e gli aspetti della salute
      mentale. Il dialogo tra le parti può rappresentarsi di volta in volta su
      scenari sempre diversi, e allo stesso tempo su tutti gli scenari. 
      L’organizzazione di una CT deve poter consentire flessibilmente la
      rappresentazione sui molteplici scenari (in tal senso, l’approccio
      comunitario alla gravità è un approccio eminentemente di contesto, sul
      contesto, attraverso il contesto). Esistono dunque differenti aree della
      mente rappresentabili secondo una disposizione circolare e sincronica, ma
      anche allo stesso tempo lineare e diacronica: 
       
      · un’area duale (l’area della relazione primaria); 
       
      · un’area di piccolo gruppo (l’area delle relazioni più prossime:
      famiglia reale o fantasmatica); 
       
      · un’area di gruppo allargato o mediano (l’area dell’appartenenza
      “microculturale”); 
       
      · un’area sociale (l’area dell’appartenenza “macroculturale”-metacontestuale-antropologica). 
       
      Con questo schema non s’intende presentare un modello d’intervento,
      quanto piuttosto, e più semplicemente, una delle tante possibili griglie
      osservative. Se consideriamo l’assetto patologico come una condizione
      pervasiva che investe, in modo e misura differenti, tutti i livelli di
      funzionalità, da quello duale fino a quello sociale, l’ambiente di CT
      si costituirà come “contesto riabilitativo” ad ampio raggio
      contemplando interventi mirati sulle singole aree mentali e un intervento
      integrato sull’insieme delle aree mentali, a seconda dei bisogni e dei
      profili di ciascun paziente. Ogni area mentale deve poter trovare,
      all’interno dell’organizzazione di CT, un suo campo di significazione
      ben preciso, una sua “zona franca” ove sia possibile declinare la
      specifica dinamica relativa al funzionamento di ogni specifica area: ogni
      area avrà dunque un luogo, previsto organizzativamente, dove poter
      registrare, leggere, pensare e restituire. Secondo la loro
      rappresantibilità circolare, ogni area è transizionale rispetto a tutte
      le altre; secondo la loro rappresentabilità lineare, vi è un vettore
      evolutivo che procede dal livello duale a quello sociale. La CT
      “funziona” soprattutto nel primo modo: opera cioé sulla
      transizionalità circolare delle aree mentali; ma la CT opera anche,
      linearmente, come istanza di differenziazione. Non è pensabile, sulla
      base di quanto andiamo affermando, un lavoro di CT che non prenda in
      considerazione la globalità della situazione comunitaria come principio
      cardine del setting di CT: 
       
      · la globalità spazio-temporale di assetto della CT; 
       
      · la globalità del campo relazionale; 
       
      · la globalità del percorso terapeutico. 
       
       
      La scena duale 
      L’area duale è il luogo della sintonia con gli elementi di regressione
      del paziente grave ed il luogo della dinamica transferale (in senso lato).
      Il suo bisogno di referenzialità “forte” e individualizzata non può
      essere inteso soltanto come bisogno difensivo pre-edipico, ma anche come
      necessità imprescindibile di sostegno e contenimento personalizzato.
      Rispettare la bi-dimensionalità simbiotico-fusionale del paziente grave
      (con tutti i suoi correlati evacuativi, proiettivi, divoranti,
      totalizzanti) considerandola come una risorsa, anzichè come un limite o
      un ostacolo da superare, consente di partire da un terreno di potenzialità.
      Sul campo delle relazioni duali si giocano spesso le partite più
      importanti, si possono evidenziare i bisogni più antichi, le
      disfunzionalità più profonde, i segreti meno condivisibili. L’ascolto
      accogliente e attento di un operatore (uno in particolare e stabile) verso
      l’ospite di CT, la sua capacità di tenerlo a mente, di rappresentarlo
      quotidianamente nelle istanze più arcaiche, di proteggere le sue fragilità
      narcisistiche dalle aggressioni della realtà, fino a sostituirsi a lui
      nei momenti di difficoltà, laddove non ci possono essere né parole né
      pensieri che lo rappresentano; la possibilità ancora di questo operatore
      di sintonizzarsi con l’ospite sul registro del fare quotidiano, di
      costruire con lui “pezzi” sempre più articolati di azioni finalizzate
      perchè pensate all’interno di una relazione; la possibilità di un
      confronto intimo e speculare, che apra la strada a nuovi processi
      d’identificazione, seppure attraverso l’idealizzazione o le dinamiche
      schizoparanoidee dell’identificazione proiettiva, ebbene, tutto questo
      deve poter essere previsto e deve potersi dispiegare nella CT nel faticoso
      contatto quotidiano con il paziente grave. 
      L’area duale è allora anche il luogo della instancabile ricerca
      dell’alleanza con l’ospite di CT, un’alleanza che non sia fine a se
      stessa, che non si risolva cioè in una “faccenda a due”, ma che sia
      propedeutica all’ampliamento dell’orizzonte relazionale, alla
      comprensione e significazione dei fatti che avvengono nei diversi contesti
      quotidiani all’interno e all’esterno della CT. L’area duale è un
      ponte che consente all’ospite innanzitutto di ambientarsi nella nuova
      realtà e successivamente di proseguire un suo percorso in CT protetto e
      rappresentato da qualcuno che si occupa e si preoccupa di lui, un
      operatore capace di mediare laddove il paziente non sia in grado di farlo,
      vicariandolo come “filtro” nelle svariate interazioni istituzionali
      (con i servizi invianti, con la famiglia, con le istanze interne alla CT,
      con il sociale). 
       
       
      La scena del piccolo gruppo 
      Questo livello funzionale della mente è il luogo della fantasmatica
      familiare, il campo cioé di rappresentazione del teatro familiare
      interno, delle sue trame e dei suoi copioni (che nelle gravità diventano
      “sintomi”, rappresentazioni autoreferenziali che tendono
      cancerosamente a riprodursi sempre identiche a se stesse), il campo
      dell’affettività e dei sentimenti “familiari” e delle sue modalità
      dinamiche. F.Fornari, parla di fondazione immaginaria del collettivo, con
      un proprio vocabolario minimo ed una propria codificazione costituita da
      pochi essenziali simbolizzati (i coinemi) i cui scopi sono sia quello di
      fornire un modello mentale di significazione interrelazionale, sia di
      “programmazione istituzionale”. Quest’ottica si avvicina molto
      all’idea del gruppo interno come fondazione multipersonale della mente.
      La matrice familiare è rappresentabile sia attraverso i simbolizzati dei
      codici affettivi parentali della famiglia (padre, madre, figlio,
      fratello), sia attraverso le modalità rappresentative relazionali
      peculiari di ogni famiglia. Un ospite di CT attiva automaticamente
      all’interno del campo gruppale allargato il suo personalissimo piccolo
      gruppo familiare e la sua specifica fantasmatica, dislocandola
      nell’ambiente e spazializzandola proiettivamente sulle figure reali e
      fantasmatiche dell’équipe e del gruppo di compagni. Così come abbiamo
      già detto a proposito dei movimenti regressivo-fusionali dell’area
      duale, la riproposizione nell’attualità del “sintomo” familiare
      fantasmatico interiorizzato, non è un ostacolo, bensì un altro punto di
      partenza della terapia comunitaria. Farsi carico di questo per una CT vuol
      dire essenzialmente allestire uno spazio di pensiero sulla peculiarità
      delle dinamiche relazionali di piccolo gruppo. In questo caso, il
      contenuto delle relazioni non è più il transfert all’interno di uno
      scambio binario, bensì la matrice di gruppo all’interno di uno scambio
      multipersonale traspositivo. Tale campo mentale rappresentato dalla
      matrice di piccolo gruppo assumerà però, all’interno di una comunità,
      significati coerenti con la situazione particolarissima che contestualizza
      l’intervento di CT, che, come già detto, si caratterizza per i fattori
      della residenzialità e della quotidianità, nonchè per la gravità dei
      pazienti presenti in CT. Il lavoro di “dinamizzazione” delle matrici
      patologiche personali e familiari degli ospiti passa perciò,
      nell’intervento di CT, attraverso un preliminare e faticoso lavoro
      sull’analisi puntuale della convivenza, dell’appartenenza e della
      “ritualità”, e attraverso un paziente lavoro di “analisi della
      realtà quotidiana” nella instancabile e costante co-costruzione dei
      progetti, terapeutici e di vita, condivisi tra l’équipe e il singolo
      paziente. La cultura della condivisione si attiva in prima istanza nel
      piccolo gruppo e in seconda istanza in quello allargato: questo apre la
      strada ai fenomeni del rispecchiamento e all’apprendimento
      interpersonale su di sé e sui propri sentimenti. Occorre però tenere
      presenti le esigenze di contenimento e regolazione di alcuni pazienti
      gravi: il piccolo gruppo deve poter assolvere anche a queste funzioni
      basiche considerandole come fondanti della coesione di gruppo e quindi
      come fondanti la coesione del Sé. In questo senso, il riferimento
      personalizzato di ciascun ospite con un operatore deve potersi integrare
      con il riferimento di quello stesso ospite ad una piccola équipe che si
      prende cura di lui e, più in generale, ad un campo di piccolo gruppo
      (costituito da operatori e ospiti) di appartenenza privilegiata dove
      possano dispiegarsi le differenti rappresentazioni e le differenti
      funzioni. L’ospite di CT troverà un posto sia nella mente di un
      operatore (ma anche, se opportuno, di un terapeuta individuale) sia nella
      mente di un gruppo. E’ impensabile che un solo operatore possa farsi
      esclusivamente carico della psicosi di un paziente e che da solo
      rappresenti per lui le istanze combinate di accoglienza-sostegno,
      normatività, alleanza e principio di realtà. Il piccolo gruppo è allora
      quello spazio elettivo e protetto dove poter introdurre, con modalità non
      persecutorie, il principio di realtà. La collocazione del piccolo gruppo
      va però vista all’interno di un assetto globale dove coesistono tutti
      gli altri livelli funzionali ai quali il livello di piccolo gruppo va
      integrato. Il lavoro d’integrazione deve avvenire a livello di
      elaborazione dell’équipe complessiva della CT nei termini di
      comunicazione efficiente tra le parti e di riflessione permanente sul
      modello. 
       
       
       
      La scena del gruppo allargato o mediano 
      Il gruppo allargato di una CT corrisponde, in termini strutturali (non in
      termini di modello terapeutico), alla definizione di De Maré relativa al
      gruppo mediano costituito da un numero di componenti compreso circa tra
      20-40, considerando la co-presenza nel campo mentale di ospiti e
      operatori; una struttura antropologica di base intermedia tra la famiglia
      e la società. Lo studio delle dinamiche del gruppo intermedio è appena
      agli inizi. 
      Il gruppo allargato utilizza, secondo De Maré, lo strumento della
      “cultura” intesa “come risultato della contrapposizione tra
      l’individuo e la struttura sociale”, il suo “testo” è il dialogo
      con una realtà che è pero “aperta alla negoziazione”, il suo campo
      di azione e di esplorazione è il conscio. Nel gruppo allargato della CT
      ci si trova però di fronte massimamente alla qualità propria
      dell’organizzazione con il funzionamento tipico del gruppo di lavoro con
      i suoi obiettivi, i suoi tempi scanditi, le sue attribuzione di
      significato, le sue gerarchie (ed in questo in particolare differisce dal
      gruppo mediano terapeutico: ci riferiamo alla copresenza in CT di 2
      gruppi, quello degli ospiti e quello degli operatori). Il gruppo allargato
      della CT diventa ben presto un universo microculturale con le proprie
      leggi e categorizzazioni interne, talvolta alternative o in contrasto con
      la macrocultura sociale (se non altro per il clima di tolleranza e
      democrazia che vi è spesso in una CT e che “fuori” è ben più
      difficile trovare), talora invece contigue e osmotiche. Tale microcultura
      “terapeutica”, sviluppa l’appartenenza dei propri membri
      all’interno di un sistema di significazioni e di rappresentazioni
      mediando attraverso il dialogo e lo spirito di ricerca che le sono propri,
      e consentendo all’ospite di CT di modificare i propri codici
      sub-culturali familiari e sociali. La terapia comunitaria nel gruppo
      allargato corrisponde inoltre al continuo sforzo dell’équipe di
      preservare il funzionamento tipico del “gruppo di lavoro” che incide
      sul livello conscio e sulle potenzialità di apprendimento (come ad es.
      apprendere ad avere un proprio posto, un proprio spazio di parola, propri
      diritti e doveri) degli individui. La CT deve saper promuovere quella che
      De Maré chiama “dimensione laterale” od orizzontale, tipica del
      linguaggio del gruppo allargato, quella “cultura del dialogo” che non
      appartiene agli stadi narcisistici dei pazienti gravi: la dimensione
      laterale, by-passando quella verticale e gerarchica, accede al confronto
      “realistico” multipersonale che De Maré definisce come “setting
      pre-politico”, un setting cioè che è transizionale tra quello
      familiocentrico e quello sociale a metà strada tra parentela e amicizia,
      tra consanguineità e società. Il lavoro terapeutico delle CT a livello
      del gruppo mediano è quello senz’altro meno esplorato, ma allo stesso
      tempo è probabilmente il lavoro più specifico poiché è su questo
      livello che si dispiegano i percorsi dell’appartenenza qui intesi come
      percorsi che attivano nuovi temi culturali che sono in grado di
      trasformarsi in eventi simbolici per l’ospite di CT. Normalmente questo
      “fattore terapeutico” agisce (quando agisce) in maniera implicita e
      latente, all’insaputa dei curanti. Il passaggio di un ospite
      all’interno del campo mentale della CT non si risolve certo in
      un’operazione meccanicistica di “riparazione” di aspetti
      disfunzionali, ma si tratta di un’esperienza che incide profondamente
      sulla sua identità e sulla sua personalità. Tale incidenza trasformativa
      utilizza precipuamente strumenti culturali: modalità relazionali, prassi
      e consuetudini gruppali e istituzionali, nuovi stili narrativi, nuove
      declinazioni simboliche della realtà, nuove gerarchie valoriali, nuove
      scansioni spazio-temporali, nuovi interessi. Tutto ciò, secondo la nostra
      esperienza, risulta essere più “terapeutico” di molti altri
      interventi ritenuti comunemente efficaci e richiede una permanenenza
      temporalmente di media durata (2-4 anni). 
       
      La scena sociale 
      L’area sociale è l’interfaccia mentale di tipo metacontestuale: essa
      precede e contiene individui, famiglie e gruppi così come contiene le
      aree duali e gruppali della mente. Nella patologia grave molto spesso
      anche questa dimensione mentale è disinvestita e successivamente vissuta
      come pericolosa e intollerabile: in questo caso, la dimensione sociale
      “transpersonale” emerge nell’individuo e nella sua corporeità nella
      sua forma panica e demoniaca, senza cioé alcuna mediazione simbolica e
      culturale. Non a caso, le forme deliranti assumono sempre degli
      “organizzatori sociali automatici” sottoforma di stereotipie,
      personaggi, situazioni e schemi ricorrenti e socio-culturalmente definiti:
      Dio, il Diavolo, il Potente, l’Aristocratico, Il Persecutore, il
      Perdente, il Deviante, il Bello o il Perfetto (il Magro), il Brutto, etc.
      Diciamo subito che a livello dell’area sociale e delle sue
      rappresentazioni il lavoro della CT diventa più complesso, ed il rischio
      di brutali semplificazioni è sempre dietro l’angolo. Ci riferiamo in
      particolare alla frequentissima burocratizzazione dell’intervento
      sociale e all’interpretazione di esso nei termini di intrattenimento
      ergotaerapico, o di sterile attività di “socializzazione”: in questo
      caso è la psicosi (ma non la psicosi della persona sofferente, bensì
      quella sociale) che vince nella misura in cui include tutta la società e
      i suoi rappresentanti istituzionali nel suo delirio. Il lavoro sociale
      della CT è quello di costruire le condizioni di un apprendimento/riapprendimento
      sociale, e questo può avvenire soltanto all’interno della circolarità
      transizionale della mente di cui la CT si prende cura globalmente, se cioé
      l’esperienza di CT, nel suo insieme, per un paziente risulterà
      realmente “correttiva” e riparativa, se riuscirà a fare proprie
      modalità relazionali, strutture mentali sane, se riuscirà a trovare,
      attraverso la CT, un luogo (interno ed esterno) di appartenenza,
      d’identità, di apprendimento di valori quali la partecipazione, la
      solidarietà, il dialogo, l’amicizia, l’amore. In questo senso, la CT
      diventa quel mediatore simbolopoietico e culturale che è mancato nella
      storia psico-socio-patologica del paziente, un possibile ponte che
      congiunga sponde in precedenza lontane. Il lavoro delle CT sull’area
      sociale della mente va posto innanzitutto come un “a priori” che
      riguarda il modello terapeutico e l’approccio alla gravità. Non
      crediamo né alla Comunità-Famiglia alternativa alla famiglia naturale e
      alla società (pur essendo questo il mandato sociale prevalente e, a
      volte, l’unica strada praticabile) che taglia fuori il mondo esterno
      perché persecutorio e inaccogliente, né alla Comunità-Dormitorio dove
      l’enfasi dell’adattamento a tutti i costi ai criteri prestazionali
      taglia fuori i bisogni di appartenenza e di costruzione d’identità
      dell’individuo. La CT deve essere in grado di pensare al “dopo” dei
      propri pazienti già dal loro ingresso, in termini realistici e
      soprattutto lo dovrà fare con altri soggetti (famiglia, altre
      istituzioni), ma lo dovrà fare pensando in primo luogo alla propria
      collocazione socio-culturale: se è in grado di dialogare con altre
      istituzioni o di attivare un dialogo laddove esso sia carente; se è in
      grado di stabilire legami e alleanze territoriali significativi e
      duraturi; se è in grado di coinvolgere le famiglie nei progetti
      terapeutici; se è in grado di immaginare la vita dei propri ospiti al di
      fuori del proprio dominio; se è in grado di concepire se stessa come una
      realtà osmotica i cui confini sono permeabili (la CT che occupa
      l’esterno e l’esterno che occupa la CT); se è in grado di preparare
      l’uscita dei pazienti; se è in grado di partecipare al dibattito
      scientifico-culturale sulla psicosi; se in grado, infine, di formare i
      propri operatori allo specifico lavoro di reinserimento sociale. Va detto,
      ad onor del vero, che la storia “antiistituzionale” italiana che ha
      prodotto le rare e insufficienti esperienze comunitarie, ha posto queste
      ultime in una posizione di marginalità e di contrapposizione, nonché di
      minoranza. Questo, fino ad oggi, ha reso la vita delle CT, pubbliche e
      private (privato-sociale), davvero molto difficile, con esiti molto spesso
      negativi: si ripropongono ciclicamente problemi di disconoscimento e
      disconferma del lavoro svolto dalle CT relativi alla stessa opportunità
      di questo tipo d’intervento; si riattivano modalità subdole di
      boicottaggio “burocratico”; si rende impraticabile il lavoro di rete e
      di collaborazione tra i servizi, che sembrano parlare linguaggi del tutto
      differenti; si continuano ad ignorare le peculiarità dell’intervento
      comunitario attraverso processi perversi di delega per pazienti di cui
      “non si sa che farne”. Un’équipe di CT deve essere pienamente
      consapevole di appartenere ad un tale contesto sociale multiforme dove
      coesistono drammatiche contraddizioni, ambiguità e processi di
      alienazione, ma dove vi possono essere enormi potenzialità da utilizzare:
      basti pensare allo sviluppo delle imprese sociali e alle innumerevoli
      risorse sociali di umanità e di mezzi a cui la stessa CT può accedere se
      soltanto accogliesse tali contraddizioni come uno degli aspetti del lavoro
      con la “psicosi”. In questo senso, la cultura istituzionale, incarnata
      da responsabili e operatori e dalla loro capacità organizzativa ma anche
      dalla loro fantasia, diventa quel fattore discriminante che consente
      all’ospite di CT di “praticare” il mondo sociale senza grandi
      tensioni e senza troppe sollecitazioni alla competizione. 
       
       
       
      IL LAVORO CON LE FAMIGLIE E LA PRESA IN CARICO DELLE MULTIAPPARTENENZE
      DELL’OSPITE DI CT 
       
      LA SEPARAZIONE 
      Abbiamo detto in precedenza, tra le definizioni di contesto della CT,
      della discontinuità del rapporto paziente/famiglia che in ogni caso si
      viene a creare con l’ingresso dell’ospite in CT. Tale discontinuità
      non significa in alcun modo sradicamento, riazzeramento e reinfetazione
      dell’ospite nella CT, come in alcune realtà comunitarie avviene nella
      speranza che alla rigida separazione fisica dalla famiglia corrisponda
      anche una separazione psichica ed un’emancipazione maturativa, ma si
      tratta di un progetto che avviene col consenso di tutte le parti in causa:
      paziente, famiglia, CT, servizio inviante, che sono qui intesi tutti come
      clienti del servizio della stessa CT e nodi di un’unica rete. È dunque
      una separazione puramente “strategica”, non assoluta, che non assume
      certo i caratteri di radicale frattura o peggio di abbandono da parte
      della famiglia, ed è una separazione a cui di per sé non consegue né
      alcuna certezza terapeutica, né alcun cambiamento interno del paziente.
      Ricordiamo infatti con Torricelli (1997, 1998) che:
      <<L’allontanamento del paziente dal suo contesto originario,
      infatti, per quanto comporti la separazione fisica, non costituisce
      tuttavia una soluzione di continuità rispetto al meccanismo familiare di
      strutturazione della psicosi, come dimostra tutta la pratica manicomiale:
      in mancanza di stimolazioni dall’esterno la famiglia semplicemente “si
      ristrutturerà sull’assenza” del paziente designato, ma sempre e
      comunque all’interno delle regole e delle modalità relazionali usate in
      precedenza, lasciando così di fatto immodificate la condizioni che
      sostengono la sintomatologia psichiatrica>>. Senza il consenso
      esplicito e l’alleanza di paziente e famiglia, riguardo la proposta
      progettuale della CT, risulta a mio parere vano e velleitario ogni
      tentativo terapeutico, così come risultano ingestibili quelle situazioni
      per le quali non è consentito al paziente di contattare e rivedere la
      famiglia, considerata, a torto o a ragione da parte degli operatori della
      CT, la fonte patologica e l’origine di tutti i problemi del paziente.
      Quando gli operatori colpevolizzano la famiglia (anche soltanto
      implicitamente) è già probabilmente in atto una dinamica collusiva (che
      però alcune volte appare un passaggio obbligato) che di fatto ostacola la
      comprensione del paziente e lo svolgimento del percorso. 
       
      LE STORIE 
      La prospettiva che qui viene proposta è quella che parte dal considerare
      la famiglia ed il paziente di cui fa parte, come il punto di arrivo di una
      lunghissima storia di cui nessun membro della famiglia, e il paziente meno
      che mai, è veramente e consapevolmente portatore, ma soltanto
      “esecutore”. Il paziente è dunque l’ultimo capitolo di una trama
      transgenerazionale che appare sconosciuta. A fronte di questa impossibilità
      di visualizzazione da parte dei membri della famiglia delle vicende e
      delle connessioni storiche, gli operatori della CT dovrebbero fare
      attenzione ad entrare nel mondo familiare del paziente con la massima
      circospezione come converrebbe che facesse chiunque entrasse in un
      territorio inesplorato. Risulta dunque che le storie familiari di cui sono
      rappresentanti gli ospiti della CT, sono quasi sempre storie che ad un
      certo punto s’interrompono, o meglio ancora, sono storie che
      s’impantanano in territori di non-senso, conducendo il paziente a
      frenare, anche bruscamente, il suo percorso maturativo e a bloccare ogni
      compito evolutivo personale e sociale: la persona si isola, si chiude in
      casa, disimpara a lavorare, a studiare, a frequentare gli amici, a
      contattare i partners, ad interessarsi di aspetti creativi: entra in una
      circolarità “viziosa” nella quale esiste solo il disagio ed i
      sintomi, ultime vestigia di una comunicatività divenuta impossibile,
      residui tossici privi di significato, quasi come se alcune parti della
      mente fossero morte o danneggiate. Ciò che sembra avvenire è che il
      paziente e, molto spesso, la sua famiglia non sono più in grado di
      leggere la realtà ed interagire con essa, come se la storia di cui sono
      portatori non consentisse di procedere oltre: qualcuno si ferma ai compiti
      adolescenziali fermandosi sul bordo della vita adulta o molto prima
      (studi, servizio militare, primi compiti sociali, lavoro, affetti,
      sessualità); qualcuno sembra andare oltre: sostiene i primi esami
      universitari, o si laurea, o si sposa, mette su famiglia, lavora più o
      meno stabilmente, ma all’improvviso sembra non riuscire più a sostenere
      i propri compiti e i propri ruoli. Queste storie familiari, inoltre,
      contengono sempre dei traumi antichi o recenti: lutti, separazioni,
      trasferimenti, fallimenti economici, tradimenti, eventi incomprensibili e
      improvvisi, tentativi emancipativi andati a vuoto,
      frustrazioni-castrazioni-umiliazioni-vergogne non metabolizzate, etc..
      L’aspetto che invariabilmente, in tutte queste storie, è evidente agli
      occhi dell’osservatore o del terapeuta è che quello che appare
      incrinato e compromesso è proprio il passaggio dell’individuo tra il
      mondo familiare e quello sociale, un passaggio - un ponte crollato - che
      non consente più gli attraversamenti che in precedenza sembravano più
      agevoli tra i due mondi. Il paziente “cade” o “recede”
      all’interno di una monoappartenenza che coincide con la propria storia
      familiare divenuta insufficiente nel raccontare il mondo o parti
      essenziali di esso. L’individuo (e la sua famiglia) non maneggiano più
      (o non hanno mai maneggiato) i codici socio-culturali e si vedono
      costretti a raccontare una storia molto semplificata di se stessi e della
      realtà circostante; il paziente, dal canto suo, tenta di raccontare
      un’altra storia, la sua storia, una storia che disperatamente salvi le
      “capre” della sua appartenenza e della sua pesante storia familiare e
      i “cavoli” dei suoi desideri emancipativi al di fuori del modo
      familiare. Ma questo tentativo segna l’inizio della “malattia” poiché
      la capacità simbolopoietica dell’individuo risulta a questo punto in
      larga misura carente o impossibilitata a svolgersi, e la storia che ne
      vien fuori è spesso una teoria alternativa alle codificazioni sociali
      (delirio), o una non-storia fatta di silenzio e di non-senso
      (depressione), o una storia estremamente conflittuale nella quale non c’è
      posto per il narratore (disturbo di personalità). Viene a mancare dunque
      un’autentica multiappartenenza dell’individuo, viene a mancare cioè
      una “sana dieta mentale” che consenta di integrare gli “alimenti”
      e di nutrire la mente dell’individuo con cibo opportunamente scelto al
      di fuori della cucina di casa. Il lavoro della CT diventa allora quello di
      riattivare e rivitalizzare quei processi interrotti dalla malattia, che
      nell’ottica qui utilizzata, corrisponde a lavorare intensamente con le
      famiglie degli ospiti di CT affinché si rimettano in circolo ed in
      collegamento quelle storie sepolte o se-cluse che sono alla base dei
      problemi del membro familiare e che permetta ad esso di muoversi
      attraverso altre appartenenze con un maggiore grado di libertà. È
      possibile immaginare diverse situazioni in cui avvenga l’ascolto dei
      temi e delle storie familiari: 
       
      · incontri periodici con le singole famiglie alla presenza dell’ospite;
      la finalità esplicita di questi incontri può essere variamente definita
      a seconda della famiglia, ma ribadendo in ogni caso l’interesse e
      focalizzando l’attenzione sulla storia, remota e attuale, della
      famiglia, come aspetto importantissimo e imprescindibile del lavoro
      terapeutico; 
       
      · incontri periodici con il solo gruppo dei familiari degli ospiti (senza
      la presenza degli ospiti); una sorta di “comunità parallela” di
      parenti che si costituisca come gruppo autonomo che nel tempo acquisisca
      la capacità di confrontarsi, di raccontarsi e di sostenersi; 
       
      · incontri periodici con tutti i familiari e tutti gli ospiti secondo il
      modello di Garcia Badaracco (modello che a mio parere risulta essere
      difficilmente esportabile). 
       
      Tale lavoro può essere svolto dunque in molti modi e con molte tecniche (gruppoanalitiche,
      psicodrammatiche, psicoanalitiche, sistemico-familiari, etc.), ma ciò che
      più conta è mantenere la tecnica e le finalità terapeutiche
      “dirette” sullo sfondo: gli incontri dovrebbero avvenire in un clima
      di accoglienza, cordialità, collaborazione e informalità, senza cioè
      che le famiglie sentano in alcun modo di essere sottoposte ad interventi
      terapeutici o peggio ancora a processi sommari (ricordiamo infatti che la
      “domanda terapeutica” che la famiglia fa su se stessa è quasi sempre
      formalmente assente, proprio perché totalmente focalizzata su un solo
      membro). È importante quindi che vi sia da parte dei conduttori una
      grande capacità di empatia oltre una grande pazienza e rispetto per le
      difficoltà dei familiari: una presenza “leggera”, ma comunque attenta
      e orientante. 
       
       
      L’ANALISI
      DELLE ASPETTATIVE 
       
      Vanno chiariti, inoltre, prima ancora dell’ingresso del paziente in CT,
      i termini e i motivi della partecipazione della famiglia alle attività
      della CT. È fondamentale infatti con ogni famiglia il lavoro
      “contrattuale” precedente all’ingresso, durante cioè la fase di
      conoscenza (dia-gnosi) e di preparazione del futuro ospite e della sua
      famiglia. Tale lavoro può svolgersi con una serie di incontri preliminari
      nei quali sia possibile svolgere una serena ma puntuale analisi delle
      aspettative riguardante tutti gli attori in gioco. Infatti, già da tali
      aspettative si evincono una serie di informazioni utili per lo svolgimento
      del progetto stesso. Spesso queste aspettative sono, in un certo senso,
      “alterate” dalla condizione patologica di cui è portatore il
      paziente, e risultano, da parte dei diversi soggetti, a volte
      irrealistiche e sopravvalutanti, a volte insufficienti e svalutative, a
      volte inesistenti, altre volte ancora malriposte e inadeguate, il più
      delle volte tutto ciò insieme e contemporaneamente. Una delle possibile
      chiavi di lettura eziologica del disturbo del paziente è il vertice di
      osservazione delle aspettative familiari: il paziente sembra essere stato
      da sempre al centro di aspettative errate o di “desideri impossibili”
      da parte del suo ambiente di crescita; egli diventa dunque portatore di
      una domanda esistenziale che non gli appartiene e portavoce del
      “desiderio inadeguato” di qualcun altro. Questa “storia” sembra
      perciò ripetersi con tutti coloro che di lui si prenderanno cura. A
      conferma di ciò è infatti facile osservare, riguardo le aspettative sui
      pazienti da parte di famiglie e curanti, l’oscillazione - alcune volte
      anche per il medesimo paziente - tra negazione del disagio, delle
      difficoltà e senso d’impotenza paralizzante rispetto alle stesse
      difficoltà. L’operatore e l’équipe si trovano così stretti nella
      “tenaglia” di aspettative di guarigione e risoluzione definitiva delle
      problematiche ed aspettative di segno opposto, di inutilità del proprio
      intervento. Svincolarsi da questa stretta è operazione ardua e complessa
      e richiede una grande dose di pazienza da parte dell’équipe di CT. A ciò
      si aggiungono le ansie legate alle urgenze, spesso presenti nelle famiglie
      dei pazienti e talora in alcuni colleghi collusivamente coinvolti, che
      producono delle vere e proprie “accelerazioni temporali” nei vissuti
      dei curanti che di fatto fanno perdere di vista alcuni bisogni
      fondamentali del paziente e che peggiorano la lucidità dell’intervento.
      Per uscire da questa empasse occorre in primo luogo e preliminarmente
      ristabilire i tempi terapeutici idonei stabilendo una processualità e una
      sequenza di tappe che allentino la tensione; successivamente occorre
      sciogliere la matassa delle aspettative analizzandole insieme ai
      protagonisti della cura, a cominciare ovviamente dalle proprie.
      Successivamente ancora vanno posti alcuni obiettivi minimi auspicabili e
      soprattutto realizzabili. Occorre inoltre, una volta posti tali obiettivi
      minimi, ulteriormente temporalizzarli e definire alcune scadenze,
      prendendosi però tutto il tempo necessario per svolgimento del lavoro.
      Occorre dire che in generale, già dalle fasi iniziali di un rapporto
      terapeutico, l’esplicitazione e la condivisione col paziente e la sua
      famiglia di alcuni obiettivi, anche minimi o transitori, rappresenta un
      punto di appoggio ineludibile per costruire con loro una primaria ed
      embrionale forma di alleanza terapeutica. Il paziente e la sua famiglia
      però, molto spesso, sembrano non avere alcuna idea, o hanno un’idea
      molto confusa, della natura del problema che riguarda loro, questo
      essenzialmente perché i problemi di natura “mentale” producono
      spesso, come detto in precedenza, come effetto secondario la riduzione
      dell’esame di realtà, a volte in forme estreme, per cui appare
      difficile convergere con paziente e familiari su un terreno comune
      riuscendo al contempo ad individuare insieme quali sono i veri “nemici
      da combattere”. L’alleanza terapeutica non è dunque un’operazione
      immediata e spontanea, ma passa probabilmente attraverso una fase
      preliminare di “alleanza diagnostica”, indicando con questo termine la
      paziente ricerca comune degli aspetti problematici principali, intesi come
      aspetti-chiave della situazione del paziente e che egli stesso tende a
      conservare e allo stesso tempo ad ignorare. Col passare del tempo e della
      reciproca conoscenza, ci si augura che si sviluppi una sufficiente fiducia
      da parte di paziente e famiglia che consenta l’articolazione del
      progetto stesso attraverso obiettivi più specifici. 
       
       
       
      CONCLUSIONI 
      Il lavoro residenziale di una CT, attraverso la sua quotidianità, è
      (chiarito il problema dei criteri selettivi) un potentissimo attivatore di
      salute mentale, oltre ad essere un potentissimo e privilegiato setting
      osservativo e terapeutico. Tale lavoro pone però preliminarmente, proprio
      perché fondato sulla compartecipazione degli spazi psichici e fisici, i
      problemi cruciali del rapporto tra osservatore e osservato e della
      distanza tra parte curante e parte curata, tant’è che in tale contesto
      diventa particolamente ardua l’individuazione di “cosa” osservare,
      di “come” curare, e di quali sono i fattori di efficacia terapeutica.
      Inoltre, la gravità della tipologia di pazienti che accede alla CT, pone
      ulteriori problemi di gestione, di setting e di organizzazione, nonché
      problemi di integrazione, di comunicazione e formazione dell’équipe
      curante. L’idea di considerare l’articolazione delle aree mentali in
      relazione isomorfica e dialettica con l’organizzazione dell’ambiente e
      degli spazi di pensiero e di significazione all’interno di una
      transizionalità circolare delle aree mentale e degli interventi, fonda
      l’intervento comunitario sul concetto di globalità (di setting, di
      campo relazionale, di percorso terapeutico): in questo senso la CT è il
      luogo elettivo dell’integrazione degli interventi terapeutici. Il lavoro
      con le famiglie degli ospiti di CT, lungi dall’essere una variante o
      un’opzione del lavoro terapeutico con i pazienti nella CT, è invece
      totalmente integrato allo specifico della CT e quindi essenziale per il
      buon esito della terapia. Esso viene concepito come presa in carico della
      multiappartenenza del paziente ai differenti contesti di vita e ai diversi
      momenti fondativi della sua personalità (famiglia, gruppo sociale
      ristretto e allargato) e come assunzione della “criticità” della sua
      storia personale e familiare. Questo modo di prendersi cura di pazienti
      psicotici richiede non indifferenti sforzi organizzativi ed economici, ma
      soprattutto una motivazione particolarmente forte da parte degli
      operatori. 
       
       
       
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      (*)
      CONTRIBUTO PUBBLICATO, IN VERSIONE MENO ESTESA, IN “INTERAZIONI”, F.
      ANGELI EDITORE 
      
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               La
              comunicazione assertiva 
              di 
              Lanari Gianni,  Calbi Nunziata - Ed.
              Finson 
              L'assertività
              o arte del rapporto interpersonale è, in Italia, una disciplina
              ancora misconosciuta. Essa descrive un modo di agire e uno stile
              relazionale in cui il rispetto dei propri desideri e bisogni
              riveste un ruolo di primo piano, mantenendo allo stesso tempo
              l'attenzione ai diritti e all'uguaglianza tra le persone. Il
              manuale guida il lettore lungo un percorso di crescita e
              auto-miglioramento che conduce all'equilibrio con se stessi e a
              una migliore interazione con gli altri...  | 
           
         
        
       
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